Articles by: Gennaro Matino

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    Il vero mestiere della Chiesa

     
    “La sfida grande della Chiesa oggi è diventare madre, non una Ong ben organizzata”. Capisco che è difficile cambiare i paradigmi interpretativi in un mondo in rapido mutamento, capisco che quando Papa Francesco fa affermazioni come questa rischia, ma rischierebbe di più e con più vantaggio per la Chiesa se oltre le parole dicesse o facesse dire alla Chiesa gerarchica come realizzare il cambiamento, come far mutare le strutture di governo ecclesiastico e di annuncio della Parola.

    Questo non c’è, non si vede all’orizzonte, anzi, dal mio modesto punto di osservazione del tutto criticabile, si ha la sensazione di una regressione di significato originario della Chiesa, di un allontanamento sempre più marcato tra la sua vocazione e la missione che è chiamata a svolgere. Per assurdo cedere alla tentazione di restare per lo più solo una Ong, proprio quello che il Papa avrebbe voluto evitare. Certo la stampa darà risalto a quello che sembra essere originale senza esserlo, mentre la Chiesa resta senza la sua identità originante che è l’annuncio della salvezza, il passaggio di parola per incarnare il Verbo nella complessità degli avvenimenti umani.

    La generosità, l’operosità della Chiesa a favore degli ultimi è senza alcun dubbio una delle vie di comunicazione, ma con essa non si esaurisce il Vangelo, anzi solo con essa si lascia campo libero a spazi di improvvisazione ecclesiastica che, mettendo l’annuncio in stato subordinato all’assistenza sociale, relegano il messaggio del Maestro di Galilea a scuola di buone maniere, di buoni sentimenti, un dettato di buoni propositi lontano dalla sua forza rivoluzionaria: annunciare la resurrezione dei morti, la salvezza universale, la speranza contro ogni speranza. Per poter lanciare la sua sfida di Vangelo è indubbio che la Chiesa dovrà ricercare strategie di comunicazione che rendano comprensibile il messaggio alla differenza degli uomini, ma dovrà prima di tutto tener conto che per essere fedele a quel messaggio non potrà svenderlo per nessun consenso umano, per nessuna forma di propaganda, per nessuna necessità di aggiustamento alle richieste del mercato della comunicazione mediatica.

    E per quanto mi riguarda, è qui che si gioca il destino della Chiesa, sulla sua capacità di essere credibile nella Parola che annuncia, comprensibile nella verità che passa, creduta oltre il detto. Certo, e ci mancherebbe che in forza dell’Amore la Chiesa non testimoniasse la sua profezia di carità negli avvenimenti tragici della storia. Ma mentre in questo campo, in quello della solidarietà, della compassione, in un modo o in un altro, in maniera convinta o forzata, durante la storia la Chiesa non ha fatto mancare il suo convinto contributo, dove è tragicamente assente è nella comprensione e nella individuazione di strategie di comunicazione capaci di raccontare il Vangelo nella complessità dei mutamenti umani, come se a un chirurgo per esercitare la sua professione bastasse indossare un camice senza avere le mani per operare. La parola è uno specchio nella quale la comunità si ritrova, difficile da imprigionare in dizionari preconfezionati che altro non restano che semplici istantanee di un processo di trasformazione continuamente in atto all’interno di una particolare comunità.

    Annunciare la Parola significa fare i conti con l’ambiente, la cultura, la sensibilità del destinatario, con i suoni e i segni a lui familiari. Una predicazione avulsa dalla quotidianità, lontana dai problemi della gente, non arriva all’uomo della strada, è un camice senza mani. Mestiere difficile quello dell’evangelizzatore, ma è il mestiere della Chiesa che, con pazienza e umiltà, dovrà piantare il seme della Parola in diversa terra, districandosi tra la fedeltà alla verità e l’adeguamento al destinatario. Mestiere imprescindibile che ha consentito al Vangelo di rimanere attuale, benché i mutamenti fondamentali avvenuti nel corso del tempo. Ma mai come oggi, mentre avanza la rivoluzione globale del linguaggio, è necessaria la mediazione dell’evangelizzatore. C’è? E’ evidente? Si è attrezzati per questo? Non credo. Ed è su questo che primariamente sta puntando il nuovo della Chiesa? Non mi sembra. Trovare scuse è deludente, restare fermi a ragionare sulla crisi della fede causata da un mondo in cambiamento, dal cambiamento dei linguaggi non solo è rischioso per il suo futuro, ma è arrogante e infantile. La rivoluzione del linguaggio e dei mezzi di comunicazione ha tempi di velocizzazione tali che o si segue il nuovo mentre muta o si resta irrimediabilmente fuori. E non sarà nessuna minaccia del futuro inferno a convincere l’uomo di oggi, nessuna punizione eterna a renderlo pronto a credere alla verità del Vangelo.'

     
    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli
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    L'aggressione dell’ignoranza

    La sorpresa è che ci si sorprenda, o si faccia finta di sorprendersi in questa ipocrita, ennesima, analisi di devianza giovanile, subnormale e scandalosa quotidianità di una Napoli che fa i conti con il suo strutturale disagio, quello di sempre, quello raccontato da anni di assenza di Stato, di regole, di governo, di educazione civica. Violenza, soprusi, ovunque aggressioni, branco, di notte o in pieno giorno senza pudore, senza vergogna.

    Non c’è posto a Napoli, non c’è spazio che non sia occupato da volgare delinquenza spicciola o organizzata, oltre ogni confine prestabilito, oltre l’antiquata e malata nomenclatura di zona bene e quartieri malfamati checché ne dica il questore De Iesu.

    Nessuno è risparmiato dall’aggressione dell’ignoranza che palesa il pressapochismo organizzativo della politica che rende ogni progetto di ristrutturazione della vita pubblica titanico, ogni sfida di futuro, utopia, ogni lotta per la legalità, fatua promessa. I fatti raccontano una citta allo sbando ed è inutile ricercare colpevoli, sono noti, sono sotto gli occhi di tutti e l’indignazione da sola dei soliti commentatori del giorno dopo è un alibi per nascondere responsabilità, scappare di fronte all’assurdo di crimini gratuiti, vigliaccheria, comunque, in ogni caso già scritti, tutti prevedibili. Non è oggi emergenza nazionale più di quanto lo era ieri e qualche coltellata in più per quanto deplorevole non aggiunge alla sconfitta delle istituzioni altra vergogna di quella che già hanno accumulato da tempo, da troppo tempo. Da Matilde Serao, dai suoi lazzari sfrontati e delinquenti, al dossier splendido dell’indimenticabile Joe Marrazzo che raccontava in “Sciuscià” le storie dei tanti adolescenti della Napoli degli anni Ottanta, pronti a diventare manovalanza della camorra, il fatto è lo stesso, uguale parafrasi della decadenza di una parte della gioventù, sempre più numerosa, che diventa storia di umana delinquenza.
     

    La cosa triste è che più nessuno ormai, e dico nessuno, oggi a Napoli davvero sa cosa sia la vergogna, pronti come si è a scaricare sulle spalle degli altri la responsabilità della sconfitta che peraltro insieme alla Stato vede in stato avanzato di decomposizione la famiglia che non è più in grado di contenere le angosce e le inquietudini dei ragazzi che ancora troppo piccoli possono restare in strada fino a tardissima notte, non li aiuta a decodificare le mille informazioni per lo più violente o demenziali, né a discernere tra la verità e la menzogna che il mondo degli adulti propone.

    Difficile bypassare lo stile di Gomorra che, aldilà del giudizio artistico, si è trasformato nel file rouge linguistico di tanti giovanissimi di diversa estrazione che lega in un solo imbroglio la loro vita e la traveste in malata rivalsa, in rivincita, in lotta per il territorio, perfino in un diritto di sopravvivenza. Difficile proporre a loro un qualunque modello positivo alternativo se nello stesso linguaggio “ gomorrista” non si trova traccia di qualcuno che contrasti, lotti, si opponga alla scelleratezza del male. Gli unici modelli da imitare restano i bulli del quartiere, gli sprangatori, gli accoltellatori, i pratici di scorribande armate o coloro che in un modo o nell’altro fanno notizia, sia pure con la morte.

     
    Quello che cercano i ragazzi “perduti” è essere ritrovati proprio là dove la prepotenza criminale li trasforma da quotidiani fantasmi in primi attori per esistere, per uscire alla scoperto, per vincere il nulla che li opprime. La violenza delle bande è la risposta peraltro al controllo del territorio fallito, alla prevenzione mancata, alla cura ambientale quasi del tutto assente che passa non ultima per gli orari di chiusura e apertura dei locali che non possono avere il dominio assoluto solo perché sono l’ultima attività economica che resta alla città ma passa prima di ogni altra cosa per il fallimento del progetto educativo della città, di quella sfida a favore dei giovani che avrebbe dovuto vedere insieme famiglia, scuola, stato, chiesa. A questo andrebbe aggiunta una sana e logica strategia repressiva partendo dalla piccole infrazioni.
     
    Mi prendo tutta intera la responsabilità di rivendicarla perché per quanto mi riguarda è proprio la disaffezione alle piccole regole che aiuta le grandi a prosperare. Una grande città come New York con il sindaco Giuliani cambiò il suo volto negli anni Novanta quando decise che la tolleranza al crimine doveva essere zero e mentre i grandi traffici li lasciava combattere allo Stato centrale, l’amministrazione della città si concentrava a debellare il microcrimine. Ma New York, i newyorkesi volevano una nuova città, i napoletani non ne sono convinti, e forse neppure la vogliono la sua polizia locale, lontana dalle strade, lontana dalla gente.
     
  • Giovani del movimento studentesco negli anni 60
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    Travolti dall’onda anomala di una crisi non solo economica

    Un delitto, un colpevole. Una gioventù bruciata, il mondo degli adulti il suo piromane. Sarà così? Non so quale sia l’Italia migliore o quella peggiore. Forse sarebbe meglio non etichettare nessuno. La verità è che siamo tutti sulla stessa barca, travolti dall’onda anomala di una crisi non solo economica che ha investito tutti e non solo il nostro Paese. Eppure bisogna sperare contro ogni speranza, bisogna inventarsela un’Italia migliore perché si possa con coraggio e più fiducia ritornare a parlare del domani. Il cambiamento in atto non è ancora consumato e i risvolti futuri non sono prevedibili.

    L’ultimo sondaggio dell’Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto su Repubblica, racconta di un mondo giovanile allargato a dismisura, la vecchiaia è l’unica paura che coinvolge tutti e per questo, nel desiderio delle parole e nella follia di parabole che si raccontano per non darla vinta alla verità, “la gioventù dura fino a 52 anni”. Volesse il cielo! Ma poi capisci, leggendo tra le righe del sondaggio, che il racconto della società reale dice altro, comprendi che il desiderio faustiano di eterna gioventù naviga sul battello dell’adolescenza mai digerita, di quel tempo delle decisioni sospese che costringono, per irresponsabilità o per costrizione di stato, a lasciare ad altri le scelte decisive.

    Se è vero che negli anni Novanta i giovani erano la generazione invisibile, la nostra è della gioventù cancellata, perché se tutti sono giovani allora gli adulti o i quasi vecchi hanno rubato irresponsabilmente lo spazio ai figli, hanno rubato speranza al loro futuro. Rimasti soli, i nostri ragazzi defraudati della loro stessa età, con nessun confronto con chi è opposto o diverso, con chi è adulto, vecchio o trapassato, leggono il reale come una fiction, se non addirittura come una comica. Questo è il tempo delle occasioni perse, delle caricature di se stessi, della morte dei significati profondi: si naviga a vista, difficile sapere ancora quale sarà l’approdo.

    Sarà per questo che le fedi sbiadiscono, che la politica non interessa più a nessuno e che perfino la religione quando riesce a passare arriva già vecchia. Colpa dei partiti, colpa della Chiesa travolti dalla presunzione di poter gestire un cambiamento che non avevano nemmeno per un attimo ipotizzato anche se loro compito era di sognare il futuro, di costruirlo.

    Non è vero “che piccoli atei crescono”, perfino l’ateismo ha bisogno di una fede, lo si sceglie, per me credente sarebbe perfino interessante scoprirne le cause se fosse una vera scelta, dialogare con la differenza dei punti di vista, che però non ci sono, non si intravedono, solo il nulla, i perché senza perché, per darsi alla fuga dalla responsabilità di pensare.

    Quanto lontani sono i tempi della contestazione giovanile, di quella lucida e pazzesca fuga di pensiero che fu il ’68, già preistoria. A Parigi si originò la grande avventura della rivoluzione giovanile, sogno di fantasia al potere e laboratorio insolito di lotta politica che in Italia vide due mondi fino allora prevalentemente distanti, quello studentesco e quello operaio, scambiarsi vita con sorprendente contaminazione. Vento di nuovo che trasformato in nuova sostanza provocò speranza di nuovi diritti nelle fabbriche e di nuovo linguaggio nell’università e nella scuola.

    Rivoluzione di speranza che, prima di degenerare in altro, segnò il carattere di un Paese che avrebbe potuto approfittare di quel nuovo vento, di quel nuovo linguaggio per inaugurare una grande stagione riformista, per costruire una società migliore, per dare spazio alla fantasia come ricchezza da condividere, ai sogni come risorsa su cui contare. Poteva inaugurare una politica visionaria capace di dare forma a strategie economiche innovative, a una partecipazione appassionata della gente alla politica, purtroppo si ripiegò presto su se stessa, costretta all’angolo da antiche e irrisolte trame sovversive ereditate da una guerra civile consumata nel ventennio che divise l’Italia e che ancora oggi non la rende unita.

    Ma quello spirito ancora mi affascina, senza nostalgia, vorrei che quel vento, diversamente dato, con nuova forma e originale sostanza, potesse nuovamente rinfrescare il quotidiano scialbo e passare ai giovani, ai veri giovani e non alle attempate copie, il desiderio di inventare idee, di contrastare il falso, di contrapporsi con audacia e passione alla morte del pensiero.

    Come vorrei una appassionata e travolgente stagione in cui i protagonisti fossero loro, i nostri ragazzi, pronti a trovare lo slancio e la curiosità di organizzare anche per noi un mondo migliore. Io ci credo, credo che sia ancora possibile. E credo che come nel ’68 quel vento giunse all’improvviso, così sarà. E per quanto mi riguarda, comunque e in ogni caso, sarò dalla loro parte.

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    Una società che anestesizza la morte

    Non mi fa paura Halloween, non mi invento diavoli per esorcizzare stravaganze. Rispetto la mentalità, il tempo che cambia e, anche se non tutto il cambiamento mi piace, provo a capirlo piuttosto che a demonizzarlo. Mi fa paura al contrario una società che scientificamente nasconde la morte, una rimozione che temo finisca col provocare effetti devastanti nella quotidianità della gente. Una volta si moriva in casa e perfino i ragazzini erano là, presenti, ad imparare un percorso doloroso che faceva parte del vocabolario della vita, perché l’unico modo per difendersi da un nemico è conoscerlo.

    Oggi non parliamo della morte perché o non crediamo nella vita oltre la vita o non abbiamo il coraggio della vita fatta perfino di quotidiana morte e pensiamo di sfuggirla nascondendola a noi stessi. I nostri ragazzi non sono attrezzati alla verità, sono fragili, esposti al rischio di una evidenza taciuta, costretti a crescere da soli senza un mondo di adulti che si prenda la responsabilità di essere adulto. Non conoscono la morte e proprio perché non la conoscono la sfidano quotidianamente, la provocano, la mettono in condizione di agire nei loro videogames, nei loro incubi, negli sballi del sabato sera. Abbiamo smontato la morte dal nostro vocabolario come se fosse un fatto che non ci riguarda, l’abbiamo anestetizzata pensando che la scienza sia sempre capace di dare le risposte che ci servono per detronizzarla.

    La cosa più drammatica è che a volte per nascondere la paura della morte, cancelliamo perfino il ricordo di chi ci ha preceduto. Spargiamo al vento, e non solo metaforicamente, le ceneri del caro estinto. Ma nascondere la morte non servirà per evitarle di fare il suo ingresso nella nostra storia. Nessuno sarà risparmiato. Non sarebbe meglio attrezzarsi a riceverla, piuttosto che negarla, ignorarla, peggio cancellarla dal vocabolario della nostra esperienza? “Memento homo”, ricordati uomo che polvere sei e polvere diventerai, era la giaculatoria quotidiana dell’asceta per ripetere a se stesso che il tempo gli era concesso come talento da sfruttare. I percorsi di conoscenza di sé e di avventura nella frontiera dello spirito, impedivano all’uomo di ricerca di mentire a se stesso. Un teschio, che al contemporaneo sa di macabro, era sempre in bella mostra sullo scrittoio del filosofo o sull’inginocchiatoio del monaco.

    Immagini andate e certo non riproponibili, ma il concetto che esse esprimevano per provocare la vita a fare i conti con la morte, andrebbe riproposto. Anche Amleto, l’eroe shakespeariano, dialoga con il mistero e, nel suo “Essere o non Essere”, l’Oltre diventa l’interrogativo delle sue scelte. Francesco, il santo delle stimmate, capace di cantare la vita e di scoprirla come assoluta bellezza, sa che perfino la morte, “da la quale nullo homo vivente po’ skappare, è sorella”, parte della natura con cui bisogna fare i conti. Indubbiamente, un’arrogante e terroristica strategia di annuncio, usata come frusta sulle miserie degli uomini, ha reso le religioni antipatiche, oppressive, oscurantiste e sorella morte, con cui si dovrebbe dialogare, un mostro da affogare nell’oblio, tanto da non aiutare l’uomo a fare un percorso di conoscenza della verità. C’è una lotta tra la vita e la morte, c’è un conflitto che va affrontato per essere uomini liberi e se non lo si affronta a vincere, comunque e in ogni caso, sarà la nemica e non solo quella dell’ultimo giorno.

    Ci sta, allora, per credenti e non credenti che il calendario questa settimana rimandi alla Commemorazione dei defunti, ci sta che la pietra nuda di un cimitero ci faccia fare i conti con l’estremo e, oltre le pratiche, recuperare la memoria dei congiunti andati come provocazione per una vita che abbia il sapore della verità. Ci sta il celebrare in una sola ricorrenza i morti per fare cerniera di memoria e profezia; ricordare i nostri cari che ci hanno anticipato nel percorso definitivo; riconsiderare la loro vita e per questo esprimere la gratitudine per averli ricevuti. E per chi crede sarebbe straordinario se proprio in questo giorno, forti della fede, al freddo marmo consegnassimo il nostro convincimento: non cercare tra i morti coloro che sono vivi.

    Così, la pur necessaria memoria aprirebbe lo scrigno del passato al futuro e permetterebbe la comunione dei santi che lega per sempre vivi e morti, il passato e il futuro, i vivi nel tempo e i vivi oltre il tempo. Con la morte la vita non è tolta ma è trasformata, così è nella natura, così il seme che diventa pianta, così per la fede di chi crede nel futuro di un incontro futuro. È il giorno in cui non il nostro dolore, le nostre difficoltà, la nostra paura della morte, ma i nostri cari andati altrove sono protagonisti della vita. Della loro, della nostra.

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    Lo Ius soli è un diritto già acquisito nei fatti

    Non credo che il diritto sacrosanto di un bambino che nasce in Italia e in Italia vive sia un’idea di sinistra, credo semplicemente che sia una scelta sensata, giusta, ragionevole e onesta. Mi oppongo con tutte le mie forze contro chi pensasse che questa mia convinzione provenga dal mio stato di “lavoro” o dal mio percorso credente, anche se non nego che l’essere di Cristo mi imponga la giustizia come vocabolario. D’altronde faccio davvero fatica a comprendere chi come me pur ritenendosi cristiano, pensa che rendere italiano un fratello di “altrove” sia un delitto. La mia convinzione è semplicemente frutto di ragione, di relazione con l’umano linguaggio che fa parte del quotidiano mio vivere che mi insegna che la democrazia, la civiltà di uno stato, passa attraverso regole giuste, ragionevoli e oneste.

    Lo Ius soli è una regola giusta perché risponde alla più elementare esigenza di governare e disciplinare il già dato, dando dignità e valore di appartenenza a chi vive da sempre la nostra stessa terra, a chi parla la nostra stessa lingua, a chi ama il nostro stesso Paese come noi e forse più di noi tanto da desiderare ardentemente di appartenervi, di rispettarne le leggi, di accettare e fare propria la sua storia. Assurdo pensare che ragazzi, che altra Patria non hanno se non questa, la loro, debbano ancora sentirsi stranieri in quella che sentono casa propria e vivere il disagio di essere nel posto che più amano senza sentirsi amati abbastanza da essere chiamati italiani. Avessero nelle gambe il dribbling giusto non ci sarebbero oppositori a una legge di diritto per la loro cittadinanza, ma gli stadi di calcio non sono il luogo più adatto per dire giustizia e il tifo è altra cosa dalla passione quotidiana perché le idee di libertà vengano tutelate.

    Lo Ius soli è una regola ragionevole perché è impossibile pensare che non debba essere regolato ciò che ormai è vita di ogni giorno, bambini che condividono scuole, giovani che fanno parte dello stesso futuro della nazione, dove i diritti e i doveri vanno condivisi con tutti quelli che nello stesso progetto di vita sono diversamente chiamati a partecipare e ad essere protagonisti. Dare cittadinanza è certo aprire a una nuova condizione chi si sente ancora fuori posto, ma anche chiamarlo a una piena responsabilità, a una più consapevole partecipazione, alla presa di coscienza che il diritto di essere italiano pretende il dovere di legge, costume, civiltà, cultura di chi ti dà l’onore e la gioia di esserlo. Verità che in realtà varrebbe per chi desidera cittadinanza e per chi italiano lo è per nascita e per storia, anche se, a conti fatti, penso che il desiderio appassionato di chi oggi vuol essere italiano, di chi ami intensamente la nostra terra, superi l’amore e il rispetto di tanti stessi italiani.

    È una legge onesta lo Ius soli, e gli onesti di pensiero dovrebbero farla loro oltre gli steccati ideologici, oltre le contrapposizioni di parte: la verità è materia di uomini liberi come lo era nel passato che ha giudicato già chi era nella verità e chi non ne faceva parte. Proprio in questo giorno, settantasette anni fa, usciva nelle sale cinematografiche un film che ha fatto storia, coraggiosa denuncia di un tempo impazzito, foga iconoclasta del diverso, del desiderio di supremazia di pochi sul resto del mondo.

    Tutti ricorderanno “Il Grande dittatore” di Charlie Chaplin, l’ultimo suo film girato con i suoi inconfondibili baffetti, tagliati e rifiutati per sempre per essere troppo somiglianti a quelli del demonio nazista. Un film che lancia un grido di speranza, violenza d’amore che non si rassegna a un mondo vinto dall’odio, pronto alla guerra.

    Il monologo alla fine del film è ancora tragicamente attuale. Scuote, apre le coscienze a chi vorrebbe un mondo migliore e che, allora come oggi, non si rassegna a vivere il tempo come prigioniero di senso. Invito a riascoltare quel monologo, oggi è facile con un click su YouTube e a commuoversi ancora se possibile: “Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo”. Già, godere della felicità dell’altro, anche di quella di chi vorrebbe essere italiano. Ma questa è un’altra storia. O forse no.

  • Mark Zuckerberg
    Opinioni

    Le scuse di Mark Zuckerberg

    «Chiedo scusa se il mio lavoro è stato usato per dividere le persone». Così Mark Zuckerberg nel giorno di Yom Kippùr, il giorno in cui gli ebrei fanno ammenda dei loro errori, per i peccati commessi nel corso dell’anno. E ha aggiunto: «Proverò a fare meglio il mio lavoro». Un esame di coscienza coraggioso e impietoso, inaspettato se proviene dal signore di Facebook, il re della comunicazione globale, il domino degli scambi di faccia e parole, l’uomo del potere oltre ogni controllo che si allarga a dismisura di valore economico e di persuasione politico globale.

    Le regole servono alla libertà per respirare e la verità è parte stessa delle regole che l’uomo si dà per non offendere la libertà dell’altro. In rete non ci sono regole che tutelano la libertà. Il cielo stellato di ogni possibilità umana, la curiosità di oltrepassare la frontiera del possibile, il sogno di andare oltre la ricerca dell’altro e degli altri, naufraga nel mare della volgarità e dell’inganno quando la regola, la legge morale scritta dentro ogni uomo, è resa straniera. Un grande mezzo di comunicazione come Facebook può essere una via planetaria per la libertà, può permettere a diversi di incontrarsi e scambiarsi vita, ma può essere anche il luogo dove la libertà naufraga, imprigionata dalla dittatura della menzogna, genere diffuso tra chi all’essere sceglie l’apparire e l’apparire si inventa per nascondere il vero di se stessi di cui ci si vergogna, della realtà, della quotidiana verità, unica che permette alla vita di respirare. La vita affettiva, le relazioni interpersonali, la costruzione faticosa del dialogo, incontro e scontro di parole non possono rinunciare alla verità, sarebbe rinunciare a vivere.

    Oltre il privato scambio, oltre il passaggio di decenza e indecenza che la rete offre ai singoli internauti, la finzione come potere è potere nelle mani di chi sta dominando il mondo e ancora di più vuole costringerlo al dominio di pochi vendendo notizie false prefabbricate ad arte, costruite per indirizzare voti, consensi, dinamiche di appartenenza e di rifiuto, scegliendo la pseudo democrazia della rete che mai può essere vera perché impossibilitata per sua natura alla totale trasparenza, perché dietro a uno schermo non è certo che sempre ci sia un essere libero e pensante e soprattutto onesto. Sento ripetere che la potenza di un mezzo di comunicazione e il suo corretto uso sta nella conoscenza che se ne ha, dell’utilizzo che se ne fa. E non si può essere che d’accordo benché resti retorica se l’analfabetismo dei nuovi linguaggi non ha mai avuto piena e visionaria attenzione da chi ha responsabilità politiche e pedagogiche.

    I poteri oppressivi del passato facevano leva sulla disinformazione, sulla persuasione occulta o ingannevole convincendo dell’assoluta necessità di affidarsi alla parole dei venditori di menzogna che unici sembravano capaci di salvare il mondo. Tutto falso, tutto costruito ad arte, tutto passato nella rete dell’informazione di allora compiacente e venduta. Niente di diverso dal prodotto politico, sociale, economico avariato e guasto che oggi in Facebook o altrove in rete si vuole vendere a tutti i costi come salvifico anche se tragicamente mortale. Con quale mezzo l’Isis ha fatto reclutamento dei folli interpreti del Corano o Trump ha convinto l’America del suo incubo? Come Erdogan sottomette i turchi e Putin i russi? Come si costruiscono armi “fai da te” per organizzare stragi? E in casa nostra i vaccini diventano condanna a morte. Un Far West dove tutto e il contrario di tutto è ammesso. Non una regola, non una possibilità di discernimento, non un percorso di libero scambio fondato sulla decenza della libertà di parola che è altra cosa dalla libertà della menzogna.

    Mark Zuckerberg ha riconosciuto nel giorno più solenne per lui, ebreo, che qualcosa nel suo lavoro non va. Non è una critica dall’esterno al sistema Facebook, è la presa di coscienza di chi sa che anche la sua invenzione è a rischio di durata se consente alla pura libertà di parola di essere tradita, di chi sa che proprio la libertà senza regole ha permesso a Facebook di diventare così potente da rischiare oggi di distruggere se stesso.

    La libertà ha bisogno di essere educata, di lasciare spazio al tempo della verità per la sua crescita. Nella nostra vita avere  continuamente a che fare con la libertà è affrontare un rischio, uno sbaraglio. La democrazia ha tutti gli ingredienti perché la libertà si salvi o si suicidi, possiede tutti gli enzimi con i quali può fabbricarsi il suo messia o il suo sterminatore. Per questo se vuole durare, la democrazia va continuamente rifondata, va rinnovato il patto tra uomini liberi che sanno che le regole non sono un optional del bene condiviso. Ancor di più in rete, ora.

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    Stupro. il trionfo dell’ignoranza. Vigliacca debolezza

    Stupro. La parola rincorre il fatto, veste di violenza la vita di ogni giorno, ancora uno, un altro ancora e la vergogna di un’estate senza vergogna conta le sue vittime. Linciaggio mediatico per lo straniero: “rimandiamo a casa gli animali”. Pudore, imbarazzo per la divisa infangata: “sarà vero?”. La cronaca sciorina i particolari del sopruso e si trasforma in morbosità, pornografia del corpo e della mente che poteva essere evitata, bastava il nome dello scempio per raccontare assurdi. Ma si sa che le notizie fanno affari se sanno essere estreme e nulla di più appetibile per la cronaca è la materia morbosa che si nutre di ciò che resta sospeso sul confine tra lecito e perverso.

    Intanto la donna violata resta segnata per sempre nella mente, nel corpo, prigioniera di un furto che si ripeterà per lei all’infinito: presto dimenticata, pronta a cedere il palco alla prossima sventurata. Non solo donne violentate in verità, di sicuro per la maggior parte, ma non tutto è denunciato nello squallido incedere di una società senza regole, maschi e femmine sono uguali per chi cerca lo “sballo” a tutti i costi, per chi soddisfa la sua vigliaccheria abusando sessualmente di chi per essere ritenuta vittima dovrà “nuovamente” essere abusata: denunciare, raccontare, sottoporre il corpo già sporcato alla verifica di sguardi indagatori.

    Certo non basta la sola parola per raccontare un crimine così efferato, va dimostrato, anche se per farlo al danno segue il dolore della vergogna, dello scoprirsi nudi senza colpa, privati di dignità, di protezione. Nudi come restavano i condannati dinanzi ai plotoni di esecuzione nazisti, come i deportati nei campi di sterminio nei lager della disumana angoscia, tale il seviziato, l’abusato, lo stuprato, resi pietra dal ricordo, violentati nuovamente dal sospetto: “forse consenzienti?”. Malato incedere di un tempo che nel piacere della carne ha posto il suo primato, che non trova adeguata una vita sessuale normale, anzi il sesso per essere goduto deve saper superare il superabile e se questo è posto come mantra per dare vita piena alla libertà ritrovata dopo secoli di oscurantismo, in cui la vita sessuale era repressa e peccato, nel frattempo c’è chi resta schiacciato da una dinamica pornografica della relazione e sconfina nell’oltre senza più barriera, senza più limiti, senza più confini tra lecito e illecito.

    Certo ognuno è libero di vivere la sua sessualità come crede e nelle mura del suo privato quando lo scambio è adulto e libero non può trovare giudice se non nella propria coscienza e nulla asserisce relazione tra vita sessuale estrema e stupro, ma qualcosa mi dice che se è vero che la violenza sessuale da sempre è scritta nel libro della storia è anche vero che quando i freni inibitori saltano è molto più facile che la violenza si presenti e le sue forme diventino sempre più obbrobriose.

    Ti chiedi: come mai in un tempo dove dovrebbe essere facile “consumare” sia poi così diffusa la violenza carnale? Come mai la “libertà sessuale” generi mostri tali che ad ogni età, in ogni ambiente, in ogni condizione ripresenta il sesso come oppressione? I fatti denunciati dalla cronaca, raccontati dalle vittime sono solo la punta di un iceberg che lontanamente riescono a descrivere quanta violenza sessuale alberghi nel nostro quotidiano, di quanto perbenismo ipocrita sia rivestita la società per nascondere trame di dolore che gridano nelle mura domestiche dove quella violenza è taciuta, nei baretti di casa nostra dove giovanissimi incapaci di “scegliere e volere” sono prostituiti al piacere di porci benestanti, di quanti per ottenere asilo nelle grazie di potenti subiscono le loro squallide avance.

    Violenza di sicuro anche questa che non avrà uguale risonanza mediatica fino a quando il coraggio della denuncia non riuscirà a rompere il muro del silenzio, che non è necessario forse che abbia spazio nella cronaca ma spazio nella denuncia civile sì, nella lotta quotidiana di chi vuole per sé e per i propri figli un mondo a misura di uomo.

    Spesso sento dire che la violenza sessuale è il risveglio animalesco dell’uomo primitivo: non sono d’accordo. L’animale se aggredisce lo fa per fame o per paura. L’uomo è l’unico essere pensante e se usa violenza è perché altro non ha nelle mani che la sua vigliacca debolezza per tentare di imporre il suo perverso dominio. Il piacere sessuale che si lega a questa patologia è il trionfo dell’ignoranza, squallida, disumana malattia che come arte del suo fallimento si manifesta nella sua carne e nella sua mente.

    Desidera, brama, non riesce ad ottenere, fa guerra, fa vittime, ma poi perde, perde sempre, comunque e in ogni caso, perde.
     
    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli
     
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    Essere a Gerusalemme, oggi

    Essere a Gerusalemme è respirare Pasqua, vita e morte che si mischiano insieme nella fede di chi crede, nella quotidianità di chi vive questo lembo di terra, così ricco di storia, così pieno di contraddizioni. Ero lì a luglio mentre divampava la protesta che faceva morti, ci sono ritornato in settimana. Un posto unico al mondo dove si percepisce che qui si gioca la pace, il destino del mondo, una terra oltre le sue mura, aperta al futuro, arroccata al suo passato. Un grido di pace che riguarda anche noi cittadini di altrove che da qui abbiamo origine e qui invochiamo un destino sicuro per i figli nostri, per i figli del mondo. Un grido che coinvolge, che arriva allo stomaco, e commuove come l’amore innocente che spacca la banalità del vivere. Essere qui è respirare la pace, non quella che il mondo ancora non conosce, ma quella che arriva dentro, che fa rinascere l’uomo dall’Alto e lo apre a nuovi orizzonti.

    La Basilica della Resurrezione è un crocevia di popoli, pianto di genti e gioia incontenibile di sorprese. Il marmo dell’unzione, subito all’ingresso del tempio, è unto misto di olio profumato e lacrime, tenute nascoste da tempo, ora libere di essere versate, senza pudore. Poco importa del rumore estraneo, non si avverte fastidio per i passi del passeggero distratto arrivato qui da turista, per pura curiosità, non distraggono i flash delle fotocamere, veloce contatto con una pietra che resta con il solo sapore del marmo. Chi è qui per sfondare il muro dell’apparenza, chi è qui per rimuovere la pietra e oltrepassare la barriera del terzo giorno è troppo teso e coinvolto per non abbracciare la luce di Pasqua, nemmeno sente il rumore dei passi senza memoria. Qui, proprio in questo sepolcro, il Figlio dell’uomo ha sconfitto la morte, quella definitiva, ma non ancora quella che i figli degli uomini si portano dentro.

    Essere a Gerusalemme in questi giorni è anche essere protagonisti di un tempo che ancora non riesce a lasciarsi coinvolgere dal grido della vita, della pace, la stessa pace che il Risorto annuncia ai discepoli prigionieri nel cenacolo. Si avverte che basta un nonnulla per scatenare l’inferno. Non puoi non farti domande di senso quando partecipi alla memoria del popolo eletto, pregando a quel muro che racconta vestigia passate e ricorda il tempio distrutto mentre i giovani, ormai adulti per quella comunità, leggono la Thorà. Non puoi non farti provocare dall’altro muro, diverso da quello del pianto, ma comunque bagnato di lacrime, eretto per dividere il destino di due popoli.

    Qui, o altrove, il muro innalzato dall’odio insensato, da menzogne passate per verità, è sempre lo stesso, uguale in qualunque frontiera che mette uomo contro uomo, fratello contro fratello. Limite che ragiona separando per sesso, per razza, per condizione sociale, religiosa, economica. Mare che affoga speranza di popoli in cerca di casa, confini di sangue che limitano territori di spaccio e di camorra. Confini di pietra eretti a protezioni, riserve mai sicure per accogliere alcuni ed escludere il resto, tutto il resto con l’unica colpa di essere diversi. Gerusalemme come New York, Napoli come Parigi, il mondo, le sue mura, la guerra è già in atto. Testimone occasionale, alla barriera di uno dei tanti check-point, ho visto il pianto di chi in casa propria si sente prigioniero.

    Un padre, israeliano, tre bambini per mano, cercava di tornare a casa da Betlemme, ma il varco non era quello giusto, da lì passano solo le auto e l’altro varco era già stato chiuso. «Devo tornare a casa, mia moglie è in pena». «Da qui non si passa». Una risposta secca, metallica come il rumore delle armi, che non lascia spazio al dialogo, alla pietà, alla compassione. La voce dell’uomo, a guardia di quel confine contro natura, non aveva più nulla di umano. «Da qui non si passa». Faccia a faccia, l’ebreo e l’ebreo, il padre e la guardia. L’uno col volto segnato dalla sofferenza, l’altro, senza espressione, col fucile puntato. Grida, urla, spintoni, tre creature impaurite e il loro pianto dirotto. Ripensavo al sepolcro vuoto, ma l’immagine che ora tornava alla mia mente era quella di Cristo nell’orto degli Ulivi, sentivo la sua angoscia, la sua paura, la stessa che ora provavano quei bambini, avvinghiati alle gambe del padre, ancora troppo piccoli per bere quel calice amaro.

    Quanto lontano mi sembrava Gerusalemme, quanta distanza aveva provocato quel pianto di bambini, che ora evocava in me il pianto di Maria ai piedi della croce. Quante madri ancora dovranno piangere i loro figli a Gerusalemme, quanti ancora nelle nostre strade, nei nostri vicoli, nelle metropoli del mondo mai sicure, sempre bisognose di pace. Quanto lontana mi sembrava, adesso, la Basilica della Resurrezione, eppure ero ancora a Gerusalemme.

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

     
  • Giochi all'aperto in una scuola di una volta
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    Quelle piccole cose che rendono bella la vita

    AVREMMO potuto parlare di Maradona “che è meglio ‘e Pelè” che per la cittadinanza, onore per lui e non per noi, “ci hanno fatto” un’altra volta “‘o mazz’ tanto pe ll’ave’”; avremmo potuto ragionare di classifiche, impietosa analisi di percorsi familistici, che consegnano le università campane agli ultimi posti; avremmo forse dovuto raccontare di quanto la politica assente causi quel degrado urbano fatto di sballo per alcuni e di notti insonni e traumi per troppi e non sarebbe stato sbagliato. Ma forse vale la pena raccontare anche di altro, di piccole cose che fanno grande una vita, di quello che non é facile offrire come cronaca, materia su cui ragionare o fare analisi e che tuttavia dicono qualità di vita, permettono alla parola felicità di non essere una parola ambigua anche perché, per quanto mi riguardi, non rinuncerò al desiderio di essere felice.

    Mi illudo? Può essere. Ricordo che tanto tempo fa partecipai a uno dei primi talk show televisivi della Rai, “Tenera è la notte”, condotto dall’indimenticabile Arnaldo Bagnasco e tra le serate di parole e scambi uno degli argomenti fu proprio sulla possibilità di essere o meno felici. Tra gli ospiti, come spesso avviene, si sosteneva che la felicità non esiste, basterebbe la serenità.

    Tutto sta ad intendersi e certo non è qui il luogo per trattati di filosofia, per lezioni di vita o per paradigmi ascetici, ma anche sotto l’ombrellone o al fresco della montagna, semmai nel silenzio della propria stanza è forse possibile chiedersi cosa voglia dire essere felici. Se non avessi nulla, e tutto mi potrebbe mancare da un momento all’altro, tutto potrebbe essermi tolto, cosa desidererei? Ci ho riflettuto tante volte e tante volte sono arrivato alla stessa conclusione: è l’essenziale il fondamento del tutto e dunque è l’essenziale il principio della felicità.

    Piccole cose che ti accorgi quanto siano indispensabili quando le perdi, quando ti mancano, quando vorresti recuperarle e non ti è dato. Il sorriso di tuo figlio, l’abbraccio innamorato, una stretta di mano riconoscente, lo sguardo complice di un amico, tutto quello che la vita ti offre quotidianamente ma, distratto da quello che il mercato ti offre, non hai occasione di apprezzare: la salute, l’aria che respiri, l’acqua che bevi, i sapori, gli odori che ti avvolgono, aprono ricordi e ti consegnano volti, amori, vita che torna vita ogni volta che apri lo scrigno della memoria. Mia Martini cantava in “Preghiera”: “Ma l’uomo non capisce cosa fa, ha il mare in tasca e l’acqua va a cercare”.

    Possibile che per sentirsi vivi bisogna sapere se qualcuno ha condiviso un nostro post su Facebook o se qualcuno voglia chattare con noi “in privato”? Sempre più persone pensano di esistere solo se qualcuno li abbia cercati o contattati sui social, dimenticando che si è uomini solo se ci si contamina con l’umano costringendo la vita a relazioni vere, autentiche. Piccole cose che fanno grandi le storie anche se non sfuggono alla necessità di avere un lavoro soddisfacente, un paese accogliente, un tempo interessante da vivere, ma le piccole cose sono l’essenziale che dà significato alle grandi e permettono alle grandi di crescere.

    L’anemia di gioia è dentro questa strategia malata del nostro tempo che non dà valore ai sentimenti, che baratta il piacere con la gioia, e induce a pensare che la rinuncia sia sempre una sconfitta e che sia sprecato donarsi senza pretendere niente in cambio. Non rinuncerei un solo istante alla consapevolezza di me stesso per quello che sono con le mie fragilità e le mie risorse, non rinuncerei per niente al mondo a gridare che so di essere ciò che sono perché altri mi hanno concesso il dono del loro affetto, perché a loro ho concesso il mio. So che non sarei al mondo se qualcuno non mi avesse desiderato, che la mia è vita se spesa insieme agli altri, perché stare bene da soli non è possibile e il pane mangiato e non condiviso è pane rubato. Dio o non Dio, l’uomo è uomo se si dà un cielo da raggiungere, a cui aspirare. La felicità non è una parola, non è una poesia né una preghiera, è un viso, è la dolcezza di uno sguardo che ti rimane nel cuore.

    È una promessa, un patto, una decisione, una lotta. È il giorno che si apre, la notte che ristora, un vecchio che racconta, un bimbo che corre. È il ricordo di ieri e il sognodel futuro, è la lotta per il traguardo, la fatica per raggiungerlo. È il gusto del bello, la sincerità dello scambio, il pianto di rabbia e di commozione. Avremmo potuto parlare di tante cose di sicuro più interessanti, di Napoli, della politica, di migranti, di Europa, di Trump e della libertà di stampa, di Papa Francesco e dei guai in Vaticano. Perdonatemi se oggi ho scritto solo di me, solo di voi, il resto, per quanto mi riguarda può aspettare.

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    Torniamo a contare le stelle, come i bambini

    Tempo d’estate, tempo di riposo. Molti sono già al mare o in montagna, molti partiranno ancora nelle prossime ore e, nonostante la crisi, c’è voglia d’estate. Io preferisco la montagna, non mi dispiace il mare, ma non sopporto il caldo e poi le nostre montagne, quelle a due passi da casa, sono bellissime. Le notti d’estate sui monti della Maiella sono uno spettacolo. Pescocostanzo, Rivisondoli, la mia Campo di Giove, il cielo sembra una grande coperta che avvolge le case debolmente illuminate. E quando ti allontani dai piccoli centri abitati, t’affascina scoprire quante sorprese nasconda la notte, quanto sia luminosa e come progressivamente si svelino le forme, si chiariscano, diventino familiari.

    E quanta pace se in quella notte, la tua notte, sai farti provocare dalle stelle che aprono pensieri utili a provocare risposte sorprendenti, inaspettate. Quante sono le stelle in cielo? Una domanda che affascina e che fa sorridere. Affascina perché ti pone di fronte all’universo a scrutare l’infinito, perché suscita la curiosità dello studioso, l’emozione dell’innamorato, risveglia il sogno e nutre di invenzioni il poeta. Ma fa anche sorridere, infantile, inutile, visto che non abbiamo risposte e probabilmente non le avremo mai. E poi a che servirebbe contare le stelle e quale utilità ne può mai derivare alla vita.

    Eppure se te lo chiede un bambino, e se le stelle le puoi contare nei suoi occhi mentre fissa la meraviglia di un cielo stellato, tutto cambia, tutto è diverso, tutto ha un senso. Non sei provocato solo da una domanda impossibile, sei chiamato a diventare interlocutore con un mondo mai completamente conosciuto, inesplorato, e anche se qualcuno lo riterrà assurdo, la domanda non si riferisce al numero delle stelle, ma alla capacità di saperle contare una a una a quel bambino che ti sta dinanzi. Farle diventare pretesto e motivo di un incontro tra i suoi sogni e i tuoi, e di più, alimentare i tuoi con i suoi, provando a far riemergere dalle ceneri del tuo passato quelle parole, immagini, domande che ti permisero di essere felice un giorno contando le stelle e che oggi, vuoi o non vuoi per il fatto che sei diventato adulto, non è che non ti senta felice, forse lo sei o forse no, ma non sei più bambino e ti dicono che non è da adulti restare a guardare le stelle e immaginarne il percorso.

    Ricordo di aver letto da qualche parte di una falena e di una stella. La falena, che dalle parti mie è chiamata palomba, famosa anche per aver dato il titolo ad una delle più belle canzoni napoletane, è una farfallina che visita le case le notti d’estate. Per molti è una presenza confortante, speranza di benessere. E una piccola falena, sensibile e curiosa, si invaghì di una stella che aveva visto brillare nel cielo. Confidò il suo innamoramento alla madre, che pratica rispose che era meglio invaghirsi di un abat-jour. Molto più comodo, facilmente raggiungibile e soprattutto le stelle non erano fatte per svolazzarci dentro, a differenza delle lampade che servivano perfettamente allo scopo.

    “Chi va dietro alle stelle”, gli diceva il padre, “non approda a niente”. Ma la piccola falena non ascoltò le raccomandazione dei genitori, aspettava il tramonto e quando la stella spuntava luminosa, volava, volava tentando di raggiungerla, e all’alba, ogni nuova mattina tornava a casa stremata senza aver agguantato la stella e con i suoi che ripetevano: “È tempo perso, non brucerai mai la tua ala, non potrai mai far brillare il tuo volo alla luce della stella. Se non porti addosso le bruciature di una lampada non sarai mai cresciuta. Lascia le stelle e cerca la lampadina!” Ma la falena aveva il suo grande obiettivo, raggiungere quella stella. E così, pur se addolorata, preferì lasciare la casa del padre e continuare il suo volo verso l’alto.

    Era convinta che la stella fosse impigliata lassù tra i rami di un grande albero. Non la raggiunse mai e tuttavia i suoi sforzi la rendevano straordinariamente felice. Gli trasmettevano un grandissimo benessere. Provava, riprovava, notte dopo notte: alla fine capì che poteva ritenersi contenta non tanto perché avesse raggiunto il cielo, ma perché ci aveva tentato. Visse davvero parecchianni, mentre i suoi genitori e suoi fratelli e sorelle morirono presto bruciati al calore di una lampadina. Anche la falena si confrontava con un sogno e guardava le stelle e nelle stelle trovava il pretesto di un volo capace di emozioni, di libertà, di poesia. E quando fissi gli occhi di un bambino che conta le stelle è un invito a non disperare, a riprendere quel volo, il tuo. Buona estate allora, amico mio, quella delle stelle da acchiappare, di domande e di sogni.

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