Articles by: Gennaro Matino

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    Quando si vede con occhi che non vedono

    Quattro passi di una domenica pomeriggio afosa e lo sguardo oltre i cancelli chiusi da tempo del " Domenico Martuscelli" a Napoli, memoria di solidarietà e cura.
    Nei miei primi anni di insegnamento mi è capitato tra quelle mura, in quel giardino di fare un’esperienza straordinaria. Mi fu affidata la cattedra di religione per i ragazzi non vedenti che frequentavano la scuola. Erano poche classi miste di media inferiore, frequentate ognuna da pochi ragazzi. Forse sono stati gli studenti più incredibili che abbia mai avuto.

    Uno può pensare che per il fatto che ti trovi dinanzi giovani con un handicap così significativo, marcato, tu abbia difficoltà nel parlare, nello spiegare, nel comunicare la vita che è fatta anche di immagini, di colori, di sfumature, di luce. È certamente impegnativo, faticoso trovare un punto di contatto con chi ha linguaggi che non sono immediatamente i tuoi, parole che non possono tutte essere comprese nello stesso modo come tu le pronunci, le conosci. E tuttavia quando superi la barriera linguistica che ti divide da loro, scopri che affascinante mondo si sveli dinanzi ai tuoi occhi. Quanto tu possa donare loro, ma quanto hai da imparare da loro! Si dice che abbiano sviluppati altri sensi, ed è indubbiamente vero che il tatto, l’udito, l’olfatto tentano di compensare la mancanza di luce. Ma la verità è che essi vedevano con il cuore e attraverso il cuore.

    Quando capivano che erano amati, vedevano oltre. Erano ragazzi che per lo più vivevano lontani dalle loro famiglie, e non sempre circondati da affetto. Certo non mancavano di nulla: erano perfettamente accuditi e ognuno di loro aveva abbastanza capacità di autogestirsi. Qualcuno aveva perfino calcolato, passo dopo passo, l’area del grande parco dell’istituto e ogni tanto ne approfittava per fare quattro passi da solo. Qualcuno si avventurava anche all’esterno, nelle vie del Vomero. Ma in tanti era evidente che non solo la luce del sole era assente. E se venivano a mancare risultati scolastici, molto spesso non era per negligenza. Era per solitudine. Per la nostalgia d’affetto. Un giorno ero disperato. Non riuscivo assolutamente a spiegare un concetto che avevo nella mente, che credevo fosse necessario per loro per aprirsi alla meraviglia del creato. Non solo erano non vendenti, ma molti di loro non erano mai usciti dall’istituto. Provate a immaginare che idea di Dio possa avere un ragazzo in tale situazione. Quale idea del mondo, degli altri, della natura che lo circonda. Come possa immediatamente avvertire che Dio è Padre e Madre, quando la gran parte di loro, senza colpa di nessuno, era difficile che incontrasse i genitori se non per le grandi feste. E tuttavia avevo una responsabi-lità, dire che la vita era bella.

    Non sapevo proprio da che parte iniziare. Come fare per farmi accettare con il cuore da quei ragazzi? Certamente di caramelle e cioccolatini avevano fatto a più riprese l’esperienza: ma non bastava. Decisi che avrei rischiato. Era difficile ottenere un permesso, ed era comprensibile, di portare fuori istituto i ragazzi, se prima non fossero arrivate tutte le autorizzazioni. Era complicato muovere l’iter burocratico per fare cose al di fuori dell’organizzazione scolastica. Ma come professore di religione, e vicario nella parrocchia accanto all’istituto, mi era concessa la possibilità, di volta in volta, di portare una classe, che non era composta più che di cinque, sei studenti, in chiesa per partecipare alla messa. Approfittai di questa concessione e con una deviazione di itinerario, complici i ragazzi che sarebbero venuti in chiesa solo per uscire dall’istituto, sicuro che avrebbero mantenuto il segreto, a turno con un pulmino 850 Fiat li portavo sugli scogli di Posillipo a sentire il mare. Li facevo sedere ordinati e loro ascoltavano commossi il frangersi delle onde sugli scogli. Aspiravano forte. Poi ridevano fragorosamente. Ti commuoveva vederli carichi di novità. E quante domande a cui dovevi rispondere! Spiegare e finalmente fare quello che ti era impossibile in classe: descrivere, dipingere la loro immaginazione dei loro colori, quelli conosciuti solo da loro, nel silenzio della loro mente. E sembrava che il mare passasse nei loro cuori attraverso il loro naso, le loro orecchie, e la mia voce.

    Un giorno ritornando da una di queste improvvisate gite rubate, uno di loro, Pietro, che spero oggi sia felicemente sposato come lui desiderava, per avere finalmente una famiglia che non aveva mai avuto, mi disse: « Grazie, Prof. Grazie a nome di tutti. Oggi sei stato i nostri occhi»! Da allora altro desiderio non mi è dato da "maestro" e da "discepolo" di aprire gli occhi, i miei e di chi mi è stato affidato. Altra lotta non credo esista in tempo di tenebra.

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

     
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    Quando la vita e la morte galleggiano sullo stesso scafo...

    Ricordate la rivolta del pane? Era il 2008, solo dieci anni fa.  Ne avevo parlato e avevamo previsto allora quello che sarebbe successo. “Quando l’economia apre i mercati per l’interesse di pochi, facendo credere a tutti l’esatto contrario, torna lo spettro delle grandi rivoluzioni che hanno cambiato la storia; quando si muovono eserciti e si giustificano guerre con motivazioni che poi si rivelano false, torna alla mente il Grande Fratello di George Orwell che denunciava il pericolo della manipolazione delle informazioni e della concentrazione del potere nelle mani di pochi.

    E mentre l’Occidente e il Nord del mondo cercano nei biocarburanti nuove soluzioni al rincaro del petrolio, la povertà si allarga a macchia d’olio. Il potere economico nelle mani di una nuova oligarchia sta privando dei beni di prima necessità aree sempre più vaste del pianeta. Che l’economia dei Paesi poveri, legata alla vendita di pochi prodotti su mercati globalizzati, finisca con l’essere ancora più vulnerabile alle variazioni dei prezzi e all’incalzare delle nuove tecnologie, è risaputo. Ma quando a reclamare grano e riso sono le città, e non solo i villaggi dell’Africa nera o delle zone del mondo più arretrate, allora vuol dire che la globalizzazione più che dare vita a un villaggio globale, in cui dovrebbero convivere sistemi culturali diversi, ha globalizzato la menzogna a vantaggio di pochi e a danno di molti. Se ai poveri dell’Africa viene tolto anche il pane, verranno a prenderselo sulle nostre sponde”.
     

    Partiamo dal nome, extracomunitari. Una parola nuova, di quelle che diventano importanti nei vocabolari, strutturate per raccontare limiti; gente di paesi lontani che non appartengono allo statuto comunitario, quella comunità dei popoli d’Europa che è nata per difendere il diritto dei cittadini aggregati, per rilanciare un’economia difendendola dal mercato onnivoro degli stati forti economicamente, dei blocchi dell’ovest e dell’est.

    Il sogno europeista era nato per conservare un grande spirito di accoglienza e i padri fondatori immaginavano, insieme all’economia dei popoli, i popoli nella loro stessa dignità, uniti in un bisogno estremo di giustizia e di pace a superare quella logica dei conflitti che veniva fuori dalle due grandi guerre mondiali, e che avrebbe dovuto immaginare scenari di dialogo dopo i grandi lutti provocati dai totalitarismi del Secolo breve. Comunitario significa il mondo di coloro che in ragione di un patto si sono aggregati, e nella specificità della loro condizione, benché rispettosi della propria nazionalità la mettono al servizio, come esperienza, come cultura, come ricchezza da condividere. Extracomunitario, in questa ottica è allora quella nazione o persona, che non rientra nel patto economico ma con il quale si dialoga, con il quale è necessaria un’intesa, perché comunque la comunità deve entrare per motivi politici ed economici, in dialogo ad extra: extracomunitaria, appunto. Ma nella corsa delle parole, nel rovesciamento dei significati il termine da descrittivo è finito per degenerare in una perversa restrizione. Extracomunitario ora significa fuori, posto fuori, fuori posto.

    La parola amplifica il fatto che tu non appartieni a noi, non sei dei nostri. Sei fuori perché sei diverso da noi, e se devi ancora cercare aria per vivere, se umanamente ti serve, non chiederlo a noi, semmai lo devi fare sotto il nostro controllo. E così gli accordi “comunitari” rispondono a delle parole, le parole a delle restrizioni, le restrizioni a degli egoismi, degli egoismi ad un modo di intendere la politica e relazionarsi tra uomini con gradi diversi di umanità. E quando si arriva a concepire che i bambini, i nostri, siano “diversi” dai loro, allora le parole iniziano a devastare l’umano come al tempo del Terzo Reich. La giustizia più che essere dovuta per diritto di umanità è sottomessa alla sola regola economica. Il problema delle sponde, dei grandi movimenti migratori che interessano il mondo ad ogni latitudine, non si risolverà chiudendo i porti o minacciando di chiuderli. Masse di popoli, spinte dalla fame, dalla disperazione, dalle guerre, tutte frutto di un colonialismo del passato e di una corruzione del presente non sono governabili, non per sempre. Paesi poveri, gente del Sud del mondo, che si muove in cerca di aria irresistibilmente, come prigionieri di cave inospitali, che per respirare allungano la testa fuori, verso l’alto, in attesa di futuro, non si possono respingere per sempre. La propaganda non è fatta per dire la verità. Per chi cerca ancora di respirare, la vita e la morte galleggiano sullo stesso scafo. Per questo come tutti i disperati, sono più forti di noi. Se non ci attrezziamo a riceverli nella giustizia, l’aria verranno a prendersela da soli. E questa volta, come la storia insegna, per sempre.

     

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

     
  • Duomo di Orvieto (1499-1502) L'Antinferno
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    Per questo non resterò neutrale

    "Padre perché complicarti la vita. Restare neutrali è prudenza". Caro amico che scrivi a me, ma pensi a te, e ritieni che ci sia un tempo in cui è meglio non dire cosa si pensi per paura della reazione volgare della piazza, perché si possono perdere posizioni, perché intanto il vento è cambiato ed è preferibile seguirne il soffio. Ricordo a te quello che qualcun altro scriveva tanto tempo fa, perché la verità non fosse offuscata dalla regola comune della menzogna: "I luoghi più caldi dell'inferno sono riservati a coloro che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali".

    Ignavi li chiamava Dante che li colloca in un posto incolore dell'oltretomba, specchio perfetto della loro vita, schifati addirittura dai diavoli che non li vogliono all'inferno, costretti a inseguire nudi una bandiera bianca che corre veloce e gira su se stessa, veloce e girevole come il vento mutevole dei voltagabbana, dei senza opinione, dei "non me importa, non me passa manco pa' capa".

    Per tutti loro il Sommo poeta declina: "Non ragionar di lor ma guarda e passa". Democrazia è ben altra cosa, è sentire forte il desiderio di essere parte attiva nella costruzione del bene comune ma senza ipocrisia, perché proprio una falsa accezione del bene comune, degenerato in altro affare, è il motivo di una politica egoistica, rissosa e di una crisi di verità che porta il presente di una nazione a rischio di libertà.

    Ispirati al bene comune, gli ideali del passato, considerati ormai carta straccia, sono stati alla base della Carta costituzionale che dovrebbe restare la pietra d'inciampo di qualsiasi riduzione della regola a egoistico vantaggio. Purtroppo oggi, incancrenita l'esasperazione individuale, il bene comune, scarsamente professato dal cittadino, è degenerato nel proprio personale bisogno, semmai da condividere, allargare, diffondere. Il bene collettivo per la politica del paese è diventato un concetto ambiguo, inteso non come oggettiva necessità di bene pubblico da garantire a tutti indistintamente, ma come somma di privati bisogni da soddisfare in ragione del numero dei "clienti" che saranno i propri futuri elettori.

    Atteggiamento presente e diffuso in tempo scialbo di pensiero dove l'opinione pubblica scavalca il faticoso ed esaltante percorso del giudizio e scegliendo senza scegliere, adeguandosi al così fan tutti, detta regole alla politica che, piuttosto che darsi visioni, prova a manipolare quella stessa opinione di massa condizionandola a suo vantaggio con ogni mezzo di propaganda ingannevole e promesse illusorie.

    No, la democrazia in cui credo, la libertà che professo, la fede evangelica a cui provo a riferire il mio presente, mi impongono altro pensare, altro decidere nel rispetto dell'altrui pensiero, in ascolto delle diverse opinioni, ma con la tenacia irresistibile del rispetto di me stesso che non potrebbe sussistere senza la forza e la difesa dei miei convincimenti. Anche la Chiesa, per quanto mi riguarda, per amore della verità, nel rispetto delle parti, in un momento così difficile della storia, per il rispetto che si deve alla libertà della parola, diversa e contraria, non può più chiamarsi fuori dalla politica per gestire nel segreto convenienti percorsi di parte, non può se la politica è la più alta forma di carità.

    Provocare spazi di riflessione e di approfondimento tra la sua gente, sulla nazione, sul futuro del bene comune è ormai ineludibile, perché tra i credenti rinasca di nuovo la gioia, l'entusiasmo, la responsabilità di interessarsi alla politica come compassione, come visione collettiva, come spazio per tutti, come agorà di interessi generali oltre l'egoismo di parte. Il vangelo non si coniuga nelle chiuse mura di un tempio, ma nelle strade percorse dell'umana quotidianità e se domani ci sarà addebitato un peccato è quello di non aver alzato la voce contro chi vendeva fumo e drogava i semplici, chi alimentava odio e offendeva il diverso, chi prometteva paradiso agitando inferni. Il quotidiano è vangelo da annunciare e la politica è somma di situazioni quotidiane e particolari che prendono forma sociale.

    Non resterò a guardare se viene schiacciato chi per il colore della pelle è considerato straniero, chi per sesso è ritenuto nemico, chi per diversità di opinione è visto come un appestato. Credo nel paradiso domani e spero che un giorno ci possa essere un posto anche per me, indegno, lo spero fortemente. Semmai preferisco l'inferno per amore della libertà e dei fratelli, piuttosto che la devastante sterilità di un mondo fatto di ignavia, preferisco farmi trovare alla porta della verità con i coraggiosi superstiti di ideali per raccontare un mondo diverso: "Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio si alzò e andò ad aprire e vide che non c'era nessuno" (Martin Luther King). Io ci sarò, caro amico, e per questo non resterò neutrale.

     

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

  • La Resurrezione. Raffaello Sanzio
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    Pasqua, festa complicata da raccontare

    Pasqua è festa complicata da raccontare. Tutto inizia all’alba di quel terzo giorno: “Vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro” (Gv 20,1). Questo l’annuncio difficile da passare, come difficile resta raccontare il colore radioso di una vittoria impensabile che riconsegni ai perduti della storia la speranza di potercela fare. Rischioso parlare oggi di resurrezione dei morti, perfino la Chiesa ne parla poco. Che ci sia un futuro dopo, un qualcosa a cui appigliarsi, pochi lo negano. Saremo spirito? Anime vaganti o reincarnate? Qualcosa ci sarà. Ma la resurrezione della carne è altra questione, ragionarne è complicato, provoca l’intelligenza, la fa soffrire.

    Eppure qui sta la sfida credente, qui il Vangelo di Gesù di Nazareth si esalta, credere nella resurrezione di un corpo, il suo, e per il suo il nostro, che per la sua vittoria ha finalmente un futuro. Un corpo vero, non solo l’anima, non una fumosa sostanza che perduri dopo la morte, ma il rinascere del corpo, impensabile speranza che rimanda a memoria di contatti, alla continuità con il tempo, a una eternità che non cancella l’amore passato, non annulla la nostra storia personale né la tenerezza degli affetti condivisi nel tempo con i nostri cari. Più facile di sicuro piangere un morto che parlare di resurrezione, il dolore è sotto i nostri occhi, è pane quotidiano. Più facile raccontarci la sofferenza e per condividerla trovare una religiosità rassicurante, senza domande, senza ricerca, soprattutto senza risposte impegnative, una fuga oppiante dal dolore, che ci liberi dal dovere di organizzare il futuro, di dare ragione al senso stesso della nostra vita.

    Meglio parlare d’altro nelle nostre assemblee, forse di pace, di giustizia, di solidarietà. Meglio adeguarsi a linguaggi normali, più adatti a provocare consensi se il rischio è quello di perdere clienti. Eppure, per chi crede, la sfida è questa, raccontare la Pasqua, raccontare che qualcuno ha sgridato la morte e l’ha ingoiata per la vittoria: “Vieni fuori!”(Gv 11,43). Certo il cristianesimo è anche impegno nel sociale, trasformazione della terra, ma è innanzitutto quel grido che va raccolto nella sua originaria verità, senza fughe, senza silenzi, senza paura di doverlo gridare: “Cristo è veramente risorto”. Veramente, non apparentemente, non una favola da raccontare a poveri disgraziati.

    È un grido che riguarda i credenti, perché vana sarebbe la loro fede se Cristo non fosse veramente risorto (Cf 1 Cor 15,17), ma è fatto che riguarda anche coloro che guardano ai credenti e che davvero vogliono capire chi davvero essi siano o meglio chi davvero dovrebbero essere. Se in tanti, in cammino sulle nostre stesse strade, avanza il convincimento che Dio è morto, soprattutto quando restano muti e sconfitti di fronte alla morte, se tanti non sanno che farsene dell’idea di un Dio provocata dai sottili e discussi ragionamenti della sapienza dei dotti, avere il coraggio di proclamare la propria fede nello scandalo di una croce che diventa vittoria sulla morte, è davvero una straordinaria provocazione in tempo di anemia di visionari. Quante volte mi è stato vomitato in faccia il dolore per una morte ingiusta, quante volte la religiosissima gente, che pure sa fare i conti con la morte, non riesce a comprendere la relazione che esiste tra fede in un Dio buono e la loro sofferenza. “Dove era il tuo Dio quando l’ho pregato? Quando giorno e notte l’ho supplicato di lasciare in vita la carne che ho partorito e ho allattato, quando l’ho scongiurato di prendere la mia in cambio?. Dov’era il tuo Dio quando noi povera gente abbiamo cercato il suo volto, abbiamo bussato alla sua porta che ci è stata sbattuta in faccia irrimediabilmente?”.

    Quanto si paga ad essere uomini, ma come è difficile la fede! Cosa rispondere al dolore che affoga per colpa di un vento che si avverte contrario. Affidati a Dio? E quale Dio abbiamo annunciato, quale esperienza dell’Alto è passata in chi nel dolore avverte Dio come nemico o inutile? Dov’è il Padre del cielo che ha tanto amato il mondo, che non vuole la morte ma la vita? Se nel giorno del lutto è gioco forza per tutti chiedere a Dio dove era, la fede dovrebbe dare la risposta: se Cristo è veramente risorto, risorgerai! Questa è la Pasqua e senza Pasqua non c’è Chiesa, non c’è fede, non ci sono Papi, Cardinali, Vescovi e preti, non ci sono liturgie e preghiere. C’è la finzione di un’istituzione che vive per il solo suo potere e per la sua malata soddisfazione. Augurare buona Pasqua non è fatto di circostanza, è gioia di futuro da passare, speranza da raccontare, coraggio da organizzare, stile di vita da proporre, è gridare che la terra del cielo è in nostro possesso, eredità d’amore concessa all’umano.

  • Uccisione di una guardia giurata alla stazione di Piscinola. La telecamera individua 3 minorenni. Un frame del video diffuso
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    Buonismo, vera malattia morale di questo secolo

    I criminali non hanno età, sono solo criminali. Basta con questa declinazione buonista del bandito, dell’omicida qualsiasi età abbia. Resta cattivo, crudele, malvagio, solo uno spietato assassino quando senza pietà, senza ragione, con lucidità inquietante e disumana, calpesta ogni valore, quando uccide con la consapevolezza di uccidere e lasciando intere famiglie nello sconforto, nella solitudine abissale, si fa assassino non per caso ma per vocazione. Fa il male perché vuole fare male, sceglie, si diverte a farlo, deliberatamente pianifica il crimine e affronta con spavalda sostanza il ruolo che ha deciso di interpretare, non di “ pecora”, perché tali sarebbero i bravi ragazzi, ma di “ lupo”, di “ leone” che come animali “ seri” si sentirebbero offesi ad essere paragonati a questa feccia.

    Vomitevole perfino il linguaggio usato per descrivere un mondo che nulla ha a che fare con la normalità dei significati e che non può essere paragrafato con le solite liturgie che si ripetono ogni qualvolta un nuovo crimine efferato per le mani di un minore trova spazio di cronaca e di letteratura mediatica: non si tratta di fidanzatine, ragazzini, poco più che adolescenti. Sono belve sanguinarie che certo non sono i soli responsabili, ma questa storia che stiamo vivendo, impotenti di fronte a tanta libertà di offendere, rischia di essere oltraggiosa per chi ha ancora capacità di soffrire il lutto per l’ingiustizia, per chi non sopporta più che a tutto vada data una giustificazione, che c’è sempre qualcuno che per sociologia, psicologia, politica, religione sia pronto a spostare la responsabilità dalla mano omicida al contesto, all’ambiente, alla storia sfortunata.

    E se questo può essere vero in parte, può diventare un alibi se non dicesse che le analisi servono per descrivere i fenomeni ma non per risolverli nell’immediato, servono per raccontare le disfunzioni della società ma non per superarle adesso, quando meritano di essere affrontate, mentre la mano omicida continua a perpetrare il suo disegno di potere, mentre ancora dichiara la volontà di divertirsi facendo del male attrezzando il suo circo quotidiano del tutto impunito. Cosa dobbiamo aspettarci ancora? Ancora dobbiamo accontentarci delle analisi in vista del prossimo delitto? E le analisi riporteranno in vita il povero Franco Della Corte così barbaramente trucidato?

    Quando senti i commenti di chi avrebbe dovuto prevenire, di chi avrebbe dovuto punire, di chi avrebbe dovuto fare giustizia, di chi avrebbe dovuto sorvegliare, educare, hai la sensazione che restino sorpresi, che proprio loro non se lo aspettavano. Basta con questa commedia che, se non fosse tragedia per chi la vive sulla propria pelle, sarebbe una farsa. Il buonismo è il peccato originale, è il criterio di frantumazione di quel tempo valoriale dove sbagliare, eri ricco o povero, eri colto o ignorante, eri di città o di periferia, restava un errore.

    E non c’erano attenuanti. Una voce, quella della coscienza, restava ancora percepibile, e se non per tutti, diffusamente passava come valore che il male è male e non va fatto. Perfino il delinquente quando sbagliava lo faceva con la consapevolezza del proprio errore a differenza dell’oggi dove la coscienza è muta quasi per tutti e prova a non vergognarsi della propria inettitudine, della squallida miseria in cui è degenerata. Fidanzatine, ragazzine, parole da far schifo in tempo di guerra e chi più ne ha più ne inventa. Criminali che se meritano un perdono, e questo va ricordato anche alla Chiesa, necessitano di una correzione seria, adeguata, che sia anche di impatto e di avvertimento per chi ancora vorrebbe delinquere. Una punizione adesso per un ravvedimento domani, certa la pena, subito senza aspettare che il buonismo metta sotto tappeto le lacrime dei sopravvissuti, il tempo rubato alle vittime, la serenità offesa di intere famiglie e soprattutto che apra nuove vie alla libertà di delinquere perché tanto “non ci fanno niente”.

    Il buonismo è la vera malattia morale di questo secolo perché si ricollega alla decadenza dei tempi attuali, a quella paralisi della volontà, quell’inettitudine borghese che è la declinazione nazional- popolare del “pensiero debole”, del relativismo teoretico e morale. E sul piano sociale questa attitudine ha portato danni irreparabili in ambito pedagogico dove è più pertinente parlare oggi di “
    lassismo” o “ permissivismo” che hanno sottratto bambini e giovani al senso del sacrificio e della disciplina. Senza generalizzare, le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: droga, comportamenti devianti, imbarbarimento dei costumi, mancanza di rispetto per gli educatori, siano essi della famiglia o della scuola, fino alla perdita totale di qualsiasi freno inibitorio. Uccidere è solo uno stadio di tale decadenza. E purtroppo, non ultimo.

     

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

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    La Chiesa che non fa più scandalo ...

    Papa Francesco, i suoi cinque anni. Se ne parla. Ne parla anche Benedetto che dice stolto chi pensa al suo come a un pontificato “opposto” a quello del successore venuto dai confini del mondo. Insolita “excusatio” da parte di chi aveva promesso silenzio e che invece, contravvenendo al suo stile riservato, prova a stroncare, forse, chi lo chiama, senza averne colpa, capo dei tradizionalisti, di quelli a cui proprio non va a genio la “modernità” di Francesco. Per quanto mi riguarda, continuità o meno dei due pontificati, il giudizio lo darà la storia. Nel frattempo nell’uno e nell’altro tempo ancora lontana sembra esserci una proposta di Chiesa che sappia davvero rendere visibile nell’oggi lo scandalo del Vangelo, lo scandalo della croce, che solo se resta tale, oltre ogni semplificazione, oltre i dotti ragionamenti dei finissimi teologi come Ratzinger, oltre i “prodigi” di umana solidarietà di Bergoglio, potrà servire a qualcuno.

    Se Cristo non fosse più scandalo o follia, se venisse ridotto a un simulacro per il potere terreno di Ratzinger o di Bergoglio, per sostenere l’uno tradizionalista, l’altro liberale, sarebbe per quell’annuncio, che ha sconvolto il mondo, una bestemmia. Capisco che possa interessare a pochi l’argomento, ma se davvero si volesse ragionare della Chiesa e della sua crisi, capire dov’è sta andando, mentre naviga a vista nella trasformazione veloce del mondo, confusa e stordita, forse varrebbe la pena fermarsi a riflettere oltre il populismo di facili impressioni. Si parla di Bergoglio, si parla di Ratzinger, ma il maestro di Galilea è il grande assente e lo è perché ancora la sua proposta resta scandalosa. Scandalo sta per trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche ostacolo che può fare inciampare e cadere.

    Ci sono due tipi di scandalo, il primo è quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. Il secondo è quello del Cristo crocifisso, che la ragione umana non può accettare, è una follia credere in una salvezza possibile arrivare da un condannato a morte, che grida contro l’ingiustizia di tutte le croci e rimanda al loro abbattimento. Oggi più che mai la Chiesa ha cancellato dal suo vocabolario quello scandalo e mentre prova a non scomparire dalle parole degli uomini, a resistere all’insignificanza alla quale è costretta dalla sua arretratezza, cancella le parole dell’Eterno, dividendosi in una stucchevole contrapposizione tra modernità e tradizione.

    Non si tratta semplicemente di due diverse interpretazioni dell’essere cristiano che comunque vale la pena esplorare, ma bisogno di costringere la verità della fede nell’interpretazione che se ne vuole dare, nella necessità di ridurre la parola del Vangelo alle parole degli uomini: alla fine Cristo scompare e resta l’ideologia, la filosofia, la morale, la politica, per sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro.

    Il “progressismo” è un aperto rifiuto dello scandalo, Cristo diventa un profeta, un uomo eccezionale. La sua croce e resurrezione un mito. E se è uno dei tanti, uno dei tanti resta: una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Il tradizionalismo invece ha il centro del suo interesse nel passato, il suo valore, il museo da custodire come se il Vangelo fosse solo un pretesto per “sapienti” di sopravvivere al presente. È una forma perniciosa di razionalismo che riduce tutto a una gabbia intellettuale e riemerge tutte le volte che i “fascismi” rinascono. Lo scandalo della croce non è uno slogan in uso alla Chiesa, è il suo fondamento, senza la sua luce è inutile tutto il resto. Bergoglio, Ratzinger restano solo un pretesto, forse incolpevoli bersagli o inconsapevoli alleati di mondi che da sempre si strattonano, mentre la follia della resurrezione resta solo una storiella per parlare di altro più interessante, più popolare, per provocare l’ultimo applauso ancora possibile da mendicare e fare scena sul paragrafo della comunicazione mondiale.

    Non è colpa di Bergoglio, non è di Ratzinger, ma forse è anche loro, se di resurrezione il mondo fa fatica a parlare, se su questo argomento “ti sentiremo un’altra volta”, e tuttavia questa è la sfida, l’unico scopo per la quale la Chiesa è stata fondata, l’ultimo appello dal quale resta convocata. Capisco i media che hanno bisogno di “altre” notizie, di quelle “facili” sulla Chiesa, ma ragionare su questo varrebbe la pena: il pontificato di Bergoglio al di là del suo fascino, della potenza dei gesti compassionevoli, ha raccontato al mondo la verità scandalosa della croce? Quello di Ratzinger è riuscito ad annunciarla? Non c’è vincitore né vinto, liberale o conservatore, c’è un Vangelo che o passa o resta imbrigliato nelle parole degli uomini.

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

  • Santuario di Casapesenna
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    Quando si preferisce l’ignoranza alla verità

    Casapesenna ome altrove, tutto da copione, e la chiesa, se non del “ delitto”, non può non sapere: diavoli, esorcismi, messe di liberazione, un circo, uno squallido e disumano circo sotto gli occhi di tutti. “La credevate cessata la superstizione? Come potevate crederlo? Tutte le superstizioni sparse pel mondo, sono raccolte in Napoli e ingrandite, moltiplicate”.

    Così scriveva Matilde Serao. Poco è cambiato. I fatti abominevoli di Casapesenna non sono che una tragica forma di quella abissale distanza che esiste tra vangelo e religione, tra verità di Cristo e uso e consumo di diavoli inventati ad arte per costruire potere, ricchezza, depravazione a danno di ignoranti sedotti dal fascino del “ miracolo”, e certe volte, malvagia sevizia di innocenti malcapitati sotto il dominio di squallidi interpreti di fantomatiche visioni. Solo la punta di un iceberg, pratiche molto più diffuse di quanto si possa pensare: più facile riempire chiese con la paura del diavolo che con la gioia del Vangelo.

    È triste costatare quanto si sia allontanata la nostra predicazione da questo punto cardine insostituibile: Cristo! Solo Cristo, crocifisso e risorto! Già da tempo la Chiesa conciliare aveva preso coscienza che per secoli, salvo le dovute eccezioni, si sono riempite le chiese di persone vuote. Paura del fuoco eterno, più che adesione sentita e convinta; fuga dal mondo, più che impegno alla sequela di Cristo; abitudine ai sacramenti, tradizione, più che ascolto e conoscenza della Parola di Dio hanno caratterizzato per troppo tempo la cristianità della nostra gente.

    Sta di fatto che se nel corso del tempo il mondo ha seguito vie diverse da quella indicata da Cristo, se Casapesenna o altrove restano luoghi di pellegrinaggio di una fede facile, vuol dire che è in crisi un’autentica evangelizzazione. Noi dovremmo essere esperti della gioia del vangelo, della speranza cristiana. Cristo, solo Cristo è il nostro verbo!

    Per anni invece è stato più importante costruire le nostre comunità credenti sul sensazionalismo di un avvenimento prodigioso, abbiamo preferito riempire le chiese e i santuari di paure, solo per contare il numero dei convenuti, non abbiamo saputo rispondere al bisogno estremo dell’uomo di comprendere la propria vita. E la conseguenza non poteva che essere l’allontanamento progressivo di tanti che pensano di proprio, di tanti che ridono di uno pseudo-cristianesimo che mentre propone giochi di prestigio soprannaturali, nasconde la verità unica e straordinaria: la compagnia di Dio nella nostra sofferenza. Restano gli ignoranti, i fanatici, i famelici ingordi dei prodigi a tutti i costi, dei pellegrinaggi forzati alla ricerca dei segni, degli effetti allucinogeni celesti che consolano di effimero e svuotano l’intelligenza.

    L’uomo evoluto, e ormai libero dai condizionamenti di una religione vissuta come fatto folcloristico, ridicolizza come superstizione tutto ciò che sorprende i creduloni di ogni tempo. “Com’è difficile Dio!”, scriverebbe certa letteratura contemporanea, e tuttavia la croce, la resurrezione è l’unica strada per quanto stretta, che possa ancora annunciare un modo diverso di credere. L’aver voluto a tutti costi predicare e annunciare un Dio facile ha finito per provocare un blackout tra l’uomo pensante e il Dio di nostro Signore Gesù Cristo. Eppure, Egli ci aveva messo in guardia.

    Il coraggio dell’annuncio di una fede aperta al dialogo filiale con il Dio degli eserciti e il superamento di tutte le possibili superstizioni, contro la riduzione di Dio ai nostri bisogni, il voler trovare un riscatto magico ai nostri fallimenti nella pratica religiosa, è ciò che, prima di tutti i contestatori e gli oppositori della religione dei fanatici, ha gridato Gesù Cristo, con la sua vita e la sua Parola.

    Avallare la ricerca ossessiva del prodigio, offrire fatti “ eclatanti”, cercare il diavolo a tutti i costi come responsabile delle mille frustrazioni umane, dare adito al sensazionalismo, resta lo sport di tanta chiesa “ atea” per accontentare chi cerca “prove su Dio” e ha bisogno estremo di toccare con mano per poter credere.

    Con tutto il rispetto che si deve a certe forme di pietà popolare, una proposta credente che faccia leva sulla curiosità morbosa del vedere e toccare a tutti i costi, trasforma inevitabilmente il fatto religioso in uno spettacolo e colui che lo rappresenta in un buffone, e in certicasi, in un criminale.

    A volte si fanno chilometri per raggiungere un santuario, si attendono ore per essere ricevuti da un santone o un veggente. E tuttavia non si riesce a incontrare Gesù nella persona sofferente e bisognosa. Senza far torto a chi nella chiesa quotidianamente lotta per la bellezza della parola, i fatti di Casapesenna non sono un caso, sono il frutto di una chiesa decadente che pur di continuare ad esistere, preferisce l’ignoranza alla verità.

     

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

  • Opinioni

    Per chi davvero ama e sa cos’è l’amore

    Fedeltà, che bella parola. San Valentino, nei prossimi giorni, riproporrà agli innamorati i suoi versi. Una ricorrenza stanca, buona per i baci Perugina, canterà l’amore eterno che eterno non è più e neppure stabile, neppure sincero, neppure offerta sicura di sé, che nei numeri dice “emozioniamoci per ora, domani è un altro giorno si vedrà”.

    Forse a giusta ragione, “bisogna divertirsi” dirà qualcuno, il mondo è cambiato, potrebbe perfino assurgere a criterio di modernità l’amore provvisorio, conquista dell’uomo evoluto, libero di fare molteplici esperienze capaci di calzare ogni avventura come rischio di passione, come necessario al crescere, ad essere vivi ad ogni costo.

    Sperimentare fa parte del “perfezionarsi”, piantare seme in diversa terra è sperare frutto di significato, di senso alla vita riconsegnato in abbondanza, ma poi viene il tempo del raccolto, il sudore della mietitura, quando l’amore si coniugherà con il sacrificio di se stessi e i suoi significati più profondi, più veri, più luminosi.
    Solo allora si comprenderà il valore dell’amore come dono totale di sé, nulla di più grande al mondo di poter essere felice di far felice chi si ama, frontiera che vince il male assoluto, la solitudine mortale, figlia di egoismo, giusto l’opposto dell’amore.

    Non c’è amore senza fedeltà, è un banale intercalare dire “ti amo” senza sforzarsi di esserlo, senza portare in dono all’altro l’esclusività di se stesso, l’unica cosa oltre le cose materiali che racconta la verità dell’amore professato. In tempi dove la filosofia pornografica delle relazioni ha seviziato la trasparenza dei sentimenti, solo l’amore fedele può essere la risposta alla deriva nevrotica dell’amore non amore, dell’amato/amata solo amante e non compagno, del tempo del divertimento da consumare senza la gioia della vita spartita.

    Il tradimento è una bestemmia e per quanto mi riguarda, quello che offende la verità, quello più grave e il più diffuso non è solo cedere all’inganno di un altro corpo, ma farsi rubare l’anima. Il tradimento fisico è sicuramente da biasimare, tuttavia questo genere di infedeltà è molto più recuperabile di un tradimento che rompe la consistenza di una relazione.

    È nella verità che bisogna dirsi, nella complicità delle scelte, negli sguardi d’intesa che una coppia costruisce e mantiene salda la sua unione. È certamente grave che un uomo, o una donna, abbia un momento di cedimento di fronte a una tentazione fisica, ma è molto più grave che ci sia una consuetudine al tradimento, come quando un uomo antepone il proprio lavoro alla famiglia, come quando il denaro e il successo si amano più dei propri cari. Questi sono errori cocenti che poi nel tempo si pagano, perché il tradimento, più che distruggere l’altro, provoca una frantumazione all’interno di se stessi. È la tua insoddisfazione che ti fa cercare altrove quello che invece hai già vicino a te.

    Chi non è capace di costruire in casa propria, quasi mai riesce a costruire fuori dalle mura amiche. Il frutto di un amore condiviso al contrario è vissuto fatto di carne, passioni e speranze date alla luce. È trasparenza che dice, questo sono, così come mi vedi, verità che cerca vero, significato che pretende senso.

    Trasparenza del cuore che trapassa i confini dell’altro, passa lo sguardo leale di chi dona se stesso e offre di sé la promessa di essere parte per l’altra parte.
    Dono preziosissimo è un cuore leale, parola sincera, frontiera di speranza. Dolce carezza è sentirsi ripetere ti amo che è uguale a “fidati di me” per chi perso senza futuro trova conforto, trova compagno in chi ha promesso se stesso in dono.

    Non c’è prezzo, non tesoro più ricco, più potente della lealtà, della fedeltà, balsamo sincero è spartire la vita, fare della verità il proprio baluardo. Tempo malato è quello dato da chi vende se stesso, squallido mercato per vano arrivismo di chi sa quale conquista, tempo bugiardo di false promesse quello di chi promette certo e di sicuro viene meno. Fedeltà è verità del dire, passione cocente per la parola data, lotta inaudita per restare fedele in ogni caso, per sempre. Basta davvero poco per vivere da ricchi, basta mantenere la parola data.

    L’amore può anche finire, un uomo e una donna possono anche scegliere altre vie, ma mentre camminano insieme, mentre si dichiarano amore, è devastante usare la menzogna come scudo al tradimento. Troppo si sacrifica alla finzione, uomini si diventa per quello che dentro ognuno macina, per la fatica di dirsi ogni giorno la verità, di fare a se stessi quello che per altri si è scelto. San Valentino è alle porte, sarà un caso o preziosa coincidenza che quest’anno cada lo stesso giorno delle

    Ceneri, giorno più alto per operare conversioni, cambio di rotte. Per chi davvero ama e sa cos’è l’amore, quello esclusivo e ed escludente, offrire fedeltà è l’unico modo per dirsi uomini, per dirsi ancora umani.

     

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

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    In una città senza madri i figli sono alla sbando

    Baby gang, branco, violenza giovanile, soprusi, ovunque aggressioni, in pieno giorno senza pudore, senza vergogna. Capita dappertutto, ogni grande metropoli del mondo ha problemi di criminalità, ma a Napoli è un’altra cosa. Non c’è posto, non c’è spazio che non sia occupato dalla violenza. Un poeta ha scritto che quando Dio creò Napoli rideva e il suo sorriso è rimasto intatto, stampato nella luce che disegna ogni giorno il fascino di questa terra che ha il sapore salmastro del mare e la forza vitale del sole.

    Dire che è bella è riduttivo. Esagerata è l’aggettivo che le sta bene addosso; esagerata nel bello come nel brutto, nel bene come nel male. Tutto ciò che tocca perde misura e trasborda fino ad inebriare o uccidere. Quando leggevamo dai giornali che in altre parti del mondo, come in Brasile, i ninos de rua si accoltellavano, ci sembrava una cosa assurda, lontana, impossibile. Ora sta succedendo anche da noi. ‘E criature song ‘e Dio, sono sacre e quando è un ragazzino a rischiare la morte, la sua o di un suo coetaneo, tutti dovremmo chiederci che fine stiamo facendo.

    I ragazzi di strada ci sono sempre stati a Napoli e hanno fatto storia a tal punto che dire scugnizzi è dire parola nata qui, in questa terra dolce e amara, parola ormai capace di descrivere tutti i ragazzi scombinati della terra. Ed è anche vero che ieri forse facevano più paura di oggi, erano certamente più selvaggi: nudi, scalzi, i piedi coperti di piaghe, servi di uomini senza scrupoli che li usavano per ogni nefandezza. Conoscevano ogni vizio anche quelli innominabili. Hugo quando ha scritto “I Miserabili” forse non aveva conosciuto il rione Carità, i Quartieri Spagnoli o il Pallonetto di Santa Lucia. Tuttavia lo scugnizzo napoletano anche se aveva nel sangue la malattia della miseria, questa era accompagnata da un anelito di libertà: i Masaniello di sempre, laceri, mendicanti, lazzari li troveremo come piccoli eroi nella storia di questa città sulle barricate a battersi e morire per tutti quanti noi contro ogni tirannia.

    Gli scugnizzi non sapevano scrivere, non sapevano leggere, avevano imparato presto l’arte di arrangiarsi per sbarcare il lunario e certo da sempre sono stati l’espressione più eloquente dei grandi problemi in cui si è dibattuta la nostra terra: ma a differenza di quello che sta avvenendo oggi avevano la loro cultura, fatta di terra e di sole. Per qualcuno poteva essere sbagliata, infetta, come i cenci che portavano addosso, ma era cultura di libertà. Protestavano nel loro disordine, nella loro anarchia per un popolo nato per essere libero, per godersi il bello che la natura gli aveva concesso.

    Ma a Napoli accanto agli scugnizzi c’erano le madri, c’erano loro dove la legge latitava, dove lo Stato non riusciva a organizzare convivenza civile, dove la chiesa, la scuola non riusciva a passare una parola di senso: mamma a Napoli era dire casa. E le madri di Napoli quelle del popolo o della nobiltà erano carnali, violente, feroci nel loro essere possessive e protettrici dei loro figli: cambiavano i Signori che comandavano questa città, ma chi davvero regnava erano le madri. Anche quando avevi avuto la disgrazia di perderla la madre, di non averla mai conosciuta, questa città non ti lasciava senza un’immagine indispensabile per sopravvivere. Non ti chiamavano trovatello né orfano, ma figlio della Madonna. La guerra, gli americani, le nuove dinamiche di famiglia e di cultura che polverizzeranno il ruolo della donna madre, piano piano, qui più che altrove, trasformeranno la città in terra di nessuno.

    Le madri sono state l’arma segreta di questa città. Come chiocce hanno protetto con tutto quello che avevano, fino al dono di sé, la libertà e la dignità delle loro famiglie. Alla mancanza di uno Stato forte sopperiva il calore della famiglia e delle sue regole. Tutta Napoli era una grande tribù che si muoveva come corpo composito formato da miriadi di cellule in sé perfettamente organizzate con le proprie leggi, le proprie tradizioni e le proprie usanze. Intorno alla madre un’infinita varietà di personaggi più o meno importanti roteavano e offrivano gerarchie di ruoli e valori. Dai nonni agli zii, dai cugini carnali a quelli lontani, dalle comare ai compari. Più di una generazione aveva la possibilità di tramandarsi la storia con il pianto per le sconfitte e l’esaltazione per le vittorie. Oggi Napoli è a rischio di maternità, non c’è chi la governa, chi l’ami veramente e i figli sono alla sbando. Nessuna legge potrà ricondurre la città all’ordine senza la madre, nessuna regola o repressione, nessun figlio ritornerà a casa se non c’è nessuno che l’aspetti, se non c’è nessuno che pianga per lui.

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

     
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    Le parole ... parole... della politica

    Mi ripeterò, ne ho già scritto, ma dopo il ventennio fascista, quello berlusconiano ha distrutto la politica italiana e l’ultima legislatura, benché si sia sforzata di dare un miglior assetto ai percorsi democratici, non ha convertito l’esperienza politica, non è riuscita a farla uscire fuori dal suo degrado, dalla sua decadenza. Resta il vuoto di valori intorno a cui la politica deve ragionare, determinando la caduta della memoria, permane l’adesione a modelli culturali ed etici bassissimi in diversi campi dell’agire individuale e sociale. L’italiano dimentica in fretta e in fretta si lascia sedurre da chi già lo ha ingannato, svenduto, umiliato. Un secolo fa nella sua lucida analisi Antonio Gramsci scriveva: “ Il fascismo si è presentato come l’anti- partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano”. Cosa c’è di diverso oggi?

    Una proposta politica di puro potere come occupazione senza limiti di tutti gli spazi e le sedi occupabili confondendo il governare con il comandare. È quel vecchio volto di potere che si rigenera, che si ricicla e che usa arroganza verbale, ossessione di apparizione, demonizzazione della dialettica, arte antica per investigare anche con l’avversario le vie possibili della verità. Vecchio è cambiare casacca mentre il pallone è ancora in gioco. Vecchia è la consuetudine di legittimare politicamente gli interessi di parte e asservirsi ai più forti per necessità di scanni. Vecchio è tradire le idee fino a un attimo prima professate e passare armi e bagagli nelle formazioni politiche vincenti. Vecchio è l’uso dei mass media pubblici che dovrebbero essere di servizio sociale come appannaggio solo dei più forti limitando la democrazia delle idee. Vecchio è l’accentramento del potere e non la delega, la sussidiarietà. È vecchia la rissa quotidiana senza proposte, la contrapposizione verbale per divertimento televisivo, la fuga dai contenuti e dalle idee, la scelta dei compagni di partito tra chi è pronto ad essere gregario e non competitivo. Vecchio è il politico che prima degli interessi collettivi antepone i suoi.

    E non tutto quello che è venduto come nuovo lo è veramente, perfino i movimenti che si propongono come alternativa al sistema, si dicono pronti a governare anche con il peggiore degli alleati possibili del passato regime purché si arrivi al governo. La politica è altra cosa, è pensare insieme alla costruzione del futuro, insieme organizzare la speranza.

    La democrazia è luogo di sintesi di pensieri diversi, è dare parola a tutti, e a tutti consentire la parola contraria. Ed è per questo che la politica democratica non è la scienza dell’assoluto, del qui decido io, non è la scienza del solo compromesso ma della mediazione, della programmazione, è arte di governo della sintesi di desideri molteplici che mira al bene collettivo. Chi lotta per la libertà sua e degli altri, chi crede nella democrazia a tutti i livelli possibili, si pone come segno di contraddizione del sistema di potere che uccide le speranze, va contro l’imbarbarimento dei nostri giorni che rischia di rafforzare il dispotismo pensiero. Forse non riceverà il riconoscimento degli uomini, ma gli basterà quello della sua coscienza per restare in armonia con se stesso e vincere il disagio che opprime dentro quando di fronte ai despoti si resta inermi. Nel Suk delle parole di fumo la propaganda dei venditori di nulla avanza e nel triste dibattito che allontana sempre di più la gente dalla partecipazione, muore la democrazia. Un già visto che la storia ha raccontato, le sue conseguenze dolorose, un fatto che dovrebbe far riflettere. Ma la storia non è maestra di vita, se lo fosse davvero gli italiani non permetterebbero, ancora una volta, di essere presi in giro.

    *Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

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