Articles by: Gennaro Matino

  • La rivoluzione francescana

    Si chiamerà Francesco, mai nome pronunciato in San Pietro risuonò chiaro alle orecchie di chi aspettava il nuovo Papa. Francesco, oltre il nome, è un mondo che si svela alla sorpresa dei semplici e richiama la Chiesa alla sua originaria forza rivoluzionaria, la richiama al dovere di mettere il grembiule e di farsi serva per dare ragione della speranza che è in lei.

    La speranza di gridare la verità dai tetti, di carezzare di tenerezza gli afflitti, di aprire le finestre chiuse dell’egoismo alla carità che salva. Francesco è un nome che ho sognato per un Papa da quando ero ragazzo, pensavo che il solo nome del poverello d’Assisi  scelto da un pontefice avrebbe potuto dare inizio a un nuovo corso per la storia della Chiesa.

    Francesco d’Assisi a ragione viene considerato il santo più rappresentativo del millennio passato, tanto che perfino un giornale profondamente laico come il Times, quando ha dovuto scegliere a chi dedicare la copertina per indicare l’uomo del millennio, non ha avuto dubbi nel dedicarla a Francesco.

    La sua storia provoca ammirazione per una rivoluzione pacifica che trasversalmente commuove e fa riflettere, storia intimamente rappresentata dalla scelta di abbracciare sorella povertà e trasformare la sua condizione di privilegio sociale in una nuova opportunità di incontro, donando se stesso, più che le sue sostanze, agli ultimi. Ma in realtà la sua profonda conversione è intimamente linguistica, rivoluzionaria nei segni e nelle parole che poco erano frequentate nella Chiesa del tempo. La maggior parte dei suoi contemporanei in Europa erano credenti formalmente, ma non evangelizzati.

    La rivoluzione francescana, rivoluzione di nuova evangelizzazione dell’Europa, è proprio la scelta di luoghi simbolici, strutturali, linguistici, interpretativi per meglio passare l’annuncio del Verbo. Inculturazione insomma che scoperta per la “follia” di Francesco diventa metodo, così da poter intimamente parlare di percorso di vangelo: dalla profezia al metodo.

    Ma Francesco è anche il nome del primo santo gesuita che ha evangelizzato l’Oriente. In un solo nome la santità di vita come dono offerto ai più deboli, la proclamazione di un mondo più giusto e la volontà di portare il Vangelo fino ai confini della terra. E mentre da più parti si chiede alla Chiesa di continuare ad annunciare il Vangelo restando coerente con i suoi insegnamenti, di essere più presente nelle piaghe dolorose del tempo e si chiede anche una straordinaria forza di adattamento della Parola alle mutate vicende umane, mentre necessita una purificazione al suo interno, lo Spirito Santo ci ha donato un papa che si chiama Francesco.

    Il cardinale Bergoglio che nella sua diocesi di Buenos Aires già aveva dato testimonianza di quanto amore avesse per la lotta per la giustizia e la vicinanza agli ultimi, ora è il Papa della Chiesa universale, il nostro Papa pronto a fare con noi un tratto di strada difficile che deve riconsegnare parole significative ad un tempo che non parla la stessa lingua della chiesa, parole d’amore gridate a tutti i suoi figli, senza eccezione e senza riserve.  Il mondo ha aspettato con ansia questo momento e a chi pensa che la Chiesa sia ormai un fatto passato, prigioniera dei suoi problemi, a chi ha tentato in tutti i modi, dentro e fuori delle sue mura, di trasformarla in campo di indegne battaglie, Papa Francesco sta rispondendo con la sua gentilezza e la sua potente profezia. Difficile mestiere quello di papa, ancor di più per chi si è caricato di carezzare di speranza i credenti e  di dire parole di novità al mondo. Per ora la speranza è in quel meraviglioso nome: Francesco, il nostro Papa, si chiama Francesco.

  • Facts & Stories

    The Franciscan Revolution

    His name aside, Francis has been a world of surprises for the meek and reminded the Church of its original revolutionary power, of its duty to strap on an apron and serve others to account for the hope that others have placed in it, the hope to shout truth from the rooftops, to tend to the afflicted, to open the closed windows of egoism onto the salvation of charity.

    Since I was a boy I have dreamed of a pope who would choose the name Francis, believing the 
    name of the pauper from Assisi was itself sufficient to change the course of the Church. Francis of Assisi is considered the most representative saint of the past millennium, so much so that, when deciding on a candidate for the man of the millennium, a newspaper as skeptical as the New York Times didn’t hesitate to name Francis.

    He has garnered admiration for his pacifist revolution that both stirs us and makes us reflect, for having chosen to embrace poverty and transform the conditions of social privilege into an opportunity to engage the poorest — giving more of himself than material wealth. But his real transformative power is linguistic, revolutionary for its words and signs, the likes of which haven’t been heard in the Church for a long time. The majority of his contemporaries in Europe were, formally, believers, not evangelists.

    The Franciscan revolution, the revolution of a new evangelism in Europe, lies in the choice of symbolic, structural, linguistic and interpretive places to preach the Word. Enculturation, discovered by the “folly” of Francis, becomes a method to speak intimately of the evangelical path: it goes from being prophecy to being a method. But Francis is also the name of the first Jesuit saint to evangelize the East. One name embodies the sanctity of a life dedicated to the humblest, the proclamation of a more just world and the will to preach the Gospel to the far reaches of the earth.

    While many groups look to the Church to continue preaching the Gospel and practicing its teachings, to be more present in the tribulations of our day, and further asks that the Word be adapted to the changes that have taken place in the world while also being purified from within, the Holy Spirit has given us a pope named Francis. Cardinal Bergoglio already demonstrated his dedication to the struggle for justice and his sympathy for the meek in his diocese in Buenos Aires;

    now, as Pope of the Universal Church, he appears poised to hew a difficult stretch of road with us, to restore meaning to words while not speaking the same language as the Church, words of love showered upon all his children, without exception and without hesitation.

    The world has anxiously awaited this moment, and to those for whom the Church is a thing of the past, prisoner of its own problems, to those who have tried at all costs, inside and outside its walls, to drag it into disgraceful wars, Pope Francis is answering with gentility and prophetic power.

    It’s a difficult job for the Pope, even more so for someone charged with giving hope to worshippers while speaking to the new world. For now, such hope lies in that marvelous name: Francis, our Pope, who would be called Francis.

  • Opinioni

    Natale. Il presepe ed il miracolo di una festa


    SERE fa ho fatto quattro passi a San Gregorio Armeno.

    Tanta gente per strada pronta a mettere mano al nuovo progetto architettonico per allestire il proprio presepe, a scegliere i pastori più aggraziati e fare i conti con una tradizione che dice cultura, dice storia di un popolo oltre la festa. Un tempo il presepe entrava in tutte le case.

    Nonni e nipotini preparavano l’evento. La nascita di un Dio bambino nel cuore della storia.

    Poche cose bastavano per rispettare la tradizione: un po’ di sughero, del filo di ferro, colla preparata in casa con acqua e farina, muschio fresco.


    A casa mia, quando ero ragazzo, come in tante altre case di Napoli, Natale si apriva a novembre e si chiudeva a gennaio. Il Bambinello nasceva come sempre il 25 dicembre, ma Natale non durava un solo giorno, non era una festa da consumare in poche ore al ritmo della pubblicità più suadente.


    Si “trezziava”, il Natale, si giocava tra la sua attesa, il godimento e la speranza di riviverlo l’anno successivo.

    “Trezziare” è verbo partenopeo che chiude in poche sillabe un mondo impossibile a dirsi in un solo fiato. È un vocabolo usato dai giocatori di tressette, quando scoprono lentamente la carta ancora nascosta sperando che sia il tre, la carta vincente. Così che a Napoli “trezziare” il Natale significa imparare ad assaporare l’emozione e la gioia dell’attesa.


    Le cose belle non vanno mai ingurgitate, bisogna “trezziarle”. Si poggiava il voluminoso pacco su di un tavolo al centro della casa e in una nuvola di polvere si riapriva il Natale.

    Un’emozione fatta di semplici gesti e la famiglia si ritrovava insieme e, mentre gli adulti spiegavano ai più piccini il significato dei pastori scartocciati, di padre in figlio si tramandava il senso profondo del presepe, di quel Vangelo senza libro.


    Il presepe ancora oggi comunica la gioia della salvezza all’uomo qualunque che, in maniera distratta, continua a festeggiare il Natale senza nemmeno sapere perché. È l’espressione di un mondo di rappresentazioni mentali e culturali, che ignara la gente mette in atto quando con devozione costruisce il suo presepe, mettendo insieme il bisogno di Dio e l’attaccamento alla propria casa, alla propria terra.


    Relitto culturale, il presepe parte da quelle statuine che nell’antichità, in ogni casa, raccordavano i morti con i vivi. Una forma di magica protezione. Mito, simbolo e tradizione, infatti, fanno del presepe un intreccio di storie che consentono di custodire la tradizione di un popolo, esprimendo la mai risolta assimilazione di un culto nuovo alla civiltà preesistente.

    Il presepe napoletano è dunque lo sposarsi del Verbo che si fa carne con i miti, le favole, i racconti e le suggestioni di un popolo che continua a conservare il suo passato. D’altronde, la storia dell’inculturazione del messaggio cristiano passa anche attraverso quella silenziosa forma di acquiescenza, che permette ad ancestrali credenze di riaffiorare nel nuovo culto. Nel presepe napoletano una cosa è certa: Gesù Bambino nasce sempre nella vita di tutti i giorni.

    Ed è proprio in questo calarsi di Dio nella quotidianità che si coglie il significato profondamente evangelico del presepe, dove a torto si crede che sacro e profano, passato e presente, storia e leggenda siano fusi insieme senza ragione.


    Per capire il presepe bisogna entrarci dentro e fare lo stesso percorso del pastore della meraviglia che, arrivato alla grotta, rimase a bocca aperta come quanti, nel Protovangelo di Giacomo, rimasero paralizzati di fronte al miracolo di un Dio che si fa bambino per nascere nella vita di ciascuno di noi, nella Napoli di un tempo e in quella di oggi.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


  • Opinioni

    Le contraddizioni della sofferenza. Eutanasia e accanimento terapeudico


    « Vorrei morire anch'io con dignità». Non è la prima volta che sento pronunciare tale lucida richiesta, non mi sorprende, non mi scandalizza, capisco chi fa i conti con una sofferenza insopportabile che sembra svestire d'umano la sua storia. Morire con dignità, questa la richiesta, che oggi ad alcuni sembra ancor di più in dovere di essere gridata dopo che i media del mondo hanno raccontato l'esperienza di Brittany Maynard, la ventinovenne americana, che ha scelto l'eutanasia. Domenica scorsa si è tolta la vita in Oregon alla presenza di suo marito e dei suoi genitori. Aveva annunciato la sua volontà di mettere fine alla propria sofferenza in un video su youtube che era stato visto da 9,5 milioni di persone.

    Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere, prima che la sofferenza della fine lo distrugga al punto da farlo vergognare di essere uomo. Per molti autorevoli commentatori è inaccettabile infatti lo spettacolo della sofferenza del condannato a morte. È una ferocia non liberare dallo strazio chi potendo chiederebbe di essere soppresso. «Nel suicidio consapevole responsabilmente esercitato c'è una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di essere padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare». Eroismo scriveva Augias qualche tempo fa, così l'eutanasia per lo scrittore che, in questi giorni, forse sembra meno convinto. Mettere fine alla sofferenza, anticipare la morte, è per Augias un'antica e resuscitata virtù. Il suicidio come valore. Legittimo ritenerlo. Tuttavia è legittimo anche ritenere, fuori dal clamore del potere mediatico, che fa dell'eccezione sistema mentre troppo silenzio cala invece sulla quotidianità di chi vive il dolore anche estremo con dignità, che possa esserci un eroismo contrario. Un eroismo molto più diffuso, vissuto come offerta di sé e che, non solo la mia fede, ma la mia stessa dignità di uomo, spinge a considerare un'esaltante esperienza di vita benché il dolore: il morire quando la morte, che arriva a suo tempo, abbia avuto il tempo di fare il suo mestiere.

     
    La morte fa parte della vita, come è parte della vita la sofferenza. Sono contrario a ogni accanimento terapeutico che prolunghi un'esasperata sopravvivenza. Lo spettacolo di dolore al quale Augias aveva assistito e che raccontava in un suo articolo di qualche tempo fa, l'amico che si spegneva trasformato in altro dalla sofferenza e che lo avrebbe indotto a pensare alla dolce morte come più dignitosa, è spettacolo a cui mi costringe il quotidiano e che certo mi provoca e pone domande anche alla mia fede: "Perché? Fino a quando?". Prego perché le sofferenze di chi sta morendo finiscano presto, spero che la medicina allievi il dolore e usi strumenti capaci di accompagnare chi soffre senza false illusioni.


    Tuttavia ritengo che la fine della vita è pur sempre vita, ritmata dalle stagioni e dagli avvenimenti di ogni giorno e che questo segmento di vita è un bene concesso, un'esperienza comunque umana. Non cerco il dolore, lo combatto, ma eroismo non può essere negare la sofferenza togliendosi la vita. Il suicidio antico era altra cosa. Si può ragionare su questo, ma allargarne il concetto sarebbe rischioso, come il dover stabilire quale sia il limite della vergogna, lo spazio concesso alla libertà del morire per garantire la propria dignità. Ma c'è di più: a ben leggere l'eutanasia e l'accanimento terapeutico sono facce della stessa medaglia.

     
    Solo chi davvero è contro il potere assoluto della medicina, e non crede che la scienza abbia una risposta a tutti i problemi, ha anche l'umiltà di governare le contraddizioni della sofferenza. Solo chi conosce la vita, e impara ad accettarla nella sua verità, fa i conti con il dolore e la morte. La presunzione di resistere alla morte quando è arrivata l'ora o di anticiparla quando ci sembra troppo in ritardo sono di uguale natura. Il delirio di onnipotenza non permette all'uomo di accettare la natura e inchinarsi di fronte all'evidenza della morte.


    Provare a resistere all'inevitabile è eroico o temerario? Fuggire dallo strazio della morte è coraggio o vigliaccheria? Fino alla sua morte il morente resta un uomo e da uomo dovrà attraversare quel baratro inevitabile che agli spettatori sprovveduti del suo dolore apparirà come il baratro della vergogna. Ma lo è davvero? Per il momento sarebbe più giusto accarezzare di amore chi ci chiede di essere soppresso forse solo per non dare fastidio, solo per non darci l'angoscia di pensare alla morte.

     

    Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere prima che la sofferenza della fine lo distrugga.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Opinioni

    Un tabù che si chiama morte



    NON potendo evitare che la morte arrivi, abbiamo sciaguratamente narcotizzato il lutto che, benché esperienza difficile e travagliata, ci permetteva di prepararci alla sostanza del limite. Una rimozione, quella della morte, che ha finito col provocare effetti devastanti nella costruzione stessa della società. Un tempo, tabù era il sesso che, rimosso dall'educazione e dal linguaggio, era avvertito come qualcosa di malato. Le conseguenze di tale efferatezza le conosciamo tutti. Oggi è la morte a essere un tabù.
     
    Il filosofo francese Jean Baudrillard afferma che la morte è l'unica pornografia della modernità. Un film per soli adulti. E se il nostro è un tempo in cui gli uomini hanno paura di lasciarsi l'adolescenza alle spalle, ne consegue che parlare di morte con l'uomo contemporaneo è impresa difficile quanto ricordargli i doveri di un uomo adulto. La morte non si può eliminare, si può renderla asettica, ma non si può cancellare. Lo psichiatra ungherese Sándor Ferenczi scrive: "Che cos'è la rimozione? Forse il modo migliore per definirla è il diniego di fronte ai dati di fatto. Ma mentre il bugiardo, nascondendo la verità o inventando cose che non esistono, inganna gli altri, l'attuale sistema di educazione fa sì che gli uomini mentano a se stessi, fa sì che, appunto, neghino davanti a se stessi pensieri e sentimenti che si agitano nel loro intimo».
     
    Questo processo di negazione non solo tradisce la storia, oppiandola al punto tale che, finito l'effetto rassicurante del narcotico, la crisi di astinenza provoca ricerca di nuove sostanze mortalmente inebrianti, ma determina una perdita progressiva di umanità. E mentre si crede di evitare la morte ignorandola, la morte aggredisce di sorpresa con effetti devastanti: suicidi in aumento, violenze gratuite, anziani e bambini considerati meno di niente, le aberranti sfide del sabato sera dove, in un macabro gioco, si affrontano le frontiere del limite. Ma soprattutto la negazione della verità sveste la morte della sua naturalità e trasforma l'immancabile evento in tragico e sfortunato imprevisto, il più delle volte avvertito come punitivo. E per questo, insieme alle mille agenzie dell'imbellettamento funerario del caro estinto, sono comparse le officine della riconsegna dei morti dall'aldilà.
     
    Ciò che si sarebbe dovuto fare in vita, dialogare con l'Oltre, si trasforma in ricerca di un dialogo paranormale, dettato più dal senso di colpa e dalla necessità di sentire il defunto legato alla terra, che dal bisogno di dare significato alla morte. L'evento più naturale della vita, indissolubilmente legato alla nascita, diviene impossibile da decodificare e pertanto causa di una disperazione così incontrollabile da portare qualcuno all'assurdo di cercare la morte come rimedio al dolore di una vita perduta. La morte non la si può eliminare e la cultura popolare, a differenza di quella pseudocolta, lo sa, lo ha sempre saputo e per questo confidenzialmente cerca di dialogare con la nemica chiedendole di restituire alla vivezza della memoria i cari estinti e per tale scopo dedica loro, in questo giorno, una speciale festa. Festa dei trapassati per cantarne la vita, per celebrarne la morte a cui la povera gente non fa certo sconti e per questo ne esce vincitrice. Le grida in faccia senza pudore la propria rabbia e così le strappa da dosso il manto della paura. Si affida al cielo a cui consegnare l'amore perduto, supplica la terra di fasciarne la carne, affida a un fiore parole impossibili da decifrare a chi è morto dentro da tempo benché ancora resti in vita fuori.
     
    Si è creato un processo di negazione della verità che non soltanto tradisce la storia ma determina una perdita progressiva di umanità.



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Opinioni

    Elogio della gentilezza


    VORREI fare l’elogio della gentilezza, suprema arte che restituisce dignità all’umano, oggi in rovinosa caduta nella Napoli dei mille bordelli che, proprio per la penuria di “creanza”, si va ammalando, giorno dopo giorno, di incivile convivenza.



    JOHANN Wolfgang Goethe soggiornò a Napoli due volte nel 1787, a distanza di qualche mese. Nel suo viaggio in Italia ci restituisce non solo l’immagine vivida di luoghi di impareggiabile bellezza, ma soprattutto il carattere di un popolo che, per sua natura, il poeta riconosce essere gentile oltre ogni aspettativa.


    Non so se le impressioni di Goethe fossero intrise del sentimentalismo tipico dei viaggiatori nordici della sua epoca o se avesse inteso per gentilezza quel tratto ruffiano di un popolo pronto ad accattivarsi la simpatia del forestiero per vendergli ogni mercanzia.
 Fatto sta che la gentilezza è una esperienza umana che rende la vita degna di essere vissuta, e una città alla quale essa sia estranea diviene gelida e invivibile. Irrespirabile diventa l’aria di quel posto dove la gentilezza è oppressa.



    Riconosco che a qualcuno risulterà inopportuno, inutile parlarne ora, in un tempo dove altre sono le priorità, dove i problemi che ci attanagliano quotidianamente non sembrano risolvibili con il possesso di una diversa attitudine d’animo. Crisi economica, città senza visione politica, senza struttura istituzionale di riferimento, senza padre e senza madre, altro occorrerebbe, si dirà.
Eppure sono convinto che ridare la gentilezza a Napoli servirebbe a risollevarne il futuro.


    Non costa nulla la gentilezza ma porta in sé una tensione salvifica, una rendita di civiltà.
Noi purtroppo l’abbiamo svenduta per trenta denari di squallida volgarità e per questo motivo lo spazio vitale che era in nostro possesso, indispensabile per il futuro dei nostri figli, spazio politico, economico, spirituale e perfino quello fisico, destinato a essere occupato per la civile convivenza, resta ora proprietà privata contesa dai farabutti di sempre. Protetti dalla corrotta scorrettezza istituzionale, dalle parole scaltre dei venditori di fumo, dalla politica dei mercenari, a vantaggio della logica meretrice dei “figli di” che, senza valore alcuno e senza ritegno, si accaparrano i posti migliori.



    Volgarità che non risparmia i luoghi preposti a raccontare il sentimento alto e nobile della gentilezza, la scuola, la chiesa, la famiglia. Luoghi preposti a fare diga alla prepotenza dei forti e allentare le continue difficoltà della vita, a passare come tragico ed esaltante l’ascolto della vita come attenzione agli stati d’animo e alle sensibilità degli altri, a testimoniare la sfida di rendere leggera l’esistenza, ferita continuamente dall’egoismo e dalla idolatria del successo, dal sopruso dei delinquenti, a dare dignità a quelle emozioni scartate nel tempo dei falsi maestri e ritenute pratica di uomini deboli, irrise come la timidezza e la tenerezza, la mitezza e la speranza.
La gentilezza è il vero sapore dell’umanità che penetra nel cuore degli eventi, la più grande responsabilità che ognuno ha verso se stesso e i propri figli.


    Per molti oggi essere gentili è tempo sprecato visto quanto l’irruenza della prepotenza sembra vincere in ogni contesa. Cosa farsene di un’inclinazione noiosa, ritenuta roba da fessi, una virtù da falliti.
Eppure non esiste condizione interiore più forte per vincere l’arroganza della volgarità, per ripristinare percorsi rovinati dall’incuria dei valori perduti. Non esiste altra premessa per rendere possibile una rivoluzione politica, sociale, spirituale capace di cambiare il volto di una Napoli tumefatta.
La gentilezza è resistenza eroica, ancor di più quando è gentilezza sociale, è un ponte che ci fa uscire dai confini del nostro io facendoci partecipare della vita degli altri. Crea invisibili alleanze, invisibili comunità di destino, che superano la chiusura nel privato, lo scarto tra quello che mi serve e quello che è giusto, e smorzano la morsa della solitudine in cui si sente prigioniero l’onesto, inaugurando un tempo dove lo stare insieme è di nuovo lotta per la libertà.


    L’uomo gentile è un uomo amorevole che nelle parole, nelle espressioni, nei gesti, in ciò che propone e che offre rende evidente le sue migliori potenzialità, il meglio di sé; colui che in ogni relazione permette all’altro di percepire il rispetto e l’amore per la vita, la dignità come valore assoluto.
La gentilezza è il modo più autentico per dimostrare amore alla nostra terra, è la Vita che invita la vita stessa a danzare a un ritmo tale che la bellezza e la pace risuonano fino a spegnere ogni eco disarmonico.
Un atto gentile è una dichiarazione d’amore. Tutto con un po’ di gentilezza diventa accettabile, in ogni caso decisamente più umano.



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Op-Eds

    Screaming for Peace

    These words seem so far removed from us amid the crude reality of today’s increasingly devastating wars. Scream for peace, wrote Rabin.

    The Pope has echoed his words. “In many parts of the world,” writes Francis, “the decaying of fundamental human rights is incessant, especially the rights to life and freedom of religion. The tragedy of human trafficking, where men without scruples speculate on desperate lives, represents just one disturbing example. Along with the wars fought with arms in battle come wars less visible yet no less cruel, which are fought in the economic and financial fields with means just as destructive to lives, families, and businesses.” 
     

    Scream for peace so that beauty may triumph, says the Pope, so that hope can be born again, and all the races, cultures, creeds, and sexes of this planet can coexist. So that mutual respect can finally take root in our hearts. 

    In the meantime, peace is betrayed in every corner of the world. Pope Francis has the courage to scream for it, as do other well-meaning men, the interpreters of a new humanity who often go unheard. Peace! scream the just, to break the deafening silence surrounding the injustices of governments of dominant nations.

    To break the deafening silence surrounding the empty rhetoric. Peace is a revolutionary word in this time of politically corrupt, fabricated lies. The Pope has placed peace at the center of his ministry, as Gospel. He has called for the reconciliation between peoples by inviting warring governments to his house, the Vatican. Reaffirming that peace is possible only when you face one another. Dialogue alone can uncover the causes of divisive hatred. Dialogue is the only guarantee of safety for the people of the world.
     

    In the past, governments had War Ministries (in the U.S., a Department of War). Over time they changed into Defense Ministries (Department of Defense). What has emerged is a global diplomacy convinced that arms would never have been used unless said country had not been attacked.

    Perhaps it is time to entertain a new, revolutionary idea: the creation of a Ministry of Peace to combine the secular State and  the irreplaceable sacredness of harmony between different groups of people. Even when they have differences of opinion, those groups would know how to discuss those differences and learn from their diversity.

    These Ministers of Peace could finally engage in discussions on an international stage, rather than occupying the most profitable places in the world, and guarantee all the inhabitants of this special home, Mother Earth, a safe place to live. Scream peace. Declare an end to the times in which man is man’s worst enemy. Not until then will we discover, in the supreme beauty of brotherhood, the only way to save the world.

  • Opinioni

    Per una scuola che dica la verità


    NULLA cambia per quei milioni di ragazzi che, di questi tempi, giorno in meno, giorno in più, in Italia e a Napoli vedono riaprire i battenti della loro scuola. Ne ho visti di entusiasti e di più ricalcitranti nel loro primo giorno scolastico, trovandomi a passare dinanzi alla mia vecchia scuola elementare, la Luigi Vanvitelli, che da più di un secolo è la più antica scuola del Vomero.

    Generazioni di bambini, dai pantaloni alla zuava ai pantaloncini corti, dalle cartelle di cartone nero ai moderni zainetti l'hanno attraversata e non è raro che sullo stesso banco prima i nonni, poi i padri e i nipoti hanno fatto il loro bravo dovere di studenti. Ancora oggi mi emoziona vedere ragazzi vocianti, a valanga uscire da scuola, e alle loro miste voci confondere quelle della memoria, volti di bambini compagni che hanno colorato la mia infanzia: le bambine dal grembiule bianco, i maschietti quello blu.

     
    Diversa oggi la divisa dell'alunno, uguali i problemi, forse più accentuati di allora, di certo più avvertiti. Puntuali, come ogni nuovo anno, le promesse dei politici che saranno superati presto per una scuola all'altezza delle attese, puntuali i dibattiti sulla responsabilità della scuola in un tempo complesso che richiede giovani preparati alla sfida di una era globalizzata. Intanto viene messa a dura prova, tra parole vere e di circostanza, la speranza. Speranza che cerca soluzioni, che vorrebbe parole capaci di "via d'uscita" , di superare l'imbarazzo di questo tempo nel quale ci si sente imprigionati, paralizzati, impediti dal poter combattere la diffusa e penetrante tentazione al pessimismo, frustrati nel sognare di offrire ai propri figli un mondo migliore.
    Eppure non esiste altro modo di amarli davvero che lasciare loro un futuro da sognare, unica possibilità che un educatore ha per esercitare la sacra passione del passaggio del testimone.


    Non è semplice, ne sono convinto, rischiare di questi tempi parole controcorrente, parole come "ce la possiamo fare", come "coraggio oltre ogni rassegnazione", tuttavia questa resta la vera sfida per chi vuole mettere sottosopra la morte dei sogni. La scuola ha la grande responsabilità di organizzare la speranza per i ragazzi, responsabilità di far vibrare in loro parole significative capaci di durare nel tempo e permettere di dare forza alle loro aspirazioni.

     
    Tuttavia nulla potrà da sola se nelle nostre case, nelle nostre famiglie, stanche e costrette alla fuga dagli ideali, è stata sotterrata la parola "futuro". Cantava Giorgio Gaber: "Non insegnate ai vostri bambini la vostra morale, è così stanca e malata potrebbe far male, forse una grave imprudenza è lasciarli in balia di una falsa coscienza". Parole che pesano e possono essere considerate una sorta di testamento spirituale di Gaber che facendosi pedagogo dolcissimo ma determinato, indica come primario, nel ruolo educativo, il bisogno di "dare fiducia all'amore", perché "il resto è niente". "Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente".

     
    Nessuna scuola da sola sarà capace di passare futuro, inventare speranza per i nostri figli se verranno privati della fiducia nell'amore che può essere sperimentata pienamente nelle mura chiusa della propria casa. "Stategli sempre vicino". Ma quando? Spesso, dobbiamo riconoscerlo, i figli quando nascono sono ricchezza e problema, e i genitori, per necessità o per vizio comportamentale, provano da subito a mettere in campo una strategia della semplificazione della convivenza con loro. Il ruolo genitoriale si passa, di supplenza in supplenza, ad altri soggetti che, all'altezza o meno del loro compito, devono costruire ponti con chi si aspetterebbe altre sponde. Comunicazione quanto basta, priva di spiegazioni.

     
    Il dialogo con i genitori resta essenziale, stanco, poche centinaia di vocaboli per non dirsi nulla. Televisori, play station, game boy e cellulari aiutano nella rarefazione dei rapporti diretti fra le generazioni. Quattro ore al giorno davanti alla tv, almeno un'ora con i videogiochi, il resto, quando non è scuola, è telefonino. E quando la semplificazione dell'adulto non risponde alle attese, non garantisce quella libertà che andrebbe riconsiderata il giorno in cui si mette al mondo un figlio, è il bambino che è irrequieto, iperattivo, scostumato, violento, depresso, forse malato. E la responsabilità è di altri, soprattutto della scuola. Difficile dirsi la verità, ma solo la verità renderà il futuro possibile, solo la verità inaugurerà la rivoluzione della speranza.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Opinioni

    Uomo, sei ancora merce




    “OGNI cosa ha il suo prezzo, ma nessuno saprà quanto costa la mia libertà”. Così cantava Edoardo Bennato negli anni Settanta. Erano anni di grandi speranze e di ideali traditi. Il movimento studentesco del 1968 aveva dato il via in Italia a un periodo di fermenti sociali, una grande stagione di azione collettiva. L’organizzazione della società italiana veniva messa in discussione, ogni livello della sua rappresentazione ridisegnato e ripensato alla luce delle nuove idee. Il movimento di protesta, dalle università e dalle scuole, si diffondeva nelle fabbriche e dilagava in tutta la società. Tutto sembrava destinato a cambiare, presto. La politica puntava alle riforme, cercava di contenere la protesta collettiva. Non ci riuscì. Si aprirono dibattiti, si discuteva di diritti civili. I giovani provarono a rintuzzare i poteri forti.

    Ma intanto la rabbia per i diritti negati, la protesta delle piazze e il rumore delle idee degenerava a macchia d’olio in lotta armata, per tutto il territorio nazionale. Steccati, muri, trincee violente si ergevano in nome di una libertà che si riteneva svenduta al capriccio di poteri forti.


    A Napoli, negli stessi anni, la protesta giovanile e l’endemica precarietà del vivere provarono a cucirsi insieme un solo abito rivendicativo.

    Impresa mai riuscita, mentre il colera dell’agosto del ’73 con i suoi morti e la sua vergogna segnarono per sempre il destino di una città che da allora in poi non seppe più trovare una via d’uscita, se mai ne avesse avuta una davvero percorribile e se, soprattutto, ci fosse mai stata volontà politica di perseguirla.


    Anni di idee forti, anche sbagliate, ma coraggiose di futuro che provarono a raccontare di speranza e di riscatto, di quella libertà cantata da Bennato con la sua “Venderò”. Libertà come spazio vitale indispensabile per progettare qualsiasi impresa, libertà che non ha prezzo e non può essere svenduta.


    Oggi, benché la crisi dei mercati abbia di fatto decretato il fallimento dell’uomo economico che ha messo in vendita la sua libertà per qualche spicciolo di benessere, scegliendo la dimensione monetaria dei sentimenti e delle aspirazioni, non si intravede, soprattutto nel meridione, una ribellione positiva e pacifica dei cittadini, dei politici, degli uomini di pensiero e di fede allo strapotere tirannico della sola economia.


    Una rivoluzione di idee e di pensiero capace di riportare al centro dell’interesse generale l’uomo concreto, la sua vita relazionale, salvando quell’aspirazione alla libertà, orizzonte di nuova sostanza in tempo ammuffito di parole inutili.

    Il nostro tempo è ancora malato di mercificazione, i mercati hanno fallito ma tutto è ancora ridotto a merce.


    Tutto ha un prezzo, tutto sembra essere sottoposto allo strapotere del denaro. Ma quanto vale la lotta per un mondo migliore? Quanto costa la parola data? Tutto ha un prezzo, una riduzione indecorosa in prodotto economico di cose che per loro natura non sarebbero oggetto di scambio commerciale.


    Quanto costa una qualità umana? Quanto bisogna pagare per instaurare relazioni? E le tradizioni culturali, gli ideali, i valori fondamentali, che prezzo hanno? Se esiste oggi una caduta così vistosa della libertà, una perdita del suo desiderio è perché il fine della nostra vita è stato seviziato dalla degenerazione del possesso, perché l’orizzonte del nostro futuro è mutato ed è mutato l’oggetto del nostro desiderio.


    Non abbiamo più aspirazioni comuni, non ideali, non amore per quello che siamo insieme, per il nostro essere comunità. Cerchiamo la sola soddisfazione individuale, e la cerchiamo dal ruolo sociale che ci permetta di essere riconoscibili tra gli altri, di essere qualcuno e quando non ci riusciamo ci sentiamo falliti, vinti, depressi.


    C’è una grande retorica nella comunicazione massmediale dell’autorealizzazione per chi sa adeguarsi al ritmo dei tempi e far emergere in lui il desiderio di potersi affermare, una retorica che consegna una patina di magnificenza e splendore alla vita di chi ha successo. Niente da obiettare, nulla di male nel voler lottare per migliorare la propria vita, nel voler ottenere i migliori risultati raggiungibili grazie ai propri meriti e al proprio impegno. Ma è triste constatare che diffusamente dilaga la sensazione che in realtà la lotta di chi cerca la parte migliore non contenga valori particolarmente nobili al di là della sola soddisfazione personale calcolata in base al metro comune di giudizio.


    E se per tale raggiungimento “a tutti i costi” nel frattempo si sono determinate in altri compagni di viaggio sofferenze, disagi, fallimenti, poco importa: mors tua, vita mea!



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

  • Opinioni

    Quell'infanzia svenduta, rubata




    L’INCUBO più terribile di ogni genitore è quello di non trovare più il proprio bambino. È un attimo, ti giri e nel luogo dove era un secondo prima il piccolo non c’è più. Quando ero bambino mi capitò di perdermi, una distrazione innocente dinanzi a una vasca di pesciolini.

    E mia madre per un giorno intero provò cosa significasse morire restando vivi. Avevo solo due anni, ma quelle immagini di me vagante per una città sconosciuta, la paura e la solitudine, le lacrime nell’abbraccio ritrovato, mi sono rimaste scolpite dentro.


    Quanti sono i bambini scomparsi in Italia? Quanti nel mondo? I dati parlano di cifre impressionanti a conferma di un fenomeno quanto mai esteso, che sembra non conoscere fine. Secondo le stime, almeno 8 milioni di bambini scompaiono ogni anno, vale a dire 22.000 bambini al giorno. Un fenomeno complesso, dietro il quale si celano i più svariati motivi: dall’allontanamento volontario da casa, al rapimento per mano di malviventi o nel caso in cui uno dei genitori, in conflitto con l’altro, decide di far perdere le proprie tracce e quelle del figlio.


    Il fenomeno riguarda tutti i paesi del mondo che oggi, per sensibilizzare l’opinione pubblica, celebrano la Giornata internazionale dei bambini scomparsi istituita nel 1983 in memoria di Etan Patz, bimbo di 6 anni, sparito a Manhattan il 25 maggio del 1979, di poco più grande della nostra piccola Angela Celentano, scomparsa sul Monte Faito, in provincia di Napoli, il 10 agosto 1996. I suoi genitori non hanno mai perso la speranza e continuano a cercarla. Sono ancora tanti i genitori che chiedono allo Stato e alle istituzioni di non mettere la parola fine sulla ricerca dei loro figli.


    Esiste però un’altra infanzia rubata, diversamente dolorosa e il rischio di perderla è più che reale.


    La convenzione internazionale del 1989 sui diritti d’infanzia s’impegna a garantire la protezione dei bambini e le cure necessarie al loro benessere, la legge prevede che i bambini non siano mai abbandonati a loro stessi. Da decenni, ormai, i Paesi cosiddetti evoluti, tra i quali il nostro, si adoperano con convegni, dibattiti e studi sul mondo minorile per garantire a ogni bambino una crescita armonica e uno sviluppo equilibrato della personalità, tuttavia è fin troppo evidente che tutto questo non basta per proteggere dal violento mondo degli adulti la tenerezza dei più piccoli.


    E’ sotto gli occhi di tutti il dramma di un’infanzia svenduta, di come quotidianamente venga violato il diritto di troppi bambini all’identità, alla famiglia, alla salute, all’istruzione, all’uguaglianza, alla tutela dallo sfruttamento e dall’uso di droghe. Neonati abbandonati nei cassonetti, bambini preda di pedofili o di commercianti di organi, per non parlare dei bambini usati come manovalanza dalla malavita o di quelli che ancora muoiono per malnutrizione, per il gelo o per gli incendi nei campi profughi o annegati per trovare asilo in terra amica. Viviamo in una società che si reputa civile ed evoluta, ma che in realtà non è in grado di garantire ai bambini una vita serena, né il diritto al gioco senza il quale non si è più bambini.


    Anche i piccoli più fortunati sono diventati ignare vittime di un mondo globalizzato che mentre si adopera con ogni mezzo per soddisfare il bisogno di affetto e di protezione, dall’altro non si è lasciato sfuggire l’occasione di trasformare i nostri figli da soggetti bisognosi di cure in oggetti che rispondessero in maniera eccellente ai bisogni del mercato. Sta di fatto che un tempo persino la malavita rispettava la dignità dei bambini, oggi si può ucciderli senza pietà trasformandoli per calcolo diabolico in una insignificante pedina da regolamento di conto.

    Ma c’è di più: i nostri bambini sono derubati da adulti non cresciuti, i loro sogni sacrificati per capricci insani di chi non sa cosa significhi responsabilità di stato.


    Per affermare una presunta autonomia, spesso l’adulto dimentica che, il giorno in cui gli nasce un figlio, la sua libertà è investita sulla felicità del piccolo e, benché ogni adulto abbia il suo nome proprio, quando diventa genitore i connotati della sua storia sono irreversibilmente trasformati da un nuovo nome: mamma, papà.


    Cantava Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini la vostra morale, coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore, il resto è niente”.


    È il testamento spirituale di Gaber che lo ha scelto come accompagnamento musicale per il suo funerale. Gaber facendosi pedagogo dolcissimo suggerisce di “dare fiducia all’amore”, perché “il resto è niente”.


    Già, proprio così, per i nostri bambini, il resto è niente.



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

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