Articles by: Gennaro Matino

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    La logica dell’uomo solo al comando



     
    “ANNO nuovo, vita nuova”, così il detto, sperando che sia vero, sperando soprattutto che il 2016, anno bisesto, non sia funesto come vorrebbe l’altra filastrocca. Di sicuro l’anno che verrà sarà nuovo e come canterebbe Lucio porterà novità: “Ogni cristo scenderà dalla croce e… sarà festa tutto l’anno”. Provocazione ardita, comunque rumore di speranza, passatempo verbale “per poterci ridere sopra”, in ogni caso coraggio di invenzione in tempi cupi, dove si investe al contrario sul disfattismo maniacale, dove è più facile farsi male da soli con parole contrarie a tutti e a ciascuno pur di creare facili consensi non essendo in grado di organizzare futuro.'




    “L’anno vecchio è finito ormai” ma resta ancora nell’aria quell’aria irrespirabile dell’ultimo mese che ha dato spunto a polemiche e a preoccupazioni sulla salute del pianeta che, imprigionato in polveri sottili, ne compromette il clima sciogliendo ghiacciai ai poli, improvvisando primavere impensabili a latitudini glaciali e tuffi fuori stagione alle nostre.




    Fatto sta che l’anno che è appena arrivato porterà nelle più grandi città italiane la tornata elettorale per il rinnovo delle amministrazioni locali e se questa non è una novità lo diventerà perché passerà alla storia per il fatto che per la prima volta dopo i totalitarismi del passato a scendere in campo non saranno più i partiti, ormai scomparsi quasi totalmente dalla scena politica per dissoluzione del loro pensiero progettuale, ma “rappresentanti del popolo” a cui i partiti chiedono soccorso per poter esistere ancora. Convinti che se non troveranno l’uomo giusto, se non sapranno inventare l’uomo della provvidenza dal sorriso accattivante che sappia meglio fare scena, non solo perderanno le elezioni ma sarà il loro ultimo treno dopo il quale scenderanno tutti, politici e portaborse.




    Sarà l’anno in cui verrà consacrata definitivamente la logica dell’uomo solo al comando inaugurata in stile naïf dal dispotismo morbido berlusconiano. In realtà mai pienamente attuato dal cavaliere, non avendone capacità e struttura, ha però ben orientato i successivi anni della politica italiana e burlescamente quella amministrativa locale, dove il trionfo della demagogia, quel gioco perverso che attraverso false promesse vicine ai desideri del popolo mira ad accaparrarsi il suo favore, fa vincere le elezioni al populista di turno per poi far trionfare il disastro municipale.




    Eppure si sa che un uomo solo al comando non può dare risposte a una realtà complessa come lo è una grande città, una regione, non può inventare percorsi virtuosi per inaugurare stili di vita capace di coniugare insieme nuove abitudini dei cittadini, che vanno convinti, orientati, governati, ammoniti, e il rispetto dell’ambiente, per promuovere atteggiamenti corretti che se non potranno da soli proteggerci dall’incursione di climi sballati, potrebbero aiutarci a difendere noi e i nostri figli da irrespirabili sostanze.




    L’anno che verrà, ormai è chiaro, porrà al centro di ogni proposta elettorale la questione ecologica ambientale che di per se stessa è una questione politica nel senso più nobile del termine. È uno sguardo diverso sulla vita, sul vivere insieme, una visione, un programma educativo, uno stile di vita, che impongono scelte rivoluzionarie. Chiunque sarà il nuovo sindaco delle grandi città italiane, e chiunque lo sarà a Napoli, non potrà che avere a cuore l’interesse della gente e la loro salute.




    Ma dire aria da respirare è dire traffico da regolare, fumi tossici da controllare, è dare spazio a una nuova qualità del trasporto pubblico, giusta proporzione tra costi e servizi, mezzi gratuiti per le fasce più deboli.




    Dire traffico è dire percorribilità delle strade, significa liberare la questione urbanistica prigioniera di falsi e fuorvianti chiavistelli che impediscono alla città di coniugare passato e presente e soprattutto proiettarsi in un futuro in cui le pietre non siano solo memoria ma presente da consumare; dire inquinamento è dire città annonaria, orari di apertura e chiusura dei negozi e dei mercati, carico e scarico di merci, rispetto delle diverse fasce orarie di apertura scuole, attività produttive e amministrative.




    Dire clima è dire presenza dei controllori nelle strade, del rispetto delle regole condivise, della tolleranza zero per chi infrange la legge, per il rispetto del ciclo delle acque e dei rifiuti.

    Dire controllo è dire nuova organizzazione della macchina burocratica che sovraintende alla correttezza dei processi e al rispetto etico delle scelte dei controllori.




    L’anno che verrà è già arrivato ed chiaro che non “sarà festa tutto l’anno”. Resistere alla demagogia è degli uomini liberi o sarà il caso di dire che “l’anno vecchio è finito ormai e qualcosa ancora qui non va”.

     

  • Opinioni

    Quel popolo anti camorra in cammino



    La piazza non basta, le marce non sempre servono a provocare pensieri di giustizia e di pace.

    Anzi in tempo di parole di fumo, a volte stancano. Non quella che ci sarà domani, e non lo dico per spirito di parte. Da piazza Dante un corteo rumoroso di colori e di denuncia riempirà le strade di Napoli.


    Un “popolo in cammino” griderà il suo no alla violenza, alle camorre e ai loro intrecci con l’economia e la politica. Un “popolo in cammino” rivendicherà verità e giustizia, lavoro e diritto allo studio per i bambini e i ragazzi dei quartieri di periferia e della nostra città abbandonati a se stessi.


    Mi si dirà che nulla c’è di nuovo, ogni giorno una manifestazione, la stessa aria fritta di sempre. Non mi interessa sapere quante persone parteciperanno, non inseguirò gli slogan per correggerli, sostenerli o criticarli, mi interessano le motivazioni a monte del nuovo movimento di base che darà vita alla manifestazione. Un movimento nato dalla volontà di alcuni preti, impropriamente definiti di frontiera, che nella sofferenza della loro gente, nei percorsi di chiesa visitati, nel sentirsi abbandonati da tutti, scelgono di mettersi insieme, di fare squadra, abbandonando l’atavica condizione di individualismo esasperato che anche nella Chiesa è presente, specchio di una società meridionale che ha garantito terreno fertile per fare affari a chi voleva spazio di impresa facile e illegalità di mestiere. Motivazioni che sono la premessa per garantire un lavoro fecondo di liberazione, se il fare squadra riuscirà a superare la prova e l’emozione di un solo giorno di piazza.


    Una visione chiara, quella dei preti, originale, che può rendere la lotta di popolo quasi libertà evangelica dove i poveri finalmente possono godere il presente di giustizia senza aspettare solo un regno futuro.


    Un’utopia, certo, per quanti si trincerano dietro il muro opportunistico del già visto e del già dato, non per chi pratica le Scritture, per chi ha nella vene l’attitudine alla profezia, anche se una parte di Chiesa, corrotta e mestierante, fa pensare il contrario.

    Non per chi non riesce più a restare fermo, sordo e muto al dolore della sua gente che non è causato da un fato spietato o dalle prove inflitte da un Dio castigatore, ma dalla politica incapace, da istituzioni lontane dalla gente, da una Chiesa vertice parolaia che lascia fare fino a quando le fa comodo e poi è pronta semmai a salire sul carro dei vincitori.


    Don Giuseppe Diana, martire di camorra, dichiarava per amore del suo popolo la sua indisponibilità alla complice sottomissione al malaffare politico o malavitoso, un grido fatto proprio da questi preti, condiviso e spartito con il loro popolo, e che per questo può aprire nuovi, inaspettati e sorprendenti scenari politici.


    Da tempo le nostre strade assistono inermi a una guerra che colpisce innocenti, giovani, persone che pagano lo scotto di essere cresciuti in un Sud, in una città, nei quartieri di periferia e nei buchi neri del centro, lasciati senza cultura, sviluppo, futuro.


    Restare in silenzio non è più possibile. Questa la scelta dei preti.

    Insieme, non uno solo, non un solo martire, non un professionista dell’anticamorra a cui garantire una scorta, ma insieme, preti coi preti, per rivendicare il loro fare chiesa, la loro pastorale, partendo dai fatti concreti, dai bisogni reali della gente. Restare fermi non è più accettabile.



    «Non vogliamo più contare morti a Napoli: non è solo la violenza di chi spara, ma anche di chi ha l’arroganza di credere di poter governare interi quartieri, di stabilire un controllo serrato sulle nostre vite. Non possiamo più restare a guardare. Abbiamo visto troppe passerelle della politica in questi anni, troppi spot e soluzioni superficiali per Napoli e la Campania. Abbiamo visto tanti intrecci di potere e poche risposte da parte di chi ci ha governato ». Politica di denuncia, ma anche di proposta, bisogno di risposte vere, concrete, strutturali. Risorse per il diritto allo studio, scuole aperte al territorio anche di pomeriggio. Chi abbandona la scuola è facile vittima del sistema criminale. Nessuna necessità di eserciti, ma di normalità.

    Il maggior motivo di insicurezza nasce dalle diseguaglianze e dalla povertà.


    Il presidio dei territori a rischio è dato dal lavoro stabile e duraturo.

    Quei preti, quei parroci, ancora in pochi ma determinati, insieme al loro popolo hanno scelto una chiesa in uscita e, mentre avanzano nel silenzio assordante di una politica assente, sono pronti a rivendicare dignità per se stessi e per la loro gente.

    Non lasciarli soli è dovere di chi ancora crede nella democrazia.


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    Nelle vene di Napoli e Parigi lo stesso sangue


    PARIGI piange i suoi morti. Il venerdì della scelleratezza è passato, la paura di una notte profonda non passa, coinvolge tutti, nessuno si sente più al sicuro. Non c'è luogo, non c'è recinto protetto, non basta l'allerta, non resiste il fragile confine di stati e continenti messi in presunta sicurezza da eserciti, armamenti, intelligence o fili spinati.

    La morte arriva allo scoperto e spara, esplode, fa saltare in aria mentre la vita normale di gente normale prova, un venerdì sera, uno dei tanti o forse dei pochi destinati allo svago, nei luoghi normali di una vita normale a spendere il tempo dovuto allo scambio di vita. Posti normali, vita normale che ormai di normale non conservano più niente. Niente è più normale quando il tuo Paese non si sente sicuro, quando non trovi neppure nelle mura di case la protezione dovuta.


    Una notte che sembra non finire mai da quel tragico 11 settembre di quindici anni fa che avvolge ogni cosa, speranze, progetti, provoca vertigini incontrollate in chi mai poteva aspettarsi o sospettare lontanamente che il suo futuro sarebbe stato così doloroso, che chiusi i grandi conflitti mondiali si potesse ritornare a tanta crudeltà. Non è una guerra, è di più, è molto di più. È la vendetta che spinge il disumano a trovare ragioni, è l'ingiustizia che apre olocausti oltre i campi di sterminio, è quotidiano vivere esposto alla barbarie. È la morte, il linguaggio della morte, che trionfa sulla vita.

    Parigi conta i suoi morti, i nostri morti, una serata di svago trascinata nel sangue da mani feroci, folli interpreti di uno sterminio annunciato, che vuole mondi contrapposti da violenza disumana, prepotenza del terrore, presunzione di verità di fede assolute, guerre sante che nulla hanno a che vedere con la santità di Dio. Parigi e i suoi caduti, i nostri caduti. Napoli non può che sentirli suoi, non sono lontani, non sono stranieri e non perché il genere umano è stato offeso e ogni uomo di buona volontà li piange, ma perché nelle vene di Napoli e Parigi scorre lo stesso sangue. Un'antica leggenda vuole che le due città siano da sempre legate da un fiume sotterraneo, e che leggenda sia, ma non nasce da pura invenzione.

     

    Arte, cultura, poesia, fantasia, teatro, lingua, vedono le due capitali legate da fili di parole condivise e da lotte per la libertà che di sicuro più ragione e consenso hanno avuto a Parigi ma che di martiri ne ha sacrificati anche a Napoli. La stessa maschera di Pulcinella, icona formidabile per dire Napoli, non è forestiera a Parigi, tanto che nei vicoli di Montmartre ha saputo miscelare le lingue di due popoli che diversi per stile si rassomigliano per il tratto gentile, per il carattere sognante.


    Tutta la notte tra venerdì e sabato ho seguito l'orrore di Parigi, mi sembrava un modo forse infantile di vegliare con chi era colpito, di essere parte attiva e non spettatore del suo dolore. Un pensiero mi ha fasciato, provocato, ostinatamente costretto oltre il desiderio di vendetta che già qualche giornale chiedeva a grandi titoli: "E ora guerra sia!". Ma al nemico di oggi succede quello di domani se la causa che ha generato la rottura del dialogo non viene rimossa.


    Il mondo è afflitto dal terrorismo e nessuno si può sentire sicuro quando una guerra non dichiarata mina nel quotidiano la tranquillità della gente. Niente di più vigliacco è l'aggressione che arriva dalle tenebre, da nemici invisibili che seminano morte innocente per la sola strategia del terrore. E per la pace universale è giusto combattere il terrorismo come avere il coraggio di denunciare quelle perniciose forme di altro terrorismo che non sembrano essere ugualmente aggredite: la fame che uccide, l'ingiustizia che da secoli si perpetra contro uomini che hanno la sola colpa di vivere in un'altra parte del pianeta dove conviene lasciare che si possa offendere la libertà e lo sviluppo.

    Ieri mattina, passando davanti all'istituto Grenoble, il luogo più famoso di alta cultura francese per i napoletani e centro di ricerche per i francesi che si interessano all'Italia del sud, ho visto che era superprotetto da blindati e da forze dell'ordine. Non ho potuto che ripetere a me stesso, quasi come se fosse preghiera, quello che il premier israeliano Yitshak Rabin aveva scritto in un biglietto che aveva in mano, nel giorno in cui a Tel Aviv fu ucciso in un raduno pacifista, un biglietto pronto per essere letto nel discorso che non ebbe termine: "Che il sole sorga, che il mattino splenda. Le preghiere più pure non ci riporteranno indietro. Nessuno ci riporterà indietro dal profondo pozzo dell'oscurità. Non la gioia della vittoria, né i canti di gloria. Così, cantate una canzone di pace. Non sussurrate una preghiera. Meglio cantare una canzone di pace. Con un grande urlo!". Niente è più vigliacco del nemico invisibile che semina il terrore in una notte di vita normale
     



     


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    Il mercato dei bisogni ed il mercato del superfuo


     
    TANTA folla curiosa, vetrine ruffianamente addobbate.
    Difficile fare breccia tra la gente il sabato sera sui trafficati marciapiedi delle isole pedonali. Via Toledo come il Rettifilo, via Luca Giordano come via Scarlatti, un fiume di gente, a stento trovi aria nel muro compatto dei peripatetici del fine settimana. Odore di frittura si mischia a fragranze fresche di profumeria versati a litri su corpi più o meno giovani. Speranza di acquisti, speranza di vendita, la logica del consumo lo impone, lo cerca, lo spera. Solo speranza per il momento, benché c'è chi dica che la crisi è ormai alle spalle. Forse arriverà a Natale la conferma della "fine della notte" che segnerà la svolta della ripresa.

     
    Acquirenti e commercianti per ora stanno a guardare. La prossima finanziaria lascerà libero il contante di contare di più, non certo per quelle famiglie che la crisi ha definitivamente messo fuori dal mercato, per quelli che sembrano non contare più per nessuno. Eppure una certa politica e una dotta economia vanno ripetendo con sicumera che la svolta arriverà prestissimo facilitando i consumi. La salvezza e la salute del nostro paese e del Mezzogiorno d'Italia è dunque nelle mani dei consumatori. Chi sa però per quale motivo la gente è così refrattaria a comprare. Ce l'avranno forse con il presidente del Consiglio? Metteranno sotto il materasso o la mattonella i loro risparmi convinti da chi sa quale raffinato ideologo che per cambiare la sorte di un paese, di una regione, bisogna usare il ricatto del non-acquisto? Far uscire il denaro nascosto solo al momento opportuno, quasi una tattica a far vincere questo o quell'altro schieramento? Se così fosse sarebbe una sorprendente strategia.

     
    Ma, ahimè, le cose non stanno così. Da quando l'economia si è fermata più di un commerciante ha dichiarato fallimento, molte famiglie da molto tempo prima già l'avevano fatto. L'aumento dei nuovi poveri è sotto gli occhi di tutti, e anche quelli che se la passano meglio certo non vogliono rischiare il loro futuro e si controllano nella spesa. Sarà forse il caso che la politica ritorni tra la gente e l'economia diventi scienza al servizio di tutti e non solo della finanza per recuperare una credibilità che evidentemente, se non se ne sono accorti, hanno quasi definitivamente perso. Prendersela con l'euro, con l'inflazione, con il debito pubblico, con l'apertura di nuovi mercati, con la globalizzazione non credo che servirà a recuperare credito. Sicuramente sarà utile una approfondita analisi dei motivi della crisi, e d'altronde contributi in tal senso non mancano, anche da parte del governo Renzi. Ma ancora più utile dovrebbe essere un recupero etico della politica e dell'economia che facciano i conti con la realtà.

     
    È cambiato irrimediabilmente il mondo e restare nostalgici a rimuginare su un passato di consumismo di successo che non tornerà più è una sciagurata condizione. Il mondo trasformato dal mercato globale ha cambiato la storia, convinciamocene. Per adeguarsi alla nuova condizione bisogna fare un passo indietro e uno in avanti. Pensare che per facilitare gli acquisti bisogna stimolare il consumo è ormai una strategia non più percorribile. L'overdose di pubblicità ha sortito l'effetto opposto: più che persuasione ha motivato avversione.


    L'impossibilità di poter avere quello che sembra facilmente catturabile, proposto dagli slogan pubblicitari come cosa fatta, provoca nausea. La evidente mancanza di risorse economiche rende la gente impotente e depressa. Il dover prevedere costi adeguati e indispensabili per salute, protezione sociale, sicurezza personale fa conservare il pane bianco, a chi lo tiene, per tempi neri. Il paradigma, provocare bisogni per aumentare consumi, è fallito. Ma non è ancora fallita una economia dei bisogni perché forse non è mai cominciata.


    Una politica economica che volesse essere etica dovrebbe poter ragionare non tanto e non solo su cosa serve al mercato, ma cosa serve davvero alla gente cui il mercato deve ritornare a prestare servizio. Il futile non è più raccomandabile. Il mercato del superfluo è destinato a scomparire. Non scomparirà il mercato dei bisogni reali che si accompagnerà al miglioramento dello standard sociale, al funzionamento della macchina pubblica, ai servizi necessari. Far correre l'economia è cambiare le attese di chi compra e di chi vende, è investire capitali su tale cambiamento. Una nuova condizione di vita oggi impone una nuova visione, quasi una rivoluzione del fatto economico.


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    Dialogare con la morte rende meno dura la vita



    "OGN'ANNO, il due novembre in Italia, c'é l'usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll'adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero". Così recitava Antonio de Curtis, rimando a un passato che sembra lontanissimo, in cui la commemorazione dei fedeli defunti era un evento che si spartiva casa per casa. Ai cimiteri per lo più ci si recava in pullman affollati da uomini e donne, colorati dal nero del lutto e dal giallo e dal rosso dei crisantemi. La solita litania sul cambiamento del clima e delle stagioni, come sosteneva qualche vecchina che a stento si reggeva in piedi, ma che niente l'avrebbe fermata, costasse la vita, dal fare visita ai propri morti.

     
    Tra una risata, un pianto, uno spintone si arrivava al cimitero con cardellini in gabbia, pane cafone in bella vista, torrone per far festa, palloncini colorati e bambini, tanti, con salvadanai forgiati a tomba a cercare soldini: «Signurì e muort».

     
    Altri tempi, difficile dire se migliori, ma ogni anno sempre meno gente si reca ai cimiteri, solo vecchi, tanti rimpianti, interpreti di un passato difficile da passare oggi che la memoria del caro estinto non trova più spazio nell'era del mito dell'eterna giovinezza, perché non trova più spazio l'evidenza della morte che si cerca invece di nascondere, di ignorare, benché essa aggredisca il quotidiano con maggiore ferocia. In realtà la finzione dura poco, fino a quando l'illusione di essere risparmiati dalle domande di senso non lascia spazio all'irruzione del dolore che, inevitabile come la morte, prima o poi arriva.

     
    E allora le domande evitate fino a un istante prima, cercano aria per dare senso al senso che manca, al tempo perso a imbellettare una realtà camuffata e lontana dall'umano. Perché tanto dolore nel mondo? Perché la morte? Perché la sofferenza dell'innocente? Colpa di Dio? E se Dio non esistesse? Distratto dalla crisi dei mercati e dal valore della sola economia, l'uomo contemporaneo ha cercato in tutti modi di nascondere a se stesso la verità della vita. Parlare di sofferenza e di morte è immaginare dialoghi impossibili con chi fugge la morte e con chi con ogni mezzo in suo potere cerca di tenerla nascosta. Intanto sulle nostre sponde il grido di dolore di un'umanità in cerca d'aria provoca pensieri. Il mondo con le sue tragedie e il rumore delle guerre, dei morti per fame, seviziati dall'orrore di brutali carnefici, è avvertito sempre più vicino e investe il quotidiano. E poi la morte che spoglia gli affetti, denuda sostanza d'incontri. Come nascondersi, come evitarne la presa? L'uomo è uomo quando percorre la strada esaltante e dolorosa della conoscenza della verità, perché è nella verità che si diventa liberi.

     
    Nascondere il vero è tradire la libertà. Il morire è percorso legato alla stessa vita, è esperienza che lascia tracce di memorie e consegne di senso. Pensare la morte è esprimere un giudizio, darle significato, è affrontare consapevolmente la via naturale delle cose. Si potrebbe dire: «Dimmi cosa pensi della morte e ti dirò chi sei, in cosa credi». Il pensare la morte, renderla comprensibile alla struttura dell'essere, fa l'uomo libero. Ignorarla, nasconderla è imbastardire la vita, tanto più che la morte è l'unica esperienza che ci chiama ad essere soli di fronte al mistero. L'affronteremo soli, senza poter delegare nessuno. Il nascere è compagnia che si libera, la morte è compimento di identità. Heidegger affermava che nella morte il soggetto non può essere sostituito. La morte è l'unica situazione in cui l'uomo è protagonista assoluto. Pertanto, tradire la morte può diventare tradimento di umanità, impedendo all'essere umano di essere capace di essere.

     
    L'uomo contemporaneo nella perdita di senso, nell'orientamento mancato e nella ricerca affannosa di armonia, dimentica il dialogo con l'ultimo momento, impoverendosi di verità. Il giorno della commemorazione dei defunti è il giorno in cui il pensiero va ai propri cari che non sono più fisicamente con noi, ma è anche il giorno in cui siamo chiamati a riflettere sulla nostra stessa esistenza. Esorcizzando la morte si rincorrono futili cose, si finisce con lo scontrarsi impreparati con la verità della vita. Di fronte all'inesorabile baratro del nulla, nulla può esserci di conforto, nessuno può aggiungere una sola ora alla nostra esistenza, nessuno può restituirci gli affetti perduti, ma i nostri vecchi avevano ragione: puoi essere credente o meno, dialogare con la morte rende meno dura la vita.


     
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    Halloween e la superstizione


    Puntuale come la morte del pensiero ragionevole, nell’approssimarsi del ponte dei morti, arriva la scomunica di sedicenti gruppi cattolici della festa di Halloween ritenuta satanica, pronta a sconvolgere la vita di chi la pratica, sovversione dei costumi, porta aperta alla possessione diabolica.

    In verità non mi interessa tanto difendere la ricorrenza, che certo può dare alla testa a sciocchi interpreti di riti fiabeschi che cercano spunto in fantomatiche pratiche per allestire rituali macabri alleggerendo così la loro noia e il vuoto di una vita inutile. Tuttavia ritengo necessario per chi è credente e considera la fede una cosa seria, perché è stato allevato nella verità del Vangelo, non dare spazio a superstizione e ignoranza che per altro non servono che ad allontanare il mondo dell’intelligenza dall’annuncio cristiano e semmai riempire di pochi sempliciotti le sagrestie, uomini e donne pronti a danzare e cantare a comando di chi li comanda.


    È indubbio che chi riempie le chiese con la superstizione debba cercare nemici e inganni nel mondo, avversari che di tanto in tanto cambiano sembianze per costringere i creduloni ad arricchire il potere di chi, in nome della Chiesa, si fa garante della verità e per questo detiene il dominio sul bene, che concede agli adepti, o sul male da cui libera i presunti impossessati.

    È la stessa superstizione che serve agli ingannatori di popolo per celebrare culti semipagani passati come cristiani, riti di guarigione, di liberazione che straziano al suolo corpi con lamenti, che agitano in visioni allucinogene, in perdita di sensi, è quella stessa superstizione che certo di danno ne fa più di Halloween, svuotando di dignità la fede e di libertà l’umano.


    Possibile che ancora non abbiamo imparato dalla storia che la superstizione ha successo facendo leva sulla paura o sull’ignoranza, ottenendo, da chi non si lascia manipolare, antipatia crescente nei confronti della Chiesa?


    La superstizione è frutto di errore, di convinzioni sorpassate, di atteggiamenti irrazionali, ma ciò che rende “sorpassata” una convinzione è l’approfondimento della conoscenza che fa sì che un concetto dato per certo venga smentito da nuove scoperte.


    Di brutte figure nella storia la Chiesa cattolica ne ha fatte già troppe e spesso è dovuta ritornare sui suoi passi per riconoscere l’enormità dei suoi errori, se è vero che Giovanni Paolo II più volte dovette chiedere scusa nel giubileo del 2000 per gli abusi di una Chiesa arrogante di potere e ignorante di verità.


    Penso non solo alla questione Galileo, ai roghi, alle condanne sommarie di chi la pensava diversamente per fede, per politica, per cultura, ma a quanto è stato reso infelice l’umano per il sospetto clericale che il demonio si infiltrasse in ogni azione, in ogni diversità, in ogni spazio di libertà, di allegria umana che non fosse riconosciuta lecita e approvata dall’autorità ecclesiastica.


    Che fine ha fatto il limbo che per secoli ha co-stretto bambini innocenti a restare bloccati alla periferia della salvezza? Vogliamo parlare della condanna inflitta a chi praticava la chirurgia considerata arte medica demoniaca perché “squartava corpi” destinati alla resurrezione della carne? Perfino un Concilio la riteneva opera “dell’antico nemico che lavora insistentemente per far cadere le inferme membra della Chiesa”. O forse, considerando spazi meno “intellettuali” e accostarci meglio ad Halloween, ad attività ricreative più legate al divertimento, vogliamo ricordare quanto la Chiesa affermava riguardo al tango argentino, ballo da postribolo, severamente vietato, da confessare come peccato mortale?


    L’elenco sarebbe lungo e dolorosissimo. Conviene allora rispolverare antichi linguaggi figli dell’ignoranza? Halloween è una ricorrenza ormai popolare.


    Anche a Napoli molti, soprattutto i bambini, festeggiano senza darne i significati che nascono da congreghe malate. Può piacere o no, può trasformarsi in altro per chi cerca il torbido, ma nessuno, anche tra i preti, penserebbe mai, che sarebbe meglio sospendere la festa del calcio domenicale come anticristiana perché la domenica è il giorno del Signore.


    Il mondo cambia, meglio adeguarsi al cambiamento senza attaccare il mondo, senza subirlo e soprattutto, senza ripudiare i propri convincimenti, provare ad adeguare il Vangelo al cambiamento del mondo.

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    "Consigli al candidato sindaco di Napoli dell'anno del Signore 2100"



    CURIOSANDO in una vecchia soffitta, sono inciampato in una cassapanca stracolma di pensieri, carte ingiallite dal tempo e dal tempo consumate. Scrittura a mano sapientemente concepita, bella grafia per accattivare sguardi interessati alla lettura. Tra questi fogli l'occhio è caduto su uno scritto, non si sa quando datato, che al primo acchito pareva molto antico, ma da restar stupiti per la sua sorprendente modernità. In testa titolava: "Consigli al candidato sindaco di Napoli dell'anno del Signore 2100".


    Sorpresa non da poco per chi nella gloriosa Partenope da sempre è viandante, soprattutto ora che l'agone elettorale è alle porte, anzi già è pronto a menar mazzate, anche se lo scritto per altra data si profetizzava e molto più avanti della nostra. Cosa avrebbe mai potuto immaginare lo scrivano antico del futuro governo di una città così complessa, frontiera di così straordinarie possibilità? Sarà possibile rintracciare in quel futuro preconizzato qualcosa che interessi al nostro candidato, tanto da provocare in lui sguardi visionari capaci di rinnovare la consistenza civile della città? Ho letto con interesse e un primo pensiero ha provocato in me strane suggestioni: dovrebbe essere della politica amministrare il presente e ragionare di futuro.


    Ma se il futuro della politica è asfittico per incapacità dei politici di prevedere il futuro, materia che dovrebbero governare, orientare, organizzare, sarà mai credibile la loro proposta? Quanto ottimismo aveva lo scrivano antico nel passar consigli a chi doveva governar domani, quanta futurologia nel sangue dovrebbe avere oggi chi si appresta al governo della città, fondando il suo presente organizzativo proprio sull'idea di futuro che sogna e per cui lotta. La regola prima per il candidato, a detta dello scrivano, dovrebbe essere il non presentarsi ai cittadini con le mani in mano.


    Non basterà nel 2100 dire ai votanti chi lo manda, a nome di chi si presenta, perché saranno la sua storia personale, la sua arte conosciuta, la sua capacità amministrativa ad essere le sue credenziali, anzi si guarderà bene dal lasciarsi risucchiare nell'angusto cerchio dell'appartenenza di destra, di sinistra o di altro perché dovendo servire tutti, quella appartenenza potrebbe perfino risultare antipatica a un elettorato stanco e deluso da fameliche congreghe esperte in parole di fumo. Si presenterebbe non da solo, in verità, ma con la sua squadra che da tempo e per tempo con lui ha elaborato la visione della città futura da coniugare con il presente da amministrare, una squadra che lo dovrebbe affiancare nel governo della città, volti di cittadini e storie conosciute per professionalità e competenza, non prodotti da giochi di potere, ma uomini e donne che la città eleggerebbe perché già eletti dalla loro personale storia, ora messa a disposizione del bene comune.


    Il sindaco si presenterebbe inoltre anche con i futuri responsabili del governo delle diverse circoscrizioni, che farebbero parte integrante della sua proposta amministrativa con piani differenziati di sviluppo territoriale. Ai presidenti delle municipalità, con i quali dovrebbe il sindaco necessariamente condividere il governo della città, verrebbero passate gran parte delle responsabilità, oggi centralizzate, delegando agli specifici territori un gran numero di questioni, sia per meglio avvicinare i cittadini al municipio, sia perché in una grande città ogni municipalità ha una sua particolare consistenza e governarne una è diverso dal governarne un'altra. Soprattutto si impegnerebbe il futuro sindaco a rivoluzionare la macchina amministrava della città senza la quale ogni profezia diventa condanna.


    Per farlo non mancherebbe il coraggio di scelte difficili ma necessarie che passano attraverso il doloroso ricollocamento strutturale e funzionale delle competenze e della forza lavoro a servizio del comune. I sindaci passano, gli impiegati, gli operai, i segretari, i sottosegretari, gli uscieri e i contro uscieri, i funzionari, gli agenti, i tecnici e i manovali restano, e il governo della città passa attraverso il loro prezioso e irrinunciabile servizio. Se funzionano loro, funziona la città. Tanto altro lo scrivano antico consigliava, ma è roba da soffitte, ingiallite carte per curiosi di futuro, nel frattempo altra sapienza s'appresta, altra idea di città s'inventa di certo più appropriata. La regola prima per il candidato dovrebbe essere il non presentarsi ai cittadini con le mani in mano.


  • Madri. Arma segreta di una città



    DIRE Napoli è dire sentimento, passione, anche la più disordinata. Sfrenata corporalità nel cercare un godimento nella posa, nella smorfia, nel tratto, nel segno che faccia parlare i corpi più che le parole, li faccia muovere e nel gesto fisico esprimere l'insofferenza a ogni costrizione. Se un napoletano ti abbraccia ti fa sentire il suo calore, se ti disprezza lo senti lo stesso. La finzione è arte che a fatica riesce a controllare.


    E semmai la praticasse, lo farebbe per farti fesso. Se ti ama te lo dimostra e se gli sei antipatico non farai fatica a capirlo. E' smisurato nelle emozioni come esagerata è la città: se piange urla il dolore, se ride è incapace di controllarsi. Dalla madre impara questa confidenza con la sua fisicità: se la tenerezza dei primi abbracci è più forte del distacco controllato delle emozioni, porterà per sempre in sé un legame con la vita che, malgrado le mille difficoltà, gli permetterà di essere coraggioso e carico di ottimismo.


    Le madri sono state l'arma segreta di questa città. La psicologia potrebbe essere preoccupata di questa invadenza nella vita dei figli e a giusta ragione: ma qui, a Napoli, le cose vanno in maniera diversa. Alla mancanza di uno Stato forte sopperisce il calore della famiglia, e quando c'è, la regola della madre. Nella seconda guerra mondiale Napoli come tutte le città d'Italia ha sofferto la fame, i bombardamenti, la precarietà del vivere fino all'estremo.


    Ha dovuto fare i conti, nell'ultimo periodo del conflitto, con un'occupazione che toglieva il respiro e spegneva la voglia di vivere. La città era divisa tra il coraggio di una dimostrazione forte e una scelta "politica" che non facesse vittime. Da bambino mio nonno mi portava in una masseria di parenti al Vomero e mi mostrava il luogo dove i suoi cugini furono fucilati dai tedeschi. Avevano avuto il torto di ospitare in casa loro un partigiano. In tre furono messi in una botte e lì dinanzi ai genitori la mitraglia, perforando il legno, aveva sfondato i loro petti. Ma quella tragedia, a detta di mio nonno, segnò l'inizio della rivolta, quella che scoppiò proprio in questo stesso giorno di settantadue anni fa: "Le quattro giornate di Napoli".


    Come dimenticare la scena del film di Nanni Loy del giovane trovato morto di cui non si conosceva la famiglia. Arrivava una lunga processione di madri sgomente, ognuna pensava che quel ragazzo potesse essere suo figlio. Solo per un istante si superava l'angoscia provocata dal timore di trovarlo in quel letto di morte, il tempo sufficiente per un respiro liberatorio se non era sangue proprio. Un tempo brevissimo, in verità, perché subito arrivava la pietà, subito si era investiti dal dolore per il sangue degli altri che sempre ti appartiene se è quello di un figlio di mamma. Da quelle madri idealmente si mosse la rivolta di questa città che permise di liberare Napoli dal giogo nazista.


    Dalle madri di oggi può rinascere il coraggio di una città che non trova ancora la strada del riscatto, ancora non sa dirsi stanca delle troppe morti innocenti. Il dolore delle donne napoletane e il loro coraggio può permettere a questa città e ai loro figli di non morire, la loro rivolta, e non solo a parole, può inaugurare una lotta di liberazione che restituisca il futuro a Napoli, colori e parole di speranza.


    Oggi più che mai la mancanza di prospettive per un lavoro dignitoso, per una collocazione onesta nella società, per una pacifica convivenza nei quartieri del centro o della periferia, riempie il cuore di inquietudine di tante donne napoletane che vedono compromesse le speranze dei loro ragazzi. Nessuna società, tantomeno quella napoletana, potrà sostenersi senza un principio di solidarietà che nasca alla base della sua struttura, senza la volontà di giustizia che renda possibile, non solo la ridistribuzione equa degli spazi, dei beni e delle risorse tra i suoi cittadini, ma che faccia emergere un sentimento di compassione che renda il dolore degli altri spartibile con il nostro. In gioco non sono solo i partiti in continua e opportunistica metamorfosi che si candidano a governare la città, non sono le chiese che sembrano, oggi più di ieri, lottare più per la loro sopravvivenza che per la verità che devono annunciare, ma la città casa comune, la terra nostra che sarà terra buona se saprà essere madre di liberazione e mai matrigna dal ventre cinicamente sterile.


  • Opinioni

    Non si diventa uomini, se non fra gli uomini


     Il Papa venuto dall’altra parte del mondo, ora è nel suo ‘mondo’, in quelle Americhe che in pochi secoli hanno saputo cambiare il destino del pianeta e hanno imposto il loro ‘stile’ a nazioni lontane e a storie antiche quando il mondo.


    Un continente prevalentemente di ‘spostati, di provenienti da altra parte, come le origini dello stesso Francesco raccontano, una terra fantastica di sorprese, forte di contraddizioni e diseguaglianze, Nord e Sud, passaggio veloce tra potere economico e povertà, tra sviluppo possibile e povertà assoluta. Un passaggio veloce come quello fatto dal Papa da giugno a settembre che ha saputo raccogliere e fare propria la sfida dei poveri in Ecuador, Bolivia, Paraguay; che ha profeticamente auspicato una nuova fraternità mondiale a Cuba e che ha saputo gridare con forza  la difesa del creato negli Stati Uniti. Papa Francesco aveva detto: «Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!».


     E ha ribadito con nuova sostanza quello che per lui è il fondamento della sua predicazione: «La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore». La "custodia" del creato, ovvero non solo gli atteggiamenti individuali, ma anche la costruzione comunitaria fraterna della polis. Papa Francesco dice che non possiamo "custodire" il creato se prima non custodiamo noi stessi, nella pienezza spirituale di questo termine. La custodia del creato «chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza».


    Non si diventa uomini, se non fra gli uomini, tuttavia preferiamo nasconderci, restare soli è pane quotidiano. Le nazioni si contendono i beni della terra e per poterli ottenere rischiano conflitti. «La sfida urgente – sostiene il Papa – di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. La sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci toccano tutti». Quando siamo costretti a parlarci, nella nostra diversità scopriamo mostri, paure che ci perseguitano, che insidiano la nostra tranquillità. Semmai dobbiamo relazionarci, se proprio ne siamo costretti, allora preferiamo i nostri doppioni, i nostri specchi, quelli che ci stanno di fronte senza reagire, dei quali riconosciamo l’esistenza solo perché non ci contraddicono.


    La paura del confronto inventa processi distruttivi: o ci porta a fuggire dall’altro o ad aggredirlo per annientarlo. Stiamo insieme, lavoriamo insieme, camminiamo uno accanto all’altro nella confusione delle nostre strade, ma restiamo soli, irrimediabilmente soli. Eppure per essere bisogna ritrovarsi.  Un bellissimo midrash recita: «Guarda le mie opere, quanto sono belle e degne di lode. Tutto quanto ho creato, l’ho creato per te. Stai attento a non rovinare. E a non distruggere il mio mondo, perché se farai così non ci sarà dopo di te chi possa porre rimedio ai tuoi danni» (Qohelet Rabbah 7,28). Il possesso delle cose, la paura di perderle generano tanta sofferenza e ansia quanto il piacere di averle. È evidente allora che gridare libertà dalle cose, come ha fatto in modo nuovo ed originale Francesco a New York,  può significare ribadire il giusto uso dei beni della terra, che non mina l’idea di proprietà, ma esalta il principio della condivisione: «Il dovere di regolare il potere in modo che l’uomo, facendone uso, possa rimanere uomo».


    Non si diventa uomini, se non fra gli uomini. L’armonia dell’essere genera la persona solo se discende dal dialogo, dalla comprensione e dalla compromissione con la diversità, solo dal tormento e dalla fatica della parola condivisa. Senza l’altro rischiamo di non essere. Senza parola non si costruisce l’uomo.



  • Ed i colpi di pistola fanno ancora notizia...


    La scuola ha riaperto i battenti, i nostri ragazzi sono tornati alle “sudate carte”. Non  è stato così per Emanuele Sibillo già boss a 19 anni freddato a luglio a Forcella, non per Luigi Galletta meccanico di 21 anni incensurato, che nulla c’entrava con la “paranza dei bambini”, assassinato ad agosto, non così per Gennaro Cesarano di anni 17, piccoli precedenti, massacrato a colpi di pistola alla Sanità pochi giorni fa. Anche loro ragazzi nostri. Brutta storia.


    Una storia che non vorresti sentirne parlare, ma è storia che ci riguarda. Videogrammi impietosi a raccontare un altro delitto, non l’ultimo purtroppo, l’ennesimo in pieno giorno, sotto gli occhi di tanti.


    Corre la notizia sui fili della comunicazione, basta un clic su una tastiera di un computer e il frammento di un assurdo fa il giro del mondo, diventa sostanza di commenti: delinquenza di strada, nuove organizzazioni criminali in guerra, quotidiana indecenza nella quotidiana vicenda di una città sotto assedio.


    Immagini choc, il sistema del passaggio di parole, quello che sa raccontare i fatti e i suoi contrari, dipinge una Napoli vio-lentata, la disegna, se ancora non bastasse, trapassata dalle sue miserie, vinta dalla rovina della sua giovane carne massacrata. La cinge d’assedio con parole che di sicuro la riguardano e vorrebbero provocare in essa reazione.


    Scendere in strada? Qualcuno lo chiede. Ma le manifestazioni del giorno dopo non bastano, in certi casi, salva la buona fede di qualcuno, hanno il sapore amaro della presa in giro.


    Fatto sta che in pochi giorni sono morti ancora dei ragazzi, giovani vite che avrebbero potuto avere un diverso percorso, morti per niente, per seguire il sogno malato di una rivincita impossibile, sperando di ottenerla impugnando una pistola. Morti per niente. Parole pesanti che si ripetono ogni qualvolta, troppe volte, il sangue scorre sui marciapiedi della nostra città.

    Parole che sanno farti soffrire quando le ascolti lontano da casa: roba da Napoli.


    Un ragazzo cade sparato e nella tragedia la reazione del mucchio è contrastante, distante. Un uomo morto per terra, ucciso a pistolettate, la sequenza passa dalla paura del mucchio, dall’iniziale fuga per legittima difesa alla impietosa constatazione di un dramma non proprio, per fortuna. E il giorno dopo in strada, corteo di protesta. Un ragazzo morto, un altro, fa parte del copione. Così succede a chi fa scelte sbagliate!


    Troppo facile chiudere il resoconto con battute scontate: terra bruciata dalla malavita prima e dall’indifferenza e insensibilità della gente dopo. Troppo facile commentare anche le immagini di questa nuova offesa alla dignità dell’uomo come normale, brutale delinquenza unita a meschina indifferenza. Facile per chiudere il breve filmato e passare a un altro, il prossimo, che non mancherà, è sicuro. L’analisi sociologica del crimine può essere materia da esperti, l’atteggiamento della gente ci riguarda, noi siamo la gente. La paura anche in questo contesto è la prima responsabile.


    L’indifferenza, l’insensibilità possono descrivere il cuore di un popolo stanco e mortificato che non sa più come reagire. Scendere in strada? Forse.

    Ma meglio di tutto potrebbe descriverlo l’impotenza, una sorta di incancrenita sensazione in cui non c’è rimedio al male se ci sono fatti che non possono andare diversamente. Tragica condizione di chi, punto terminale di un sistema, è stato lasciato solo, solo a contare le vittime e a gestire le sue paure.


    L’impotenza è una malattia che si contrae, difficile pensare che a Napoli sia congenita. L’eroe che si frappone a dorso nudo di fronte al pericolo è una possibilità esaltante, ma non produce necessariamente una città normale, purtroppo anche l’eroe resta solo.


    La normalità passa attraverso la condivisione, braccia che si afferrano, che faticano a costruire la casa comune, la regola, l’accettazione, il controllo del territorio, la legge, gli strumenti per educare e far crescere.


    Facile scegliere parole come insensibilità, indifferenza, facile far diventare ancora una volta Napoli palcoscenico dell’assurdo e del disumano, dove la gente conta per non contare.

    Questa storia non mi piace, vorrei una Napoli diversa, certo come la vorrebbero in tanti. Eppure so che questa Napoli c’è, ma non riesce a far rumore perché nel frattempo i colpi di pistola l’hanno ammutolita: fanno più notizia.

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