Articles by: Gennaro Matino

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    Accarezziamo di amore...

    Non è la prima volta che sento tale lucida richiesta, non mi sorprende, non mi scandalizza, capisco chi fa i conti con una sofferenza insopportabile che sembra svestire d'umano la sua storia e pensa che anticipare la sua morte sia l'unica via d'uscita per non svendere l'onore. Morire con dignità, questa la richiesta, che oggi ad alcuni sembra ancor di più necessario dover gridare, dopo che i media hanno raccontato l'esperienza di Dj Fabo, non la sola di dolore immenso, dolore immenso forse lasciato troppo solo. Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere, prima che la sofferenza della fine lo distrugga al punto da farlo vergognare di essere uomo. Per molti autorevoli commentatori è inaccettabile lo spettacolo della sofferenza del condannato a morte.

    È una ferocia non liberare dallo strazio chi potendo chiederebbe di essere soppresso. Nel suicidio consapevole, ha scritto qualcuno, responsabilmente esercitato c'è una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di essere padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare. Così la morte come rimedio al dolore arriva ad essere concepita quasi come eroismo, e chi sceglie di "partire" prima, un eroe popolare, un'icona da prendere ad esempio: l'eutanasia, fine alla sofferenza, anticipo di morte, si trasforma in un'antica e resuscitata virtù. Comprendo le motivazioni, sono certo che chi le ponga abbia a cuore solo la compassione.

    Legittimo ritenerlo. Tuttavia è legittimo anche ritenere, fuori dal clamore del potere mediatico, che fa dell'eccezione sistema, mentre troppo silenzio cala invece sulla quotidianità di chi vive il dolore anche estremo con dignità, che possa esserci un eroismo contrario.

    Un eroismo molto più diffuso, vissuto come offerta di sé e che, non solo la mia fede, ma la mia stessa dignità di uomo, spinge a considerare un'esaltante esperienza di vita benché il dolore: il morire quando la morte, che arriva a suo tempo, abbia avuto il tempo di fare il suo mestiere. La morte fa parte della vita, come è parte della vita la sofferenza.

    Sono contrario a ogni accanimento terapeutico che prolunghi un'esasperata sopravvivenza. Lo spettacolo del dolore è spettacolo a cui mi costringe il quotidiano e che certo mi provoca e pone domande anche alla mia fede: "Fino a quando? Perché la sofferenza dell'innocente? ". Prego perché le sofferenze di chi sta morendo finiscano presto, spero che la medicina abbia strumenti per spegnere il dolore. Tuttavia ritengo che la fine della vita è pur sempre vita, ritmata dalle stagioni e dagli avvenimenti di ogni giorno e che questo segmento di vita non è tempo superfluo, è un bene concesso, un'esperienza comunque umana. Non giustifico il dolore, lo combatto, ma eroismo non può essere negare la sofferenza togliendosi la vita. Rischioso allargarne il concetto, come il dover stabilire quale sia il limite della vergogna, lo spazio concesso alla libertà del morire per garantire la propria dignità. Una mamma che ha perso il figlio qualche giorno fa mi ha confidato: "Vorrei farla finita, il dolore è insopportabile ".

    Ha torto? Ma c'è di più: a ben leggere l'eutanasia e l'accanimento terapeutico sono facce della stessa medaglia. Solo chi davvero è contro il potere assoluto della medicina, e non crede che la scienza abbia una risposta a tutti i problemi, ha anche l'umiltà di governare le contraddizioni della sofferenza.

    Solo chi conosce la vita, e impara ad accettarla nella sua verità, fa i conti con il dolore e la morte. La presunzione di resistere alla morte quando è arrivata l'ora o di anticiparla quando ci sembra troppo in ritardo sono di uguale natura. Il delirio di onnipotenza non permette all'uomo di accettare la natura e inchinarsi di fronte all'evidenza della morte. Provare a resistere all'inevitabile è eroico o temerario? Fuggire dallo strazio della morte è coraggio o vigliaccheria? Fino alla sua morte il morente resta un uomo e da uomo dovrà attraversare quel baratro inevitabile che agli spettatori sprovveduti del suo dolore apparirà come il baratro della vergogna. Ma lo è davvero? Per il momento sarebbe più giusto accarezzare di amore chi ci chiede di essere soppresso forse solo per non dare fastidio, solo per non darci l'angoscia di pensare alla morte.

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    La notte che stiamo vivendo

    l neo presidente Trump degli Stati Uniti sta inaugurando la stagione di una nuova notte per l’umanità. Non è improvvisazione stravagante di un personaggio tragicomico, è bene saperlo, è strategia studiata con diabolica astuzia da poteri forti, per sovvertire le regole democratiche del pianeta, quegli stessi poteri figli di un’economia diabolica che, se fosse necessaria una guerra globale per riuscire nello scopo di asservire il mondo, oggi non esiterebbero a organizzarla.

    Ci sono notti dell’umanità, come questa che stiamo vivendo, nelle quali chi è sopravvissuto alla barbarie contro la libertà di pensiero, chi ancora si oppone al sopruso dell’arroganza passata come necessaria, avverte che la storia sta per partorire qualcosa di tragico, di grave, di pesante, e sente urgente il bisogno di gridarlo, di dover fare la sua parte perché questo non avvenga.

    Mettere la testa sotto la sabbia non paga, o peggio è farsi complici di falsità, di illusione, di inganno. È ciò che sta avvenendo anche in Italia e a Napoli dove non mancano simpatizzanti del nuovo corso mondiale, c’è chi spera che Trump e il “trumpismo” finalmente riconsegnino ciò che si è perduto in pace, in economia, in stabilità, in sicurezza fino a sostenerne il senso. È bene saperlo, le dittature fasciste e comuniste, che hanno provato a distruggere il pianeta nel secolo scorso, oggi hanno cambiato pelle e si sono ripresentate nel dispotismo neoliberistico che viene venduto come democrazia.

    E questa volta rischiano di non fallire, potrebbero portare a compimento il loro malato disegno. Hanno dalla loro la forza dell’ignoranza che dilaga, cartina di tornasole per riconoscere gli sprovveduti, i distratti, forse gli sfiduciati, gli arrabbiati, per proporre loro l’allettante scambio tra interessi di parte e giustizia, tra la propria sopravvivenza e la distruzione del diverso, tra confini protetti e isolazionismo, ma soprattutto, mestiere di sempre dei dittatori spietati, la propria vita a costo della morte altrui. È indubbio che la prima parola sacrificata sull’altare della tirannia è la compassione, lo spazio che consente all’uomo di restare uomo anche se il mondo sembra girare in maniera inversa.

    La compassione, luogo sacro che unisce chi è diverso per fede, chi crede e chi non crede affatto, chi è differente per pelle, per sesso, per pensiero o provenienza, chi ancora ha il coraggio di dire “ogni uomo mio è fratello”.La compassione è un campo aperto dove non c’è necessità di etichette, di biglietto d’ingresso, né di raccomandazioni. Ogni zolla del terreno della compassione è irrorata di speranza, altra cosa dall’illusione del potere corrotto che prova a minare lo statuto dell’uomo giusto, a cambiarne i connotati, che finge di augurarti buone cose e poi tradisce. Ora innalza muri, ma ha in mente lager, parla di sicurezza ma prepara strumenti di tortura, prova a rassicurati mettendoti nelle mani le armi solo perché sta per chiederti di scendere in guerra.

    Esiste un campo sconosciuto ai tiranni dove la diversità non è più opposizione, dove uomini e donne, vecchi e giovani si fanno compagnia. Esiste un campo dove basta entrarci per riscoprire la dignità della vita e la nostra appartenenza al genere umano. La compassione è la sola arte che permette di ridare nuova semente a un mondo sfigurato dal dispotismo dei tiranni. È l’arma congeniale agli uomini d’amore per arricchire i poveri e liberare i prigionieri. È la vittoria degli sconfitti, la tavola imbandita dei nullatenenti, il tesoro nascosto nel campo dei disgraziati di turno, è faro nel buio pesto del non senso.

    Anche per il credente la lotta per un mondo migliore non può fermarsi alle preghiere o alle buone intenzioni, quando il nemico bussa alla porta dell’umanità deve sempre ricordare che credere è essere in perenne lotta contro ogni sopruso: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.

    Solidarietà dice compassione. Ma è altro. Compagnia dice solidarietà. Ma è altro. Compassione è entrare nella sofferenza dell’altro, farsi carico del dolore e rendersi complice degli afflitti per gridare con la propria voce, a nome loro, l’indisponibilità a cedere alla prepotenza dei più forti, da qualsiasi parte arrivi. Lottare a fianco, camminare a fianco, giocare a fianco, piangere a fianco.

    Vita che da vita si nutre e della vita si fa giocoliere. Trump e i suoi alleati, per strategia di potere, mirano per prima cosa a cancellare la compassione dal vocabolario del presente, per fare subito dopo prigioniero il mondo. Il passo è veloce, e lo sarà ancora di più se i giusti del pianeta non faranno diga al dilagare dell’ignoranza.

  • Napoli. Rione Sanità, La statua dedicata a Genny Cesarano, vittima innocente della camorra
    Opinioni

    Omertà. Quando si diventa veri cittadini?

    Omertà. Avrei voluto scrivere un altro pezzo, avrei voluto raccontare un’altra storia, quella che in realtà avevo già scritto e non ancora inviata al giornale, una storia come questa: “Omertà. L’alto dei palazzi sgrida la piazza: se la legge non fa il suo corso, se la giustizia frena è colpa della gente che tace, obbligata alla regola del silenzio, da quella consuetudine culturale che fa di un ambiente dominato dalla camorra, una terra di regole diversamente ordinate”. Avrei scritto: “La paura è colpa certo, ma è anche difesa per chi non sa essere eroe, per chi vuole essere solo un uomo normale”.

    Ma qualcosa si è rotto, qualcosa mi ha detto che non sempre la prima impressione è quella giusta: ti accorgi che c’è altro e non puoi che raccontarlo. Alex Zanotelli, che apprezzo per il suo impegno coraggioso, come i tanti amici che molto più di me lottano per una Napoli migliore, dichiara che nel caso di Genny Cesarano, vittima innocente della camorra alla Sanità, passato ingiustamente come colluso, non c’è stata omertà, gli inquirenti avrebbero esagerato, non si poteva pretendere da quattro ragazzini, schiacciati dal terrore delle pallottole, il coraggio della verità. Lo stesso sembra dichiarare il padre di Genny.

    È una dichiarazione rischiosa e per questo non sono d’accordo con Alex dal quale proprio per la sua lotta mi sarei aspettato un giudizio diverso: il silenzio è dolo, lo è sempre, ancora di più se a morire sotto i colpi è un innocente, un ragazzo, un amico che ha portato per un anno e più, dopo il martirio, la croce addosso del sospetto di essere lui stesso camorrista. Un popolo è in cammino se sa insieme lottare contro il potere del male, se insieme si assume la responsabilità di fare barriera al sopruso forte della verità.

    Ognuno fa il suo mestiere ma un appello alla legalità, una marcia anticamorra, il professionismo dell’antimafia, una predica o una scomunica al malaffare non è detto che riescano a convertire una città, che normale non è, e a convincere la gente a cambiare il proprio sillabario. Si dice che più che prendersela con la gente che non parla, altro le istituzioni dovrebbero pretendere, altro dovrebbero produrre: lavoro, controllo del territorio, scuola. Tutto giusto e di certo va dato merito a chi con abnegazione, sostituendosi spesso allo Stato, proprio nel rione Sanità ha creato percorsi, progetti ambiziosi di liberazione e di riscatto sociale.

    Ma l’omertà resta come malapianta in quel tessuto sociale che fa di chi lo abita, liberato o meno dalla camorra, un connivente con il suo potere perché vissuta come inevitabile, invincibile, indomabile. Quanti anni bisogna avere per raccontare che un amico è stato trucidato dalla vigliacca mano della camorra? Che scuole bisogna aver fatto? Quand’è che si diventa cittadini capaci di dare un significato a questo nome? Certo i ragazzi non sarebbero dovuti essere stati lasciati soli e di sicuro quegli adulti che hanno raccolto la loro confessione sono più responsabili se hanno pensato bene che il silenzio potesse garantire protezione.

    Un popolo in cammino è quello che offre la sua forza di coesione per farsi voce della protesta, ma lo è di più se la sua proposta di legalità sa offrire perfino itinerari di civile eroismo che fa della verità, sempre e in ogni caso, il suo vessillo. Ed è verità che il lavoro manca perché lo Stato non fa abbastanza ma soprattutto perché lo ruba la camorra, ed è verità che il controllo del territorio da parte dello Stato non è garantito perché la camorra lo controlla meglio, è vero che la scuola non dà adeguata formazione perché la camorra offre la sua scuola come facile guadagno, ma è suprema verità che la camorra vince anche perché l’omertà glielo consente.

    Come sarebbe stata diversa la storia se quegli sventurati amici di Genny Cesarano passata la notte della paura, confidata a un amico, a un adulto, forse a un prete l’amara disavventura, si fossero trovati in marcia con un popolo in cammino che oltre agli slogan in difesa dell’onestà del povero Genny avessero esposto sotto la Procura i cartelli con i nomi degli assassini. La loro paura sarebbe stata confortata e vinta dal coraggio di un popolo che ancora non c’è, che ancora deve convincersi, oltre gli slogan e le marce, che la camorra può essere vinta, e lo sarà se insieme, nel quotidiano, sceglieremo la trasparenza della verità che libera, sempre e in ogni caso.

    A Napoli è difficile essere eroi contro la camorra me ne rendo conto, si resta soli, e quei pochi che hanno tentato di esserlo sono stati calunniati, derisi, costretti a cambiare destinazione d’uso. Ma l’eroismo di un popolo in cammino, tutti insieme oltre il singolo, può essere la risposta per dire il no definitivo all’omertà, alla malata consistenza della camorra.
     

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    La politica ed una vita aperta al domani

    Parlare di futuro fa bene, anzi di più, è indispensabile. Solo una vita aperta al domani può dirsi veramente vita. Se c’è differenza tra un uomo vecchio e uno giovane certamente è l’età, ma gli anni, da soli, non rappresentano tutto l’ingranaggio dell’esistenza. Gioie, dolori, inganni, promesse, vittorie, sconfitte, amori, tradimenti, stanno lì, sul palcoscenico della tua storia a raccontarti la vita oltre le ore trascorse. E tra queste le più esaltanti non sono quelle che rimpiangono il passato ma quelle che aspettano ancora compimento, quelle che ragionano di speranza. È il futuro che gioca il ruolo da protagonista sulla scena della vita di chi la vita la vuole vivere davvero, piuttosto che lasciarsi vivere, di chi la vuole ancora immaginare possibile, diversa, luminosa.

    È il futuro che da solo può dirti se sei ancora dentro la vita o fuori dalla sua consistenza: se sogni, se ti dai un futuro, sei giovane a tutte le età, se ormai i rimpianti hanno surclassato la speranza, sei irrimediabilmente vecchio a ogni età. È una grande sfida ragionare di futuro, è un’impresa titanica, ancor di più quando la sensazione più diffusa tra la gente è quella che il futuro le sia stato rubato, una percezione maligna che pervade il vissuto quotidiano, che contagia, che avvilisce sempre di più, che schiaccia, paralizza ogni attesa, mortifica ogni aspirazione.

    Viene voglia di arrendersi. È difficile liberarsi dalla sensazione che la speranza sia illusione, che nulla cambia in questo nostro Paese, in questa nostra città, che non vale la pena investire sul domani perché non arriverà niente di buono, meglio tenersi strette le disillusioni, perlomeno quelle sono certe, meglio arroccarsi nel passato per andare a pescare quello che serve per raccontarci il perduto. Meglio la nostalgia che la presa per i fondelli.

    Difficile liberare i vinti dalla convinzione che una nuova sconfitta non sia dietro l’angolo, difficile convincerli che il mondo non è fatto solo da saltimbanchi, fattucchieri, chiromanti che vestono i panni del potere, che rubano sogni, che li seviziano trasformandoli in incubi, difficile persuaderli che la speranza può provocare straordinarie e inimmaginabili vittorie, ma è del visionario, del profeta, dell’innamorato, del testimone, del giusto prendersi la responsabilità di farlo, assumersi il dovere per sé e per chi si ama di ragionare di futuro, costasse la propria vita. Se sei padre, se sei madre, se sei un uomo adulto hai il dovere di passare il testimone della speranza, devi sentire l’urgenza che ti deriva dalla vita di volere per te e soprattutto per chi ti sopravanza che il futuro sia migliore, soprattutto per i più giovani che il domani sia migliore.

    Per vocazione dovrebbe farlo la politica che vive la sua più profonda crisi proprio perché ha dimenticato di dire il futuro, non sa più cosa sia rischiare da visionari, ma ragionare di futuro è fondamento di esistenza individuale, collettiva, sociale, economica, ragionare non ingannare, costruire domani senza drogare il vero, senza populistiche promesse che svendono la verità per guadagnare consensi, senza nascondere la fatica del pensare il domani. Vasco cercava un senso alla vita anche se questa vita un senso non ce l’ha, Battiato un centro di gravità permanente che non faccia cambiare idea. Il futuro potrebbe essere la risposta ad entrambi, lo è di sicuro per chi dà senso alla sua vita facendo del sogno un’impresa, per chi ha trovato risposta nel farsi domande di senso. Tra poche ore quest’anno sarà passato e i voti augurali saranno un ricordo, avremo cantato il Te Deum, mangiato lenticchie, letto l’oroscopo, ascoltato il discorso del Capo dello Stato, i capodanni degli altri emisferi, i brindisi, il cenone, i botti, le feste di piazza: anno nuovo, vita nuova. Mia nonna mi regalava sempre una carezza a mezzanotte e mi sussurrava: quello che il tuo cuore desidera.

    Splendida sintesi per dire possibile l’avverarsi del desiderio, semplice carezza per ricordare che sperare è il motore dell’esistere. Spero in una Napoli migliore e spero che i visionari ritornino a raccontarla al futuro. Spero in un Paese diverso dove i diritti del popolo ritornino ad essere argomento della politica. Spero in un uomo

     

     nuovo che sappia dare primato al suo essere uomo piuttosto che all’avere. Sogno un mondo dove la poesia abbia ancora dignità di cittadinanza e dove la bellezza e la gentilezza trovino alloggio. Sogno possibile che chi ha tanto spartisca con chi ha nulla da campare e non lo faccia per carità ma per giustizia. Auguro a tutti che l’anno nuovo porti propositi di futuro: le parole, azioni, decisioni, pensieri al futuro danno coraggio e lasciano vivi anche oltre la morte.

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    Il Natale in un'altra luce

    Saranno gli occhi di Sara che non riesco a cancellare, il suo profondo sguardo di bimba di non ancora nove anni che un mese fa ha detto ciao a papà e mamma. In un istante la sua vita è volata altrove, quaella di chi resta è irrimediabilmente cambiata. Era nel suo lettino di ospedale ormai già lontana, un micidiale aneurisma le ha tolto il respiro che ora passa nel pensiero di chi l’ama, nelle parole della fede per chi crede, nella vita Oltre per chi spera, intanto respira negli organi trapiantati a sconosciuti fratellini. Mi chiedo perché lei e non io, perché io vedrò Natale e lei no, se questo sia un privilegio o una pesante responsabilità.

    Sarà il dolore silenzioso dei tanti bambini che stavano con Sara, accomunati nella stessa avventura, ho visto nella rianimazione del Santobono, tra carità operosa dei sanitari e tenere membra perforate, innocente strage. I bambini quando soffrono non fanno rumore, sembra che non vogliano dare fastidio, che non vogliano guastare il Natale a nessuno.

    Non fanno rumore a Napoli o ad Aleppo, nei barconi stracolmi di gente in tragiche fughe, o nel degrado dei quartieri malati delle periferie vicino casa nostra o lontane nel mondo. Non fanno rumore, ma mi chiedo perché loro e non io. Saranno gli occhi di Gennaro che ho incrociato al carcere di Nisida, luce ancora non spenta, non tutta. Storia di malaffare, di delitto e di castigo, carcere di mare in un mare di solitudine.

    Tante giovani vite rubate alla vita che per essere vita forse sarebbe dovuta nascere altrove, altrove avrebbe dovuto respirare militanza. Non è raro che qualche volontario si sia sentito confidare da Gennaro o dai suoi compagni di disavventura: “Come avrei voluto che tu fossi stato mio padre”. Vita diversa sognata, vita rubata alla vita.

    Ancora mi chiedo perché loro e non io. Certo lo so, la scelta individuale, la famiglia, le giuste amicizie, la scuola. Parole. Intanto è Natale e non si soffre più, per me sì, e per loro, giovane carne, futuro tradito?

    Sarà il sorriso amaro di Don Ciro delle Salicelle di Afragola, alle porte di Napoli, che vive il quotidiano provando a immaginare per lui e la sua gente una vita diversa. L’ho incontrato in questi giorni, una marea di gente, per lo più bambini, per lo più per strada, per lo più senza il minimo necessario. Tante promesse, da tutti, degrado da non potersi raccontare.

    La domanda è sempre la stessa, la ripeto quasi a farmi male, perché loro, perché non io. Sarà per il fatto che ho saputo della Casa di Matteo, la prima esperienza del genere in Campania inaugurata giovedì scorso a Napoli. Una casa famiglia per piccoli ammalati terminali, neonati non riconosciuti dai genitori per le loro condizioni estreme e abbandonati in ospedale, un’opera di solidarietà fantastica a cui va dato sostegno e assicurato conforto, ma sapere che tenere creature hanno già segnato il loro percorso, benché la compassione di chi le accoglie, non può che provocare la stessa domanda: perché loro e non io.

    Fatalità, caso, provvidenza, fortuna, sfortuna, parole da usare certo non mancheranno e di sicuro l’alibi dietro al quale siamo abituati a nasconderci ci permetterà una via d’uscita per raccontarci quello che più ci fa piacere. Non so perché loro e non io, non saprò mai quale disegno si cela nel percorso di vite diverse che disegnano diversi percorsi, ma se un Natale è giusto da vivere e quel Natale, oltre il rumore della sua cornice, delle luci, dei colori, dei sapori, rimanda a giustizia e pace, allora forse io resto in vita fino a quando sarà necessario per poter dare significato alla vita anche di chi è partito prima di me o di chi resta schiacciato dalla vita, ora. Sacrilego il Natale dei sopravvissuti alla notte che non raccolgono la sfida di raccontare la luce a chi resta, raccontarla oltre i confini della stessa notte per quelli che la notte l’hanno vissuta, inseguire una stella di un mondo che sa cosa significhi fare suo il dolore degli altri. E allora forse sarà Natale per chi resta, per chi è ormai altrove.
     

     
  • Pane elemento fondamentale nel presepe napoletano Foto di Asaiber
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    Sogno un Natale come ...

    Passeggiavo l’altra sera sovrappensiero mentre il caos della via passava la fatica delle compere, lo stress di chi cerca l’ultimo regalo nella lista delle attese, di provare a farli nonostante la crisi, riuscirci per chi ancora ci crede, per chi ancora ha possibilità economiche, per chi ancora oltre le difficoltà prova a sperare che per lo meno a Natale qualcosa resti di buono nel paniere degli scambi affettivi.

    Corsa che a volte diventa resistenza a ostacoli, tanto che qualcuno borbotta che non vede l’ora che le feste passino in fretta prima ancora che abbiano inizio. Per non parlare di quelli che il Natale lo subiscono quando l’insicurezza porta ad essere sempre più sfiduciati. La festa è lontana da chi si sente tradito dalle feste degli altri.

    Passeggiavo e mi sono ritrovato per caso dinanzi a una panetteria, di quelle che avvisano la clientela che a tale orario è possibile comprare pane caldo.

    Il profumo si spandeva e avvolgeva il fragore della folla, un profumo antico e moderno. Usciva dalla panetteria un uomo di mezza età, tra le braccia la busta del pane appena sfornato. L’ho visto spezzarne un pezzetto, portarselo al naso per acchiapparne il profumo e poi subito in bocca per gustarselo con gentilezza. Ero alle sue spalle e ho sentito che mentre portava il pezzetto di pane alla bocca ha emesso un sospiro. Mi sono commosso, davvero, e quasi non mi sono accorto che mentre vedevo la scena, la folla e il suo fragore passavano in secondo piano.

    Quanta tenerezza in un semplice gesto, quanta potenza di significati nel quotidiano sapore di un pezzo di pane che potrebbe raccontare al Natale, prossimo venturo, nascosti percorsi che rendono vera la vita se fatta di pane condiviso. Mai tempo è più favorevole di quello del Natale, dove si gioca a diventare più buoni.

    È un percorso fatto di strenne, colori di storie gentili da Walt Disney. Eppure non riesco a sopportare i natalini, quegli strani figuri che puntuali si avanzano nelle famiglie, nella società, nella città e nelle chiese a cui sembra che la bontà sia a tempo, che vada celebrata come ricorrenza di calendario, che faccia quasi parte di un copione da recitare perlomeno a Natale. Pranzi per i poveri, giusta dimostrazione di solidarietà umana in tempo di precarietà, cenoni che si moltiplicano, che si ripetono, che si celebrano nelle cronache dei giornali.

    Tutto meritevole, tutto a tempo, tutto troppo veloce, troppo gridato mentre l’ordinario si affaccia dopo le feste e la povertà resta sola con la sua fame. Natale è anche tutto questo, è di sicuro provocazione di compassione per raccontare agli esclusi che ancora possono fidarsi della vita, che ancora c’è una mano caritatevole pronta a sovvenire la loro povertà, ma, credente o laico, Natale è il tempo della provocazione della pace come vocabolario rivoluzionario della convivenza umana. Quel semplice gesto di un pezzo di pane profumato, gustato come il più prezioso dei doni, l’altra sera mi ha raccontato un’altra storia, la sua, che da grano è cambiato in farina, e da farina lievitato in pasta e da pasta infornata in pane.

    Un pezzo di pane che racconta di contadini, mugnai, fornai, panettieri, massaie che in quell’impasto garantiscono ogni giorno, senza aspettarsi un grazie, la sopravvivenza di tutti e la poesia di un incontro felice per qualcuno.

    Il sospiro di quell’uomo mi aveva raccontato la gratitudine della compagnia, dello spezzare il pane quotidiano da cui compagni deriva come verbo, e nessuno dovrebbe dimenticare che senza gli altri non siamo nulla. Un Natale profumato come il pane, buono come il pane è capace di dire a poveri e ricchi, a potenti e semplici che da soli non si vive. Solo la compagnia di uomini consapevoli che senza gli altri, tutti gli altri, non c’è pace, non c’è giustizia, può generare un Natale buono che consegni una vita profumata come il pane.

    Da bambino ci insegnavano che il pane è sacro, dono di Dio e lavoro dell’uomo, e forse per questo se ne avanzava un pezzetto, e non si poteva conservare, si baciava prima di gettarlo. Non posso far passare questo Natale senza baciarlo prima, senza consegnare la mia promessa: per quanto mi riguarda farò di tutto affinché ogni pane sia diviso, ogni bene condiviso ben oltre il Natale.

  • Art & Culture

    The Young Pope and a Few Questions About God

    With the season winding down, hordes of people continue to tune into Paolo Sorrentino’s The Young Pope, myself included. Every week I’m further surprised by how much the Neapolitan lmmaker’s monumental opus inspires a believer like me to re ect on faith, to ask the big questions about God and why we go before Him.

    I’m well aware that many clerical circles regard the series with suspicion and, perhaps misguidedly, have already branded it irreverent and sacrilegious. But I think the show is immensely spiritual insofar as it posits questions that man has long posited yet struggles to ask today. But there remain and will remain monuments of philosophical and theological searching. So, the perennial questions, but in a fresh language that could prove interesting to theologians and the Church from the standpoint of method, for introducing new words with which to understand the world.

    The grand style of The Great Beauty remains potent, but it is outshined by its tendering of meanings that, with each carefully choreographed frame, appears to hint at a different kind of searching. The Church is just a pretext. In reality the show speculates on whether it is still possible to reveal God to contemporary man. The papal court, the curia and its con icts, remain in the background, though they provide the stage for the story, a space for suggestive dialogue, mostly monologues spoken by someone struggling to find answers within himself, someone still interested in ultimate.  questions about existence—the end of being and the reason for being.

    That is what fascinates me most about this production, which has invested capital and resources into a product that, were it not presented as a TV series, would no doubt be nominated for an Oscar, given the courage with which it outs convention by proposing the idea of God to a secular, positively pagan society.

    Sorrentino’s hero is young but already world weary, a vicar of Christ robed in disquiet, a man of God one would think knew God better than anyone else who is actually wracked with more doubt than anyone else, a man who rises above his personality, the icon of an age dominated by image yet overwhelmed by decadence. Within the Church and—equally if not worse—outside its walls, there reigns a mediocrity af icted by the need to escape anonymity by every means and at all costs.

    Sorrentino responds to questions about the meaning of life, history, the why and wherefore of injustice, pain and suffering, by feeding the pope words that belong to pioneers of reason, words be tting the great medieval thinkers who—wavering between heresy and dogma, between burnings at the stake and canonization— gave rise to free speech and noble ideas that once ushered in a new Europe, a new world.

    This pope returns to speaking of God with painful probity and the shadow play of psychoanalysis, unwilling to sacri ce man’s intelligence or become a puppet, a caricature, but instead staying upright and not bending to servility, infantilism or mythic and superstitious superstructures.

    Where is God? Where mercy? Where is man headed? The questions are time honored yet the novelty lies in restoring spiritual and intellectual inquiry to the center of the world and its destiny, without which—short of an answer, and a different kind of answer at that—the fate of the world is condemned to barbarism.

    Such questions are frightening. They aren’t crowd pleasers. But thanks to the inventiveness of a cinematic genius they might nd a large audience once again. It takes courage to unseat the facile and convenient talk of a church that acts as a simple charitable organization only interested in performing good works and never saying why, that gets its hands dirty for the poor whom it often betrays yet doesn’t understand its choice.

    Because in truth, talk of God and ultimate aims and the pursuit of thoughtful men might not even serve the purposes of the church. It’s no way to win audiences or sign clients. When newspapers report on the Pope or the church, they report on clerical organizations, ethics, scandals, travels and politics. Never God. Major papers cover Francis when he rebukes the elite or champions charities for the destitute, but why he does so, or what design animates him, is something we don’t know, take no interest in, fail to question.

    Sorrentino points his camera on God to avow Him, deny Him, pursue Him, reject Him, invoke Him and curse Him. But God is still the star, and along with Him, man and his questions. That’s quite a feat to take on, and as far as I’m concerned, the director has already won. 

    To watch the Trailer >>>

    * Gennaro Matino teaches Theology and History of Christianity in Naples. He collaborates extensively with both traditional and new media. 

  • Opinioni

    I GAY ed i loro matrimoni rovina del mondo

    “I GAY, i loro matrimoni sono la rovina del mondo”, il mantra continua ad essere pensato, riproposto, pronunciato. Il peccato originale di un mondo afflitto da mille miserie, i guai della vita, quelli procurati dalla crisi globale, dalle malattie, dalle mille ingiustizie, dalla precarietà, avrebbero una sola causa, un solo colpevole, un denominatore comune: gli omosessuali che per la loro “scelta contro natura”, stanno portando l’umanità all’estinzione. 

    Le chiese cristiane, cattoliche, ortodosse, evangeliche e non solo, in ogni parte del pianeta, arrancano cercando nuovi linguaggi capaci di ragionare di Dio, di proporlo come salvezza all’uomo contemporaneo. E non contente di essere sempre più fuori dalla quotidianità della vita della gente, ognuna in forza della propria presunzione di comprendere, professare e annunciare l’unica verità credibile, incapaci di parlare all’uomo di oggi, cercano di volta in volta la responsabilità dei loro fallimenti fuori le proprie mura: il mondo, la secolarizzazione, il paganesimo, il relativismo e soprattutto e prima di tutto le unioni civili e gli omosessuali. 

    Radio Maria qualche giorno fa, senza nessun rispetto per le povere vittime, e senza nessun pudore per la grave affermazione, sosteneva che il terremoto e le disgrazie nel mondo fossero state causate dalla collera di Dio adirato per le unioni civili. 

    In questi giorni, in perfetta sintonia ecumenica, il patriarca Kirill, primate della Chiesa ortodossa russa, rincara la dose e a proposito del matrimonio-gay afferma: «Quello che sta accadendo nei paesi occidentali è che, per la prima volta nella storia umana, la legislazione va contro la natura morale degli esseri umani». E per chi avesse qualche dubbio sul suo pensiero, aggiunge: «Non è la stessa cosa, certo, ma in qualche modo possiamo paragonarlo all’apartheid in Sudafrica o alle leggi naziste: erano frutto di un’ideologia e non parte della natura morale». 

    I gay, il loro desiderio di vivere una vita affettiva, come campo di concentramento, come razzismo ideologico, come imposizione tirannica sui principi sacri della libertà umana. Il mantra: “I gay sono la colpa”, si struttura, si organizza, lo si ripete quasi come “esicasmo” di guarigione, come a voler convincere chi lo pronuncia, lo prega, lo afferma che trovato il diavolo è possibile l’esorcismo, che individuato un responsabile, sulle cui spalle caricare la croce dei nostri tradimenti, basta cancellarlo dal proprio vocabolario per ritornare alla “normalità” della natura e comunque sia, comunque vada, da solo basta a forgiare l’untore, la strega, l’eretico, un colpevole buono per tutti, per le religioni asfittiche, per la morale ingessata, per il potere in crisi, per la stupidità dei creduloni: “Crediamo che questa nuova tendenza costituisca una grave minaccia per l’esistenza della razza umana”. 

    Parole durissime e gravissime che certo non dicono che gli omosessuali debbano essere messi al rogo, anzi si puntualizza che sono affari loro e se la piangessero loro e la loro coscienza, ma intanto l’anatema è stato lanciato e il mantra concepisce il suo disegno: la colpa del mondo in rovina è dei gay. 

    La cosa più grave è che nel frattempo la parola passa, si concretizza sempre più come fatto, e alcune società, alcune culture, troppi uomini di chiesa le trasformano in politica, in atteggiamento sociale, in pratica quotidiana così che il rischio, già sperimentato in altre epoche, è che dalle parole si passi alla persecuzione, a quei campi di concentramento del passato, che forse Kirill volutamente dimentica, che hanno massacrato milioni di ebrei ma anche migliaia di omosessuali. 

    Mi aspetterei che Papa Francesco che, intanto scrive di misericordia e promette una Chiesa pronta a conservare il perdono come strada maestra per dire se stessa, potesse oltre la realpolitik ecclesiastica, avere il coraggio di ricordare al suo confratello russo che la via maestra dell’annuncio del Vangelo è l’amore per ogni uomo, per la diversità di ogni vivente e soprattutto che il suo anatema non è in sintonia con il messaggio del Maestro di Galilea. 

    Mettere pesi insopportabili sulle spalle della gente, che i preti e i vescovi di ogni tempo e di ogni confessione non portano neppure con un dito, non solo è cosa grave ma è il tradimento di una speranza che vorrebbe che nessun uomo vada perduto, che nessuno possa dirsi straniero nelle braccia della misericordia di Dio: “Guai anche a voi perché caricate la gente di pesi difficili da portare, e voi non toccate quei pesi neppure con un dito! 

    Guai a voi, perché avete portato via la chiave della scienza! Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito”.

  • Opinioni

    The Young Pope di Sorrentino. Un'occasione importante per riflettere

    So bene che in tanti ambienti ecclesiastici la serie 'The Joung Pope' di Paolo Sorrentino è seguita con sospetto e forse a torto è stata già bollata e archiviata come irriverente e sacrilega. Ritengo, invece, che sia un'opera di grande spiritualità in quanto pone domande che l'uomo da sempre si è fatto e che oggi fa fatica a porsi, ma restano e resteranno monumenti di ricerca filosofica e teologica.

    Le domande di sempre ma in un linguaggio nuovo e originale che potrebbe risultare interessante ai teologi e alla Chiesa dal punto di vista del metodo, per incrociare nuove parole e per comprendere il mondo. Lo stile de La grande bellezza ritorna potente, ma superato da una provocazione di significati che, nei fotogrammi studiati uno per uno, sembra voler segnare un percorso di ricerca diverso.

    Il parlare di chiesa è solo un pretesto, in realtà ciò che emerge è se sia ancora possibile annunciare Dio all'uomo di oggi. La corte papale, la curia con le sue contraddizioni restano sullo sfondo, benché facciano da palcoscenico della narrazione, per dare spazio a dialoghi suggestivi, per lo più monologhi propri di chi cerca faticosamente risposte dentro di sé, di chi è ancora interessato alle questioni ultime sull'esistenza, sul suo fine e il suo perché oltre la storia.

    È questo aspetto che mi affascina in questa produzione che ha investito capitali e risorse in un prodotto che, se non fosse presentato come serie televisiva, sarebbe di sicuro candidato all'Oscar per il coraggio con cui, fuori da ogni schema, propone l'idea di Dio a una società desacralizzata e ormai pagana. Sorrentino sceglie come suo primo interlocutore un papa giovane ma già vecchio, uomo di potere, presuntuoso e debole di affetto, bello ma fragile di poesia, come la nostra epoca, un vicario di Cristo vestito di inquietudine, un uomo di Dio che più degli altri dovrebbe conoscerlo, ma che più degli altri è provocato dal dubbio, un uomo che va oltre il personaggio, icona di un tempo in cui domina l'immagine su tutto, ma dove in assoluto vince la decadenza.

    Anche nella Chiesa, ma oltre le sue mura, uguale e peggio, si staglia il potere della mediocrità afflitta dal bisogno di uscire dall'anonimato con ogni mezzo e a ogni costo. Sorrentino risponde alle domande sul senso della vita, sulla storia, sul perché delle ingiustizie, del dolore, della sofferenza mettendo sulla bocca del papa parole che dovrebbero essere dell'uomo pioniere di senso, parole che furono dei grandi medioevali che, tra eresie e dogma, tra roghi e canonizzazioni, resero possibile la nascita della libertà di parola, di quelle grandi idee che fecero nuova l'Europa e il mondo.

    È un papa che ritorna a parlare di Dio e lo fa con la sofferenza della ricerca, con i chiaroscuri della psicanalisi, con la volontà di non mortificare l'intelligenza e permettere all'uomo comunque di restare uomo, non fantoccio, non caricatura, sempre in piedi senza servilismo, senza infantilismi, senza sovrastrutture mitiche e superstiziose. Dov'è Dio, dove la sua misericordia, ma dove sta andando l'uomo, le domande di sempre ma la novità sta proprio nel rimettere al centro del mondo e del suo destino quella ricerca spirituale e intellettuale senza la quale, oltre la risposta e benché la diversa risposta, il destino del mondo è condannato alla barbarie.

    Domande che fanno paura, che non fanno audience, ma grazie all'invenzione di un genio della cinepresa possono di nuovo interessare il grande pubblico. Ci vuole coraggio nello spodestare il parlare facile e vantaggioso di una chiesa semplice agenzia caritativa, interessante solo se fa il bene e non dice il perché, che si sporca le mani per i poveri e spesso tradisce, ma non si capisce la sua scelta.

    Perché in verità parlare di Dio e di fine ultimo, cercare l'uomo pensante, forse non conviene neppure alla chiesa, non fa audience e non procaccia clienti. Se i giornali parlano del Papa o della chiesa parlano di struttura ecclesiastica, di etica, di scandali, di viaggi e di politica, mai di Dio. I grandi titoli scrivono di Francesco quando sgrida i potenti, quando sdogana la misericordia per gli esclusi, ma perché lo faccia, a quale disegno stia rispondendo non è dato saperlo, non interessa, nessuno se lo chiede.

    Sorrentino mette in scena Dio, lo afferma, lo nega, lo cerca, lo rifiuta, lo invoca, lo "bestemmia", ma Dio rimane il protagonista e con Lui l'uomo e le sue domande. Grande sfida con cui confrontarsi e per quanto mi riguarda il regista ha già vinto.

  • Opinioni

    Malati di integralismo

    INTEGRALISMO è una parola alla moda, ben oltre il fanatismo di cantori folli di sacri testi, merce diffusa in tempo di precarietà di idee forti in cui soprattutto i giovani, svuotati di ogni valore, sono facile preda della moda della jihad. Certo l'integralismo religioso fa più rumore perché rimanda a conflitti in atto, a sciagurate guerre che terrorizzano il mondo. Ma sbaglieremmo a pensare che sia integralista solo il mondo islamico o una sua componente e non lo sia in certi aspetti anche quello cristiano, con le sue numerose sigle, che non fa sconti alla differenza e innalza roghi diversamente dati a chi la pensa diversamente. L'integralismo è oggi la massima espressione della debolezza dei propri convincimenti che, per poter essere sostenuti, diventano non negoziabili per paura di perderne i significati. Purtroppo la globalizzazione del mondo ha finito col dividere gli uomini invece di unirli, non ci ha reso più audaci, più disposti a metterci in discussione per superare barriere mentali, per confrontarci con la diversità, per incontrare gli altri e condividerne esperienze, ma ha fatto prevalere la paura di perdersi.

    L'alterità non è vissuta come risorsa, ma genera un principio di malata autoconservazione che limita il dialogo e alimenta il sospetto. L'assenza di proposte chiare e distinte ha generato integralisti in qualsiasi campo: ognuno alla disperata ricerca della propria identità, tende ad applicare una dottrina, un'ideologia, o semplicemente una moda culturale, nella sua interezza e col massimo rigore. Integralista è il salutista di maniera che si dà spazi per venire fuori dall'anonimato con una alimentazione a suo dire più sana e invece finisce con l'ammalarsi della sua stessa dieta. È integralista la religione della buona tavola, quella senza "additivi", un nuovo culto, che certo può migliorare lo stile di vita ma può anche aprire la strada a subdole patologie. Le sigle, le sette, le chiese anche qui sono le più svariate e ognuna dichiara di avere il suo vangelo, l'unico capace di dare significato all'esistenza: la cucina vegana, ayurvedica e crudista, tutte forme di integralismo alimentare che Steven Bratman definì, con un nuovo termine, ortoressia per indicare la ricerca ossessiva di alimenti sani. È integralista la moda eccessiva del "naturale" quando l'omeopatia, medicina alternativa di tutto rispetto, rifiutando il confronto con teorie scientifiche, scredita la medicina ufficiale creando danni maggiori dei farmaci istituzionalizzati.

    L'integralismo politico o partitico è anch'esso una malattia che nulla condivide con la parola contraria, che non sa ascoltare ma proclama, non sa dialogare ma demonizza l'avversario, senza cercare una via d'incontro ma solo e sempre lo scontro. Il pensiero politico, l'idea in cui si crede, l'obiettivo da raggiungere è irrilevante rispetto al darsi un nemico da sconfiggere. Specchio ne è la situazione politica europea e italiana, lo stesso prossimo referendum costituzionale interessa solo per far fuori l'avversario. Tutto rimanda all'ignoranza, perché gli integralismi sono la massima espressione del sapere stitico, impreciso, limitato, offensivo della verità. La conoscenza, la curiosità del nuovo per l'integralista cede il passo a pochi principi che restano assoluti senza confronto, senza contraddittorio.

    Le mille paure che attanagliano la nostra quotidianità spesso sono generate dall'ignoto. Non sappiamo come controllare, come gestire, come andrà a finire quello che non è passato sotto la nostra personale esperienza. E tutto ciò che non abbiamo perfettamente sotto controllo ci preoccupa, genera ansia, malessere. La paura frena la ricerca del nuovo e non solo per quanto riguarda i misteri della vita e le domande irrisolte del cuore umano ma anche le relazioni interpersonali.

    A tutto ciò che è nuovo, diverso, non sempre si risponde con il desiderio di scoprire l'oltre, di porre fatica all'esperienza della conoscenza anche dolorosa, controversa, scandalosa: o si fugge asserragliandosi nella fortezza protettiva dell'io, pensando che non affrontando il confronto si possa superare ugualmente la provocazione che arriva dall'altro, o lo si attacca ferocemente all'esterno come causa del proprio disagio. In entrambi i casi la paura è l'origine della guerra e in entrambi i casi la pace è compromessa all'origine dall'ignoranza. Ci si accontenta per non soffrire, per non restare sconfitti da ciò che mette in crisi, che provoca pensieri originali, così che l'integralismo è divenuto la malattia del nostro tempo. A chi è ancora interessato, curioso dell'uomo, il compito arduo di resistere all'inganno di credere che conservare l'antico è meglio che rischiare il nuovo, perché l'antico si difende solo investendo sul futuro.

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