Articles by: Francesca Di folco

  • Arte e Cultura

    Dai loft di Soho ai lounge di Roma: ArtRom, l’intimità domestica dell’home gallery all’ombra del Cupolone...

    E’ un intenso charm d’americanità quello che ci avvolge in una sera d’inizio estate nel quartiere Prati a Roma, zona nord est della Capitale. Varcando la soglia di via Faiti, dietro le parvenze di un ordinario appartamento, ci troviamo circondati di frammenti d’arte internazionale, contornati da art style newyorkese, inebriati dallo spirito di una home gallery stile downtown Manhattan, nel cuore della romanità…

    Ad accogliere i-Italy tra le luci affusolate e i toni intimi della home gallery c’è la curatrice di ArtRom, Elizabeth Genovesi, californiana di nascita, da lunga data ormai italiana d’adozione.

    Giunta nella Capitale del Belpaese, come tutti i turisti del mondo, quest’odierna mecenate statunitense se ne invaghisce in toto, decidendo di soggiornarvi fino a scegliere di mettervi radici. Per l’art dealer Roma è infatti intreccio ideale, unico e indissolubile di art & life, in cui entrambe le sfere si influenzano di continuo, confluiscono l’una nell’altra, plasmandosi a vicenda, forti del contesto storico-culturale italiano crocevia di stimoli senza tempo, spinte propulsive da ogni dove e, a volte, contrasti...

    Art passion, intuito creativo, sguardo puntato alle nuove tendenze sono gli ingredienti perfetti di un elisir d’intraprendenza ed ingegno made in Usa, frutto di un’alchimia d’amore per l’arte che valica i confini d’appartenenza per giungere nella location di una home gallery romana...
     

    Dalle pareti del lounge pendono chicche uniche: da un lato ceramiche e teiere, piccoli capolavori d’artigianato, dall’altro arazzi dalle nuance sgargianti della newyorkese Denise Shaw. E ancora la bedroom della gallerista si impreziosisce di storyboxes dal contenuto criptico di eclettici autori... Perfino l’ingresso dell’angolo cucina si popola di opere...

    Elizabeth Genovesi, home art dealer, ospita art experiences in ogni meandro...

    Obbiettivi di questa nuova dimensione espositiva? Semplice, porre rimedio all’attuale modalità di presentazione dell’arte contemporanea non ponendola all’interno di musei dove il l’approccio con il pubblico è freddo, scostante e distanzia lo spettatore dall’esser coinvolto e la confusione degli altri fruitori stressa con i chicalecci sfrontati degli “estimatori del momento”...

    Le home gallery, per loro natura, recuperano un ambient di contatto pieno con le arti: si bypassa l’isolamento algido dei musei, aut anche rumours conditi di frenesia della folla lasciando spazio ad una profusione di calma, distensione “domestica” e calore umano per recuperare socialità in un clima di coinvolgimento autentico ma di pochi intimi riuniti...

    Il focus è superare wrongs, preconcetti tutti mentali, in cui referenzialità e austerità degli ambienti museali, ergono barriere, ostacoli, limitazioni da “o sei un intenditore oppure non capisci”, perchè tutti possano apprezzare l’indole creativa altrui.

    L’arte non è da capire, ma da vivere. Ed ognuno può decidere come…

    Sono tante infatti le occasioni ideate da Elizabeth e perfezionate dalla manager Dafne Crocella che offrono un brulicare d’eventi: nel pieno lifestyle dei dedali di Soho, prendono vita reading e writing creativi, dove le opere in mostra diventano spunti per nuove creazioni orali e scritte.

    Commenti in libertà, espressi sotto forma di parole d’arte e scrittura, per comunicare emozioni, stati d’animo e sensazioni ispirati dalle opere e condivisi dagli estimatori...

    Con le art experiences nella home gallery si spazia dall’osservare in silenzio e vivere l’arte by heart, come suggerisce Slow Art, movimento newyorkese del quale ArtRom è l’unica rappresentante romana, carpendo l’essenza poliedrica dell’arte in solitaria, cogliendo lo spirito caleidoscopico in privacy, quasi un recupero della dimensione singola delle esperienze, fino alla riscoperta di quella collettiva: durante gli incontri di Storytelling, racconti a braccio ispirati alle opere in mostra, i commenti d’ognuno si mixano di figment of imagination in cui l’estro dell'artista diventa motore di creatività dell'osservatore.

    L’atmosfera si carica di suggestioni durante gli Artist talk, gli speaking con gli artisti, di cui abbiamo un piacevole assaggio in questa serata di inizio estate con la newyorkese Denise Shaw.

    Le luci si abbassano, c’è il sottofondo musicale giusto, s’avverte malia nell’aria: particolari che creano incanto magnetico, invitano al relax, introducono la art maker...

    Denise illustra agli ospiti il suo processo creativo, la personale esperienza di vita che ha determinato a più riprese la propria crescita umana e professionale. Nata come grafica e vignettista pubblicitaria, l'artista è passata presto alla realizzazione di opere su tela ispirate alle letture e ai molti viaggi.

    … La Shaw incanta narrando che nel suo loft di Soho le tele enormi sono sparse ovunque e per questo onnipresenti nella quotidianità dell'artista...

    L’insight dell’arte, per la newyorkese di stanza a Manhattan, consiste nell'appendere le tele ancora vergini nello studio e lasciare che estro, creatività, spirito del momento legati a sensazioni e stati d’animo delinino i tratti degli arazzi. Quando l'immagine appare, continua l’art maker, lei pone le stoffe in terra spargendo i colori su di esse, lasciando molto al caso e solo alla fine consulta il testo di calligrafia cinese per aggiungere ideogrammi e dettagli meno casuali.

    Suggerimento a mantener di base la ragione, lasciandosi però inebriare dal sentimento...

    L’essenza sfaccettata del quid trapela nel think-tank di questa intellettuale dell’arte: spesso nei suoi lavori sono presenti materiali agli antipodi come lamine d'oro, sabbie, rafia, petali. L'unione tra materie delicate e sostanze minerali più pesanti rende bene la ricerca stilistica riconducibile alla convivenza tra gli opposti.

    Il talk della Shaw decolla quando afferma che i lavori creati su tela appositamente per l’exhibition alla Artrom gallery, s’ispirano a quattro Koan sui quali ha meditato.

    Questo termine indica lo strumento di una pratica meditativa giapponese consistente in affermazioni o racconti paradossali usati per orientare la meditazione, risvegliare consapevolezza dell’io, favorire l'incontro in cui si rivela la natura ultima della realtà.

    Su queste note ascetiche i-Italy ha chiesto a Denise Shaw un’intervista che l’art maker ha gentilmente concesso.

    La koan art si forgia più di spiritualismo e meditazione o intuizione, insight ed esperienze non razionali? Quale aspetto prevale?

    Intuizione, insight e pensiero non-lineare orientano la mia vita e il mio lavoro.

    Abbraccio molte tradizioni ma non le sottoscrivo...

    Ho 25 anni di yoga alle spalle, pratica che sviluppa un approccio olistico alla vita: dà responsi attraverso i sensi, la mente, la sfera emozionale. Tutto ciò mi ha resa più ricettiva verso le realtà del mondo, più aperta nel cogliere le verità dei messaggi, per me i koan costituiscono una parabola d’insegnamenti che provoca pensieri e immagini visive...

    Nei miei viaggi in Asia sono entrata in contatto con antiche pietre buddiste in interstizi di montagne, piccoli reliquiari nei villaggi più remoti. Il Buddismo è una pratica mentale e psicologica che abilita ad estrapolare guide spirituali dall’intimo di ognuno con il pensiero illuminato.

    Il cubista Georges Braques sosteneva: "L’Arte è una ferita che diventa Luce"...  

    Per come la vedo i koan risolvono una situazione complessa tramutandola in qualcosa di valore...

    In "The Necklace of songs" i tuoi arazzi dipingono scenari. Denise, la tua arte riflette realtà o ti senti un interprete degli ambiti circostanti?

    Con The Necklace of Songs traspare l’approccio da occidentale, una mia personale interpretazione delle sculture del tempio a Khajuraho, nel distretto del Chhatarpur di Madhya Pradesh in India dove le sculture millenarie sono figure in ecstasy danzante, amano umani e animali, venerano le forze della natura, atti finalizzati alla ricongiunzione con il Divino.

    Ho usato la painting out, tecnica in cui si crea lo strato sottostante, lasciando spazio a caratteri di poemi e immagini circostanti. Il tutto crea memoria e fa emergere significati in superficie.

    Hai viaggiato toccando culture molto differenti attraverso India, Cina, Nord Africa, Scandinavia, Europa, le Americhe, Antartico e Artico. Chi o cosa è protagonista nella tua arte? Quale è elemento più importante dal quale prendi ispirazione?

    Quando viaggio sono consapevole del disegno, naturale o fatto dall’uomo, in luoghi, paesi e città.

    L’ultima esperienza del genere? L’ho avuta proprio mentre stavo visitando la città Eterna e osservavo sul marciapiede dei vasi fatti di rame. Al mio ritorno a New York ho creato Goodbye, hello Roma, usando un leitmotif che riproducesse l’aspetto delle caratteriche strutture. E’ entusiasmante sperimentare l’arte antica romana ancora attuale.

    In "The Necklace of songs" la tua arte decodifica frammenti di Cività.Tu vivi e lavori a New York. Realtà a tinte forti e ritmi frenetici della City condizionano la dimensione etnica delle tue opere? Le tue tele sono uno specchio della società statunitense?

    Tutti i miei quadri sono creati attraverso esperienze psicologiche, emozionali e intellectually- curious intrise dalle mie origini: sono nata negli Stati Uniti come le generazioni che mi hanno preceduto, genitori, nonni e parenti vari... Ma quando la gente mi interroga sulla mia provenienza, se mi chiede di dove sono e da dove vengo, rispondo: "Io non sono americana, io sono una New Yorker". C’è una grande differenza...

    I miei vicini di casa dirimpettai sono israeliani e britannici, gli inquilini del piano di sotto indiani, mio marito è norvegese. La mia indole, le mie idee politiche non sono locali, ma globali...   New York City è un melting pot di etnie, culture, lifestyle from around the world. Un autentico state of mind in cui la dimensione società risponde alla filosofia del “being connected together”...

    La media degli americani non ha e tantomeno aspira ad avere questo open minded abroad. Così amo definire le mie opere non un riflesso dell’American life, del born in Usa ma del Manhattan transfer.

    New York è caleidoscopica, eclettica e l'artista s'arricchisce, cresce del fascino multietnico. Ci sono aspetti della realtà di vita newyorkesi da cui prendi spunto per la sua arte? Cosa ti ispira della Grande Mela? Quali sono gli effetti sulla tua arte?

    Io vivo una vita full of culture. Arricchita di letteratura, film, teatri, impreziosita dalla frequenza nella Society, visite ai musei, a contatto con sfaccettate diversità culturali, viaggio, intervengo a meeting e reading. Tutto questo dall’esterno si riversa in me, plasma il mio essere e trova espressione nel mio lavoro.

    La città in sè poi fa il resto: New York è frenesia d'attività, circuito d'emozioni, sentimenti in divenire. L’esistenza nella City è energia adrenalinica. E' un flusso di alchimie artistiche. Poliedricità di scambi relazionali. Questa è la forza trascinante che trasmette: vivere in un mondo globale per me è la sola way of life.

    Noi tutti siamo inter-connessi e legati dagli stessi frammenti, differenziati solo dalle sfumature culturali.

    Tu hai già esposto a Roma nel 2009 e una delle tue tele è su Pompei. Che differenze/somiglianze ci sono tra l'arte moderna italiana e quella americana?

    La tela su Pompei è un omaggio alla città. Per me in Italia, ogni superficie, sia essa muro, dipinto o affresco è sinonimo di storia e antichità. Conosco l’arte moderna italiana ed i periodi con i quali ho più familiarità sono il Futurismo e il Dinamismo. In particolare apprezzo i lavori poetici a colori ad acqua del contemporaneo artista partenopeo Francesco Clemente che ha ispirato alcune mie tele figurative. Stimo Clemente oltre che come professionista affermato nella scena newyorkese, anche sotto il profilo umano perchè non teme l’impegno personale e politico.

    Sulla mia stessa linea d’onda c’è lo stile di Jasper Johns, eletto Accademico d'Onore dell'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. La mia affinità con l’arte contemporanea va oltre l’Europa si estende fino al South Africa, con William Kentridge and Marlene Dumas, testimoni dell’apartheid, intrerpreti degli orrendi effetti di questa piaga socio-culturale.

    Truth and reconciliation have been confronted and somewhat transformed or at least considered. I think the role of contemporary or modern art is to encourage this expression, the personal and political, the internal and external global conflicts.

    Dai disegni delle nuance più ricercate, alle tele dai toni cromatici più elaborati, costellati da caratteri, scritti e simboli, immagini umane, animali e piante alle applicationi su tele, legno, carta, impreziositi con scaglie di pietra pomice, sabbia and foglie di metalli, fino ai disegni di Italo Calvino. Quali aspetti hanno catturato la tua attenzione? Che impressioni ti hanno suscitato?

    Italo Calvino dipinge con le parole. Le sue percezioni sono particolari e stupefacenti. Generano tensione tra gli opposti, sia sul versante fisico che simbolico. Questo mood è simile al point of view della mia esperienza artistica: nelle opere uso materiali di natura dissimile, scelgo stili agli antipodi, suscito effetti contrastanti. Ed è anche la mia attitude towards life a New York City...

    Calvino scrive di bellezza urbana e descrive la violenza dilagante.

    In Città Invisibili, lo scrittore libera il proprio stream of consciousness: "L’inferno dell’esistenza non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Per Calvino fin d’ora invade la nostra quotidianità, rovina gli attimi di ogni giorno, vanifica l’inter-connected e guasta il keep in touch.

    Esistano due vie di scampo: la più facile accettare il ricatto dell’inferno sociale, diventare parte di questa realtà distorta, compromessa dalle ingiustizie che, di sicuro, non condurrà a nulla; la più complessa ripudia la collusione con il sottobosco malavitoso, punta al rischio, l’apprensione costante, cercare e riconoscere chi e cosa fa parte o è estraneo alla dark life e portare al cambiamento.

  • Facts & Stories

    The Italy-America Chamber of Commerce Celebrates 125 Years with the Minister for Foreign Affairs

    ITALIAN VERSION >>>

    The meeting held at the Farnesina - the headquarters of Italy's Ministry of Foreign Affairs - was a reunion of sorts for the Minister and former Ambassador to Washington, who is very familiar with the Italian and Italian-American communities in the United States and who met with the Italy-America Chamber of Commerce on several occasions during his tenure in the United States. Welcoming the delegation of entrepreneurs and tycoons from the leading chamber of commerce overseas, Minister Terzi di Sant’Agata underscored three main points: enhancing interest in the Italian language and culture; expanding business and entrepreneurship; and supporting development and investments.

    He suggested strategies for reviving the economies and trade between the two countries. The Minister reiterated the importance of supporting projects focused on cultural growth and the diffusion of Italian language with initiatives related to entrepreneurship, high-level trade, and business.

 Speaking about the work of the Italy-America Chamber of Commerce, he praised its achievements and emphasized that in periods of economic crisis it is beneficial to continue to focus on tools for growth, investment, and innovation.

 The minister was blunt: international competition is “plentiful and varied” and the United States are increasingly open to Asia and Africa in new areas such as new technology, computer science, engineering. “We must therefore never lower our guard and never loosen our grip,” he urged.  

After the delegation’s applause, Claudio Bozzo took the podium.

    The youngest president ever of the Chamber expressed his gratitude for Minister Terzi di Sant’Agata’s compliments and fondly recalled President Giorgio Napolitano’s visit last year to New York. 

Bozzo admitted the difficulties and challenges increasingly faced by the Chamber because of the economic crisis. It has, however, diligently worked to ensure that its associates remain the best in their fields, serving the interests of the Italian and American business community. 

President Bozzo had one request for the Minister: to continue to believe in, invest, and support the Italy-America Chamber of Commerce, which is proud to be celebrating its 125th anniversary.

 At the end he rose to reveal something that gradually appeared under the gaze of those present. It was a gift to the Minister, a little luminous statue in bronze. It looked like the gift was a virtual “pact,” a mutual exchange of goals between the Minister and the delegation. Terzi di Sant’Agata in turn rose to shake hands with Bozzo, demonstrating his  respect and esteem.

    Sincere feelings of warmth and familiarity permeated the event and enveloped the delegation which, as the Minister reminded us, was made of close and personal friends. 

With a firm handshake and an appreciative glance to all those present, we were left with the sense that the man who heads the Farnesina, who is a “technician” rather than a politician, has nevertheless superior interpersonal skills.



    Before ending the evening, we glimpsed at the shining bronze statue and despite its diminutive size, we were assured by Cav. Vincenzo Marra (President of ILICA) that it “weighs over five kilograms,” and was sculpted by master artist Alessandro Marrone, from Arezzo in Tuscany. The contours, defined in detail, reflect the characteristic apple, the quintessential symbol of New York City, over which the Freedom Towers soar. 



    The work can be eloquently explained in this way: from the ashes of tragedy rises the promise of tomorrow. This is also a metaphor for the 125th anniversary of the Chamber of Commerce: letting go of past successes and victories in favor of renewal from within, embarking on new challenges and focusing on business success.

  • Fatti e Storie

    L'Italy-America Chamber of Commerce dal Ministro Degli Esteri

    ENGLISH VERSION >>>

    La delegazione della Camera di Commercio Italo-Americana celebra anche nel Belpaese l’illustre anniversario della sua fondazione. L’evento è occasione di un tour nella Capitale tra i vertici delle istituzioni ed in primis l’incontro con il Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata.

    Inutile dire che nelle sale del palazzo della Farnesina si è trattato di un rivedersi per entrambi. L'ex Ambasciatore a Washington
    infatti conosce molto bene la realtà italiana ed italo-americana negli Stati Uniti e la Camera di Commercio Italo-Americana lo ha già incontrato in diverse occasioni sul territorio statunitense.

    Potenziare l’interesse per la lingua and cultura italiana. Puntare sul business nell’imprenditoria. Scommettere su sviluppi e investimenti futuri.

    Con questi tre “imput” il ministro degli Affari Esteri ha accolto l’8 maggio, alla Farnesina, imprenditori e tycoon della Italy-America Chamber of Commerce di New York, il top della camera di commercio d’oltreoceano. Giulio Terzi di Sant’Agata ha in quest'occasione suggerito strategie e chance per rilanciare l’economia e scambi tra i due Paesi.

    Il ministro ha ribadito l’importanza di supportare progetti di crescita culturale e della diffusione della lingua italiana con iniziative a 360° correlate ad  imprenditoria, alto commercio e business.

    Terzi è entrato allora nello specifico dell’operato della Camera Italo-Americana, lodandola per i livelli raggiunti, affermando che è bene continuare in un momento di crisi come questo a puntare  su strumenti di crescita, investimenti, innovazioni per incrementare l’import-export.

    Il ministro è stato schietto: la concorrenza è “molta e variegata” perchè il mercato dell’estero, da sempre in pole position sul commercio e l’imprenditoria con gli States, ora più che mai si sta aprendo all’Asia, all’Africa su nuove sfere come le new technology, l’informatica, ingegneria... E’ dunque necessario non abbassare mai la guardia, non mollare mai la presa.

    Tra gli applausi della delegazione, la parola  è passata  a Claudio Bozzo. Al più giovane presidente che la Camera Italo-americana abbia avuto brillano gli occhi quando esprime tutta la propria soddisfazione per i complimenti ricevuti dal ministro e ricorda la visita dello scorso anno a New York del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

    Claudio Bozzo ha ammesso le difficoltà sostenute nel corso delle varie sfide,  sempre affrontate con i colleghi col massimo dello sprint per garantire il meglio nel proprio settore.  Ha con convinzione rilanciato il desiderio di continuare da impegnarsi per offrire sempre il massimo alla comunità italo-americana ed americana  e, in particolare, agli imprenditori di cui si onora di essere a capo.

    Il presidente ha fatto una sola richiesta ferma al Ministro: quella di continuare a credere, investire e supportare la Italy-America Chamber of Commerce, per celebrare altrettanti 125 anniversari all’insegna della prosperità di quella che anche negli States è ormai un’istituzione consolidata.

    Claudio Bozzo alla fine si  è alzato per scartare qualcosa che è apparso a poco a poco sotto lo sguardo dei presenti. Era un omaggio per il Ministro. Una luminosa statua. L’impressione che abbiamo catturato è che il dono sia un “patto” virtuale, uno scambio reciproco di obiettivi che coincidono in pieno tra la delegazione e il ministro,

    Terzi di Sant’Agata si è alzato a sua volta per stringere la mano a Bozzo, dimostrando scambio di stima e affetto. Sentimenti che hanno abbracciato tutta la delegazione presente, vista la familiarità, il calore col quale il Ministro ne ha ricordato la composizione fatta di “all friends and close friends”.

    Stretta di mano ferma e sguardo fisso riservati per tutti, hanno lasciato la sensazione che il responsabile della Farnesina sia un “tecnico” - come in gergo vengono definiti i componenti dell’attuale governo -  con superbe capacità di condivisione, contatto umano ed esperienziale.  

    Prima di andar via diamo uno sguardo fugace alla statua: è di bronzo, materiale che la impreziosisce regalandole shining ad effetto, è di dimensioni contenute ma, ci ha sussurrato il Cavaliere Vincenzo Marra (Presidente di ILICA), “pesa ben 5 kilogrammi”, ed è stata realizzata dal maestro aretino Alessandro Marrone. I contorni, definiti al dettaglio, lasciano intravedere la caratteristica mela, simbolo autentico della Big Apple, che esplode e dalla quale spunta la Tower of Liberty.

    La spiegazione dell’opera stessa è fin troppo eloquente: dalle ceneri di tempi trascorsi scaturiscono le scommesse del futuro. Metafora dei 125 anni della Chamber of Commerce: lasciarsi alle spalle il passato di successi e vittorie per rinnovarsi dall’interno, lanciarsi in sfide nuove, puntare su business ad maiora.

  •   Caparezza  

    Primo Maggio. Speranza, passione, futuro in musica

    Grande musica, partecipazione politica, slogan in difesa dell’articolo 18, questo ha animato lo spiazzo gremito dove si è scandita con un’intensità palpabile la voglia forte di farcela in un’Italia che arranca ma non abbassa mai la china, la necessità vibrante di sconfiggere lo spettro delle morti sul lavoro, il desiderio vivo di trovare un impiego, urlato, gridato a più riprese dalla platea...
     

    Nel pomeriggio si sono esibiti i gruppi e gli artisti più giovani, tra i quali ha spiccato il reggae della tarantina Mamamarjas, l'inno di Mameli e la "Bella ciao" della P-Funking band, il dub e il rap dei napoletani A67 con il loro tributo a De André su "Don Rafaè". Bello anche il set raggamuffin dei salentini Sud Sound System. Toccante il ricordo di Lucio Dalla da parte dei conduttori Virginia Raffaele e Pierfrancesco Pannofino, che ha letto il testo di "Henna" e il Teatro degli Orrori con l’omaggio all’amore partigiano con la loro “Compagna Teresa” e “La canzone di Tom” sulle morte bianche che per la rock band “sono uno scandalo che non grida vendetta, ma giustizia”.
    Campeggiano bandiere al vento, striscioni alzati, manifesti ben in vista tra la folla...
    Alle note s’accompagna il blitz dei lavoratori dello spettacolo che s’arrampicano su un traliccio issando il fin troppo eloquente “The show must go off”...

    Il rock in chiave sinfonica ha conquistato nella prima serata i 500mila riuniti a San Giovanni prima grazie alla partitura scritta da George Martin per il film di animazione "Yellow Submarine" dei Beatles, qui nella direzione di Vittorio Cosma, poi grazie alla sequenza dei dieci brani storici del rock scelti da un direttore d'eccezione, l'ex Pfm Mauro Pagani, interpretati da alcune delle più belle voci della musica italiana: tra le più riuscite, "Kashmir" dei Led Zeppelin cantata da Raiz, "Jumping Jack Flash" dei Rolling Stones interpretata da Elisa e "Heroes" di David Bowie per la voce di Samuel dei Subsonica.

    La musica è al centro dell’evento organizzato dai sindacati confederali, Cigl, Cisl e Uil: lo spettacolo è commozione pura con il minuto di silenzio in ricordo delle vittime sui luoghi di lavoro,"1400 morti l'anno, una Repubblica fondata sulla morte", recitava uno degli striscioni esposti nella piazza, accanto a momenti di grande partecipazione politica, come per gli appelli a non modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, "l'articolo 18 non si tocca" hanno urlato i napoletani A67.

    E poi la kermesse è proseguita, trascinante, con Caparezza che si è dimostrato ancora una volta uno dei più interessanti performer del rep italiano: esilarante la scena che ha introdotto il brano "La fine di Gaia" in cui il rapper salentino, ironizzando sulla fine del mondo prevista per il 2012 dai Maya, ha invocato la divinità "Equitalak", assonante con Equitalia, inginocchiandosi di fronte ad un totem: "Ci sono terremoti sociali, fiumi di esodati, Equitalak, ti preghiamo, non estinguere noi, estingui i nostri debiti".

    Il pensiero di Caparezza vola agli operai di Melfi, agli operatori delle ferrovie asserragliati sui tralicci a Milano perchè licenziati dai treni cuccetta, con i quali “ci accomuna la stessa luna”... e finisce col paragonare la piazza del Concertone dedicato al lavoro a una virtuale allargata a tutta Italia, in comunione con i tanti giovani provenienti nella Capitale da molte città: "Quanti sono i pugliesi? Quanti i napoletani, siciliani, calabresi? Alzate le mani" chiede dal palco il cantautore e si scopre che la fame di musica e di festa qui è rappresentata soprattutto dai ragazzi del centro sud.

    L’abbraccio del pubblico è per la performance del grande Mauro Pagani che si è esibito cantando e suonando “Purple Haze” di Jimi Hendrix e lo sforzo del maestro nel triplice ruolo di arrangiatore, musicista e direttore d’orchestra per riportare al centro del Concertone la buona musica, quella tradizione condivisa, per dirla con le sue parole, "che rappresenta ormai il nuovo stile classico scegliendo 10 brani che potessero esser ancor più impreziositi dalla presenza dell’orchestra".

    "La musica del desiderio: la speranza, la passione, il futuro", recitava lo slogan scelto dagli organizzatori. E proprio al futuro delle giovani generazioni sono state dedicate le dichiarazioni dei tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil sul Concertone: "Bisognerebbe permettere ai giovani di mettere a frutto le loro potenzialità, le nuove generazioni sono le più preparate che l'Italia abbia mai avuto" ha detto il segretario Cgil, Susanna Camusso, "e questo Governo dovrebbe cambiare spartito rispetto alle politiche che ha messo in campo, innanzitutto mettendo fine alla politica dei tagli e poi cominciando ad abbassare le tasse sul lavoro". "Il lavoro per un giovane è fondamentale" ha detto il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, "solo così può realizzarsi a pieno la sua personalità e si possono sviluppare le sue capacità. Finiamola con l'idea di affidarci alle singole persone, bisogna mettere in campo un moto di popolo per far uscire il paese dalla crisi".

    Appuntamento al prossimo anno Concertone con la speranza che a San Giovanni si possa celebrare livelli di occupazione maggiori, standard lavorativi all’insegna della sicurezza e rivalutare le competenze di ognuno...

  • Arte e Cultura

    Steve McCurry, l'Italia e l'Oriente. Viaggio tra intensità di volti e pathos della natura

    Ci sono i manifesti strappati da un muro di Venezia e i set deserti di Cinecittà, le processioni del venerdì santo in Sicilia e il mercato bric-à-brac di Porta Portese di Roma. I colori sontuosi, la perfezione dell'inquadratura, i dettagli virtuosi, rimangono gli stessi di sempre, ma spicca un nuovo orizzonte paesaggistico, una nuova umanità, nella mostra antologica di Steve McCurry che fino al 30 aprile invade gli spazi de La Pelanda al MacroTestaccio.

     

    Tra i più grandi fotografi viventi, americano di Philadelphia, classe '50, firma di punta di riviste prestigiose come National Geographic, Time, Life, è inviato da trent'anni a documentare l'universo Oriente, tra fronti di guerre, povertà, misticismi e natura, autore gli scatti autentici andirivieni di cartoline da Beirut alla Cambogia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia, all’Afganistan.

    i-Italy si immerge in questo mare magnum di 200 istantanee dove McCurry sfoggia i lavori più recenti, dal 2009 al 2011, tra buddhismo, Cuba, Birmania, fino all'Italia.

    Si susseguono i volti di cui il fotoreporter è un autentico cultore, di uomini che fissano la camera il cui sguardo va ben oltre l’obbiettivo, donne il cui guizzo negli occhi parla da solo, bambini che sprizzano fulgore. Ognuno con la propria intensità, con un’espressività a sè dipinta sul volto, emanano emozioni di storie vissute da cui traspare un’aurea che fa brillare le esistenze.
     

    Dall’India al Myanmar, dalla Thailandia al Vietnam, passando per Cuba e Messico, ci si perde in questa Umanità che attraversa l’intero globo, è così eterogenea da sembrare agli antipodi, una caleidoscopica girandola di razze che McCurry fonde insieme dando vita ad unmelting pot senza nazionalità, unico...

    Ci muoviamo tra “igloo”: le strutture in ferro accolgono le opere, in questi “trulli” i Popoli trovano casa, e si snoda il viaggio nomade dell'Umanità.
     

    Pescatori equilibristi in bilico su trampoli inclinati, bambini che si tuffano nelle acque, donne intente a lavorare...
    Le istantanee fotografano un lifestyle scandito da istanti unici, incorniciano azioni che trasudano la cultura del posto, in cui gli scatti ci proiettano in scorci di società a tinte psichedeliche, figlie di antropologie multiformi...
     

    i-Italy continua l’iter nel tempo e nello spazio indicato da McCurry “a contatto” con la natura estrema.

    Lungo l’allestimento high-tech si dipanano scatti di matrone africane che sfidano tempeste di sabbia nel deserto, inondazioni che sotterrano terre sconfinate, earthquakes che sconquassano aree incontaminate.

    La strength of nature per McCurry ha il volto della paura, ma non del dramma negli occhi dei superstiti perchè è imputabile alla furia di catastrofi ambientali, non alla follia umana...

    Dalla virulenza “innocente” della natura alla violenza nefasta, perchè intenzionale, dell’uomo il passo è breve: il fotoreporter è in prima linea dei conflitti sparsi in tutto il mondo.
    Bambini soldato maneggiano pistole, adolescenti militanti in eserciti imbracciano kalashnikov, uomini privi di arti a causa di esplosioni,  l’11 Settembre...

    McCurry è e ci rende testimoni di sofferenze e strazi: bucano l’obbiettivo gli scatti di vite violate da eccidi dimenticati, il dramma dell’infanzia sottratta dai signori della guerra, le macerie del cimitero a cielo aperto nel crollo delle Twin Towers.

    Le istantanee parlano da sè, immortalano realtà di violenza su più fronti, scandiscono il linguaggio del fotoreporter per far riflettere le coscienze d’ognuno...

    Lungo questa altalena di genti, luoghi e pathos spiccano anche camei d’italianità che dal Veneto alla Sicilia sono un omaggio, frutto di sei mesi di perlustrazioni, al Belpaese in occasione dei 150 anni dell’Unità.

    Spiccano i simboli della religiosità con monasteri reatini, chiese e processioni siciliane, ma anche i simboli del passato con statue latine, scorci di viuzze antiche, cittadine gioiello, autentiche chicche agli occhi di reporter, impreziosite da volti di giovani innamorati, il mercato di Porta Portese a Roma, i landscape Capitolini...

    Per soddisfare le curiosità di lettori parliamo di queste e di altre peculiarità del McCurry’s style con Fabio Novembre, architetto allestitore dell’exhibition.

    Lei ha curato la mostra a 360 gradi. Che cosa aggiunge un allestimento ad "igloo" high tech nei quali si snoda l'esposizione rispetto a uno ordinario, lineare? Spicca di più il senso dinamico degli eventi?

    Scegliere una cupola sfaccettata come modulo espositivo non è di certo una consuetudine...

    La scelta si riferisce ad un valido presupposto teorico: mentre la nostra idea di casa assomiglia sempre più ad “arroganti” dichiarazioni di potere ben salde sulla terra che occupano, a manifesti di felicità individuale che non contemplano alcuna ricaduta collettiva, le case nelle foto di Steve sono precarie, come le vite di chi le abita, simili a strutture cellulari labili.

    Ed è esattamente questa suggestione che ho cercato di riportare all'interno dei grandi spazi del Macro, un allestimento come un villaggio nomade, strutture che si compenetrano per restituire quel senso di solidarietà che si respira negli scatti di McCurry.

    Questa scelta progettuale ha invertito i ruoli: il visitatore entra per guardare le foto ma finisce per essere guardato da esse, scrutato da ogni direzione.

    I frammenti delle esistenze, le scene di vita, la natura che si scatena, non si differenziano per "nazionalità", ma per argomenti delle immagini, come a voler suggerire che ogni igloo è “a tema” comune a popoli diversi...

    Il criterio espositivo non tiene conto di variabili spazio-temporali ma lavora sull'assonanza dei soggetti, sugli imprevisti gradi di parentela che riflettono il senso di umanità a immagini scattate nei luoghi più disparati. Sono come dei corto-circuiti visivi che innescano collegamenti semantici.

    Nelle istantanee c'è un confronto continuo, un autentico andirivieni, del binomio umanità-natura, dal quale scaturiscono altri temi che stanno a cuore a McCurry, la guerra, la sofferenza, l'infanzia violata dei bambini soldato. Nello stile di questo guru dello scatto prevalgono più i colori sgargianti della Nature of the World o l'intensità dei volti?

    C'è la vita e c'è la morte nelle istantanee di Steve e tutto ciò che intercorre nel breve o lungo percorso che le unisce... perchè l’iter del viaggio, la scoperta e la vita sono il senso stesso di questa exhibition...

    Rimaniamo sull'Umanità. Tutti i fotografi hanno uno scatto simbolo. Quello di McCurry è lo sguardo della ragazza afgana dell'84 rifotografata di recente, in via del tutto eccezionale perchè leggi ed usanze locali non lo consentirebbero.

    Quanto la fotografia di McCurry, anche rispetto agli scatti di conflitti, carestie, bambini con pistole e kalashnikov, è arte e quanto denuncia delle condizioni di vita di  un'umanità sofferente?

    L'arte è denuncia in toto. "Nomadi per scelta, pionieri per necessità", quando penso a Steve McCurry, alla sua vita da instancabile ricercatore della natura umana, mi viene in mente questo aforisma... I soggetti delle sue foto sono la realtà nascosta dietro quella comunicazione patinata che pensa di rappresentare l'umanità: il fotoreporter ci fornisce testimonianze visive per confrontarci con la diversità. Steve ha tutte le caratteristiche del ricercatore puro: dalla pazienza che ci vuole per scattare una foto, all'inquietudine che lo spinge sempre verso una nuova frontiera da varcare...

    Il sottofondo musicale non è certo lasciato al caso, ci racconta come lo avete scelto...

    Il genere somiglia molto agli scatti, stili diversi di melodie si alternano di continuo...

    Ho effettivamente cercato di ricreare il suondtrack che accompagna la vita di Steve. La colonna sonora della mostra è in realtà un mix di varie radio dei paesi che Steve ha esplorato in questi anni, dall'Iran al Libano, dal Brasile all'India. L'ultima stanza è invece caratterizzata da "Lascia ch'io pianga" di Handel interpretata da Farinelli. Dopo il percorso che si sviluppa dalla vita alla morte, un'aria come questa penso sia adatta a comunicare un senso di resurrezione, usato a supporto dei segni di speranza che trapelano dalle ultime immagini.

    Vari scatti negli igloo si riferiscono all'Italia. Che rapporto ha McCurry con l'Italianità, quali sono gli scorci che lo hanno interessato di più? Come un fotoreporter americano si rapporta con la storia del Belpaese che festeggia i 150 dell'Unità?

    Steve adora l'Italia, che ha voluto omaggiare con molte istantanee per l’Unità, celebrando il momento importante, e l'Italia adora questo fotografo. Del resto è l'unico autore contemporaneo le cui mostre fanno gli ingressi di grandi artisti del passato quali Picasso o Dalì. Parliamo infatti di più di 100mila visitatori sia a Milano che a Roma, numeri da popstar dell'arte.

     
     

  • Arte e Cultura

    “The American Dream”. In Tour fotografico con Bruno Tamiozzo

    E’ in un assolato pomeriggio d’Agosto che incontriamo Bruno Tamiozzo,   talentuoso fotografo di Latina dai 1000 interessi. Abbiamo appuntamento al BTpress Photostudio, laboratorio fotografico di Bruno, dove lui ci accoglie cordialmente.

    Una gigantografia della Lady Liberty in bianco e nero campeggia all’ingresso.

    Ci accomodiamo. Inizia il viaggio di i-italy a cavallo di foto e memorie.

    Bruno cresce con l’arte dello scatto negli occhi: la passione lo porta a Roma, all’Accademia di Belle Arti e poi, sempre nella città eterna, lo indirizza anche all’attività di fotoreporter presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata. Nel frattempo la carriera è costellata da attività di freelance con quotidiani nazionali come “Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Gazzetta dello Sport”.

    Talento, intuito per cogliere l’attimo e voglia di mettersi in gioco si rivelano carte vincenti, fioccano collaborazioni importanti con riviste di settore. Bruno è all’Olimpo del “National Geographic”. Da qui decolla la passione per la fotografia di viaggio. E’ del 2004 il suo primo lavoro di reportage intitolato “Il Marocco e la sua gente”. Nel 2005 realizza “Bizerta-Tunisia”. Nel 2007 il fotoreporter si distingue ancora con la personale intitolata “L'Africa del Nord”.

    Il 2009 è l’anno in cui il fotografo raggiunge la meta sognata, l’itinerario tracciato con cura, il viaggio programmato da tanto. E che tanto si porta dietro. Quello targato U.S.A.

    Bruno lo racconta tutto d’un soffio…

    E’ un tour in solitaria, quello intrapreso lo scorso Settembre, durato circa due mesi, a bordo della “Greyhound”, mitica bus company che raggiunge ogni angolo delle regioni Americane.
    Il fotografo ne decide le tappe. A guidarlo l’atmosphere dei luoghi…

    Il peregrinare di questo nomade d’oltreoceano si snoda per 9000 km attraverso 15 American States. Da New York, passa Washington, Philadelphia, Nashville, Memphis, New Orleans, Kansas City, Houston, Denver, Roswell. Il fotoreporter visita up e downtown brulicanti sparse per quest’immenso continente, grande almeno quanto i sogni che trasmette...

    E’ un mix di curiosità, esterofilia e American Passion che conduce Bruno, moderno Ulisse, a realizzare un viaggio fatto di ricerche per contatti professionali, scoprire realtà altre, comprendere meglio se stessi. E narrare la propria avventura col power photos.

    Basta uno sguardo allo studio per accorgersi che è un tripudio di scorci statunitensi…
    Ogni parete è costellata da istantanee in una meravigliosa sequenza di immagini in bianco/nero.

    Quartieri che cambiano volto ad ogni angolo. Metropoli, come perle uniche e rare con vita a sé. Ogni stato è una realtà caleidoscopica di esistenze…

    Per Bruno ogni scatto è un ricordo, una suggestione, una sensazione a pelle…

    Flash di taxi newyorkesi in corsa… Scorci febbrili di Times Square… Spaccati mozzafiato di Manhattan dall’alto…

    Luci, colori, suoni. Luoghi dell’esistenza a tinte forti. Schegge di vita pregne d’identità multietnica. New York City è atmosfera in sé. E’ di scena l’anima vibrante della Big Apple che non dorme mai.

    Passeggiamo tra gli scatti. L’impressione che ne abbiamo è di un “ombelico del mondo” in chiaro/scuro.

    Due innamorati in procinto di baciarsi con Washington alle spalle, un poliziotto “in posa” a Philadelphia, un truck driver diretto a Memphis scruta un profilo di Elvis …

    Sguardi, emozioni, frammenti di vite catturati in luoghi remoti e liberati altrove …

    Questo American tour si snoda in un itinerario in cui l’osservatore si ritrova. Riconosciamo vie, indichiamo posti, come realtà già viste, conosciute. Per questo condivise. Il viaggio è excursus di volti ed esperienze umane il cui mosaico si scompone e ricompone di continuo…

    Nasce così “The American Dream”, reportage in cui Bruno Tamiozzo immortala tutto ciò che cuore e animo gli suggeriscono,restituendo immagini di un grande Paese in cui sogni, speranze, desideri di riscatto sociale s’intrecciano con ordinarie difficoltà.

    Gli States per Bruno non sono solo passione per l’American life style. Il viaggio è anche occasione di crescita professionale: ereditandone un enorme bagaglio culturale, il fotografo pontino affina il suo stile.

    Con un colpo d’occhio si coglie la peculiarità ad effetto del reportage. In “The American Dream” non ci sono colori, ma andirivieni di chiaro scuro. Il fotoreporter ritrae l’americanità in bianco e nero.

    Il motivo? Tecnico, a primo impatto. Bruno definisce la sua una “scelta stilistica”. Neon abbaglianti, insegne a intermittenza, flash psichedelici sono fuorvianti.
    Per il fotografo l’invadenza dei simboli targati USA disturba l’attenzione ai particolari. Proietta lo spettatore in un labirinto iridescente in cui può smarrirsi. Si rischia il caos visivo. Quasi una Babele frastornante…

    Risultato?Per Bruno gli scatti a colori mettono in luce solo la falsa essenza disordinata dell'American life style. Peggio, s’avrebbe l’impressione di una facciata patinata, quasi una vetrina plastica della città. Si perde l’anima autentica della City…

    Ecco allora Lady Liberty vestita di bianco e nero, la frenetica Chinatown di Philadelphia in tinte chiaro scuro, l’Abraham Lincoln Statue a Washington definita da giochi di ombre e luci...

    L’urban style del fotografo cristallizza la realtà, quasi una sospensione del tempo nello spazio.

    Quest’artista dello scatto ci svela il suo think tank: per Bruno l’effetto del bianco/nero e le panoramiche dall’alto non sono indice di scissione dalla vita metropolitana, ma, al contrario, simboleggiano il distacco dal “caos sociale” finalizzato a raggiungere l’intimità dei luoghi…

    Un coinvolgimento senza distrazioni, per assimilarne meglio la natura.

    Eppure, dietro le istantanee, traspare altro.
    Il professional style del fotografo si fonde con la personale visione dell’americanità. In “The American Dream” il fil blanc/noir s’intride di sentimento. E’ motivo di sguardo storico per l’artista.
    Ci inoltriamo nei vicoli di una Little Italy senza tempo, respiriamo ventate d’arte warholliana a Soho, giriamo fra le epoche dei vibranti Greenwich e East Village...

    Il fotografo guarda, con fare insolito, ad un’americanità “datata”.
    Gli scatti di Tamiozzo ci raccontano uno stile anni ’50 … Incorniciano una Manhattan life retrò … Scopriamo una New York d’altri tempi, lambita dal passato.

    Il fotografo parla di volti e spaccati urbani come “espressioni di realtà” che superano il tempo e lo spazio in cui si manifestano. Bruno Tamiozzo, come un moderno Upton Sinclair della fotografia, con il suo “The American Dream” indaga la complessa esperienza umana che il mitico scrittore d’inizio secolo ritrasse con “The Jungle”. Le istantanee del reportage si animano in una fitta giungla-foresta dove tutto è sospeso. Dove si arriva a percepire rumori e odori di luoghi e tempi che furono. Per Bruno sempre attuali.
    Così, sulla scena di ogni scatto, traspare l’anima delle megalopoli statunitensi.

    D’un tratto il nostro sguardo si posa sulle istantanee dell’11 Settembre. Bruno ci racconta che durante il soggiorno a New York ha fatto richiesta per un permesso speciale col quale entrare a Ground Zero. E l’ha ottenuto. Poliziotti del NYPD e capocantieri gli hanno concesso qualche scatto dall’interno della ferita che sconquassò the City, per la quale niente sarebbe più stato come prima.
    Il fotoreporter carpisce istantanee delle voragini ancor presenti nei cantieri, documenta la ricostruzione in atto, punta l’obiettivo su gru e macchinari al lavoro…

    The American Dream assume sfumature di un viaggio nel viaggio. Gli scatti ci riportano con la memoria agli attimi terribili degli attentati, al crollo delle Torri, alle vittime innocenti dell’unico, micidiale attacco al cuore degli States.

    Ecco gli scatti che rievocano la tragedia umana. Il dramma dell’umanità contro l’umanità.

    Bruno, da spettatore privilegiato, si aggira tra basi impiantate per edifici e costruzioni che iniziano a tirarsi su, è testimone di progetti che prendono forma, fissa con la sua Canon spirito e prestanza di uomini all’opera per affrettare i lavori…

    Il fotografo ci confida che l’esperienza, pur non essendo teatro di guerra, è all’apice della suggestione. Il cerchio su NYC si chiude con la tappa necessaria nel luogo simbolo della memoria-riscatto. Dove Pride of Big Apple risponde con impeto, slancio e afflato vitale. Il World Trade Center ormai è emblema della tenacia newyorkese.

    Con The American Dream siamo testimoni di una tragedia colma di poesia, dove il dolore viene trasfigurato dall’armonia delle immagini.

    A margine della nostro viaggio, i-italy ha chiesto a Bruno un’intervista che qualche giorno dopo, via mail ci ha regalato altre curiosità…
    Bruno che genere di fotografo ti definisci?
    Non amo identificarmi in un genere specifico…
    Esprimo il mio estro a seconda di ciò che percepisco, dei sentimenti del momento, delle passioni che vivo… L’arte dello scatto è multiforme per definizione…
    Se dovessi sceglierne uno, il genere in cui mi riconosco è senza dubbio quello della fotografia di viaggio. Il reportage on the road s’avvicina di più al mio carattere dinamico, versatile e poliedrico. Scattare durante le traversate significa aprirsi a scorci inusuali, volgere la mente allo spirito dei luoghi, anche la fatica dello spostamento in sé fa vivere l’ebbrezza del conoscere…
    Con la mia Canon racconto il mondo in uno scatto …
    La “mia” fotografia è quella in cui, con un flash, colgo espressioni di vita, apprendo svariate forme di comunicazione, in primis quella “umana”…
    I tuoi scatti scaturiscono dalla suggestione del momento o sono frutto di un percorso ideale? La fotografia è anche un “viaggio mentale”?
    Nel luogo in cui arrivo rimango anche ore, prima di realizzare un singolo scatto…per poi sbizzarrirmi tutt’insieme: l’arte fotografica non è mai pilotata, le mie foto sono istintive, nascono di getto…
    I Reportage però incorniciano una serie di scatti a tema, atti a raccontare profili umani o ambientali, “storie” per immagini. Così le istantanee diventano linee guida di un percorso mentale che via via prende forma nel fotografo. E che questi, di rimando, restituisce allo spettatore come mappa per orientarsi nell’itinerario visivo-introspettivo della storia…
    I miei scatti carpiscono l’attimo, sono puro istinto, si nutrono del caso. Ma non sono mai lasciati al caso. In me prende forma il plot che voglio proporre…

    Raccontaci dei 9.000 km percorsi attraverso gli States…visti con The American Dream
    Lo scorso Settembre ho comprato un biglietto aereo, aperto, senza vincoli di tempo. Non ho prenotato alberghi, mezzi per spostarmi…

    Sono partito per un viaggio… con me stesso…
    La mia prima tappa è stata New York, già conosciuta in altre occasioni, ma che dentro lascia sempre mix di brio, exciting e, per me, anche malinconia… Come traspare dal bianco nero di The American Dream.
    New York è stata la prima di una serie di tappe non programmate negli States.
    Alla Big Apple sono seguiti 9000 km di adrenalina a bordo dei Greyhound, storici American buses.
    Dallo stato di New York ho attraversato la Pennsylvania…
    Girato tutto il Sud Coast con West Virginia, Kentucky, Tennessee, Alabama, Mississippi, Arkansas, Louisiana…
    Ho raggiunto gli angoli più sperduti d’America passando per Texas, New Mexico, Arizona, tornando indietro per Utah, Colorado, Nebraska, Iowa, Illinois, Indiana, fino all’Ohio…
    Sono passato da cime innevate a deserti, da zone con laghi e fonti d’acqua a siti completamente aridi…
    A popolarli gente la cui disponibilità lascia senza parole… ogni persona incontrata s’è dimostrata cordiale nel dare informazioni, accogliente, persino ospitale. Una mentalità aperta, rispetto al nostro Paese, dalla cultura eccelsa, ma ancora diffidente verso le diversità…
    Con queste ricchezze negli occhi ho scattato The American Dream, reportage dai tratti irregolari in cuiimmagini diverse per paesaggi, culture, profili umani svelano realtà così eterogenee che si fatica a realizzare di essere nella stessa Nazione…

    Hai visto tanto di questa realtà caleidoscopica. Qual’è per te lo stato/città americano con le contraddizioni più accentuate?     

    New York City è fucina di contrasti…
    Una megalopoli di 9.000.000 di abitanti, la maggior parte dei quali di etnie completamente diverse, dà vita ad un melting pot impressionante. Da vere “umanità” cosmopolite, ognuna con usanze e tradizioni proprie, crogioli di razze, senza ledere le altre, riescono a convivere, spesso in perfetta armonia.
    Di New York mi ha colpito come in nessun altra metropoli l’essere così attuale e nello stesso tempo “retrò”…
    L’appellativo d’“antico” non le si addice, la sua storia non lo permette.
    E’ una città che sfoggia modernità, futurismo, ricerca… ma nasconde un cuore anni ’40.
    Da fotografo, quale scorcio di New York ti ha colpito di più?
    Non ci sono spaccati più o meno suggestivi… Tutti sono sfumature poliedriche nell’anima di questa città…
    Ogni strada ha un suo appeal. Ogni vista di New York ha il suo perché, soprattutto se la si vede con gli occhi di un fotoreporter. In ogni angolo va in scena un’umanità diversa.

    Il life-style che si respira, se assaporato con attenzione, parla, racconta, comunica a chi sa “ascoltare”.

    La prima volta nella Big Apple può forviare: si è colpiti da bagliori, ci si specchia tra i grattacieli e si pensa al sottobosco di vite fra questi giganti d’acciaio e vetro… che avrebbe potuto essere la nostra. Abbassato lo sguardo, l’impatto è ben diverso: ci si accorge della realtà brulicante che esiste sui marciapiedi, di quante “storie” si incrocino tra street e più grandi Avenue….
    La seduzione della Grande Mela arriva dall’alto degli skyscrepers, ma si vive dal basso dei pavements...

    Che differenze/somiglianze ci sono tra la fotografia europea e quella americana?
    I due stili hanno in comune il rigore lavorativo, ma cambiano gli scenari tra la fotografia di viaggio in Europa e negli Stati Uniti. E’ proprio la peculiarità dei territori a stelle e strisce a creare differenze. Gli artisti made in Usa sperimentano un senso di solitudine davanti a soggetti vasti e “vuoti”, come uno spaesamento di fronte all’enormità dei luoghi… Il fotografo europeo lavora in uno stato metafisico in cui regna una sensazione di tempo sospeso. Gli europei rappresentano il mondo recuperando lentezza dello sguardo. Gli italiani Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin, hanno reso celebre la fotografia del Belpaese nel mondo, ritraendo tradizioni popolari, usanze del passato, folklori antichi.
    Cogliere l’anima dei luoghi, intuirne l’essenza, proietta l’artista oltre la capacità percettiva del reale. Quasi a dire “più di questo non si può vedere…”

    Da William Klein a Steve McCurry… I fotoreporter sono uno status simbol della arte visiva contemporanea… C’è un fotografo statunitense al quale ti ispiri o nel quale ti ritrovi particolarmente?
    Domanda complicata… Ogni fotografo ha un suo bagaglio culturale, un percorso artistico a sé, e soprattutto una propria storia che permette di realizzare immagini a seconda di ciò che il cuore detta.
    C’è chi dice che la mia fotografia somigli molto allo stile di W. Eugene Smith, ma l’unico fotografo cui io voglia veramente somigliare è me stesso.
    La mia biblioteca fotografica è molto vasta. Mi piace osservare i grandi Maestri, carpirne segreti, ma non amo ispirarmi.
    Se qualcuno accostasse le mie immagini a quelle di altri artisti, ripartirei da capo nel mio modo di fotografare, perché vorrebbe dire che io abbia solo copiato nella mia professione… Che senso avrebbe realizzarsi attraverso altri?
    Nell’arte metto la mia originalità, il mio estro unico, me stesso. E’ proprio la diversità dello stile che caratterizza l’autore…
    Ti anima un’altra grande passione, la musica.Hai suonato anche a Chicago…
    E’ strano catapultarsi dall’ambito fotografico a quello musicale, universi diversi ma forse non troppo lontani...nel mio caso comunicanti.
    Canto e suono la chitarra fin da piccolo… La musica è un’altra mia grande passione, fonte inesauribile d’energia. Mi ha aiutato nei momenti difficili, ha forgiato il mio carattere e tutt’oggi scarica ogni forma di tensione, positiva o negativa che sia… Con Enzo Ferlazzo ho formato “I Soliti Ignoti”, un duo acustico dall’omonimo film del 1958 di Mario Monicelli… Il mio ritorno al passato c’è sempre, anche nella musica…
    E torna anche l’americanità visto che interpretiamo brani di band che hanno fatto la storia della musica internazionale… dagli “America”, agli “Eagles”, passando per Tracy Chapman, Simon & Garfunkel e tanti altri...
    Suonare a Chicago è stata un’esperienza stupenda, ero in compagnia di amici di vecchia data ad esibirmi come voce di Heraldry, band metal al Classical Metal Festival del 2005.
    Non era la prima volta che andavo in America, ma è stata senz’altro la prima in cui io abbia avuto la possibilità di far sentire la mia voce anche dall’altra parte del mondo…     Un’esperienza che m’è rimasta dentro e potrò raccontare ai miei nipoti...
    Tour negli States. Reportage “on the road”. Concerti d’oltreoceano. Americanità come leit motiv della vita… Oggi quanto c’è dell’“American Dream” nei tuoi scatti?
    Rimane un vortice d’emozioni umane e professionali…
    Il viaggio negli Stati Uniti, The American Dream, sono risposte all’esigenza della mia persona di non porsi dei limiti, di elevarsi sotto il profilo professionale, di riscoprire me stesso. Voglio permettere alle mie idee, ai miei sogni, alle mie ispirazioni di librarsi… Al mio cuore di emozionarsi oltreoceano...
    In questo turbinio di passioni s’inserisce l’arricchimento professionale: trovare un impiego all’estero, valorizzerebbe la mia fotografia al di là del Belpaese, che amo, ma che sta divenendo troppo stretto…
    Conoscere culture dell’Eldorado, entrare a contatto con mentalità figlie dei Padri Fondatori che spaziano alla Beat Generation, fino al vissuto quotidiano nell’America di Obama aiuta a vedere il mondo con occhi diversi...
    The American Dream m’halasciato dentro voglia di conoscere, capire e vivere un’esistenza a 360° in una Nazione, quella americana, calamita di etnie da ogni parte del mondo, shakerdi energie che svelano quanto gli States abbiano da offrire…

    Con queste meraviglie negli occhi ho “realizzato”  il mio American Dream…

  • Festival Internazionale del giornalismo di Perugia. La libertà di stampa secondo Saviano e Al Gore

    “E’ difficile passare dal buio alla luce... ”

    Con queste parole apre il meeting più atteso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.

    A pronunciarle Roberto Saviano. Lo scrittore-giornalista partenopeo dà il la ad una serata che è un evento in sé: dopo di lui un ospite d’eccezione, Al Gore.
     

    Seicento giovani in sala dopo una fila di quattro ore per entrare al Morlacchi, teatro storico di Perugia. Trecento almeno rimasti fuori, davanti ai maxischermi. Reporter in erba plaudono al coraggio, al valore, alla tempra di un trentenne, poco più grande di loro: è l’orgoglio di avere un connazionale che rischia la vita per il suo mestiere. 

    Standing ovation per Saviano...
     

    Per lo scrittore il Festival del Giornalismo è “il contesto adatto” per rispondere alle dichiarazioni del Primo Ministro secondo cui “la mafia italiana risulterebbe essere la sesta al mondo, ma è quella più conosciuta anche per i film e le fiction che ne hanno parlato, come le serie della Piovra e in generale la letteratura, Gomorra e tutto il resto”.
     

    Per il Premier questi prodotti culturali sono “supporto promozionale” alla mafia.
     

    La platea non condivide... 
     

    L'autore del best seller non concepisce perché “scrivere di mafia venga visto come un modo per diffamare il proprio Paese”. Si chiede come sia possibile “vivere senza libertà, sotto scorta ed essere accusato di fiancheggiare le mafie?” Saviano è categorico: “com'è pensabile dire una cosa del genere?”, ripete. La sua ironia è tagliente, amara: “Scrivere allora coadiuva le mafie... Chi denuncia ne appoggia l'operato...” Non ritiene le accuse uno scivolone di qualche politico, ma un errore di valutazione pesante su chi combatte le mafie, sulla moralità di coloro che vi si oppongono.

    E per farlo rischiano la vita in primis.
     

    La sua non è una reazione “di stomaco”, ma “di testa”: lo scrittore riflette sulle tante persone che vivono la sua stessa condizione. La mente va a tutti coloro che per scrivere sono calunniati, per rivelare verità scomode sono distrutti nell'immagine e nella reputazione, per svelare il marcio uccisi.

    Roberto Saviano risponde a chi lo accusa di infamare l'Italia con un video-clip...

    Partono le immagini dei giudici Falcone e Borsellino...         
                                                      

    Echeggiano le parole di Borsellino che commemora il collega ucciso nella strage di Capaci. In sottofondo frasi celebri dei due: “la gente fa il tipo per noi” di Falcone e “bisogna coinvolgere tutti nel sentire la bellezza del fresco profumo di Libertà e rifiutare il puzzo del Compromesso morale, dell'indifferenza e quindi della complicità” di Borsellino.
     

    La platea si apre in un applauso riconoscente al sacrificio di questi eroi della nostra Repubblica.
     

    Per l'autore di Gomorra la lotta alle mafie non è solo frutto di “repressione delle forze dell'ordine” condotta “in maniera isolata dalla gente, lontana dalla mentalità dei più”. Saviano accende i riflettori sul contrasto alle mafie come valore in sé, movimento culturale di risveglio delle coscienze, rivoluzione della forma-mentis criminale.

    Sradicare la mafia, defraudando l'essenza dei Clan, estirpandone la natura stessa. 

    Lo scrittore sottolinea la forza, l'importanza, il potere della parola: per Saviano bisogna parlare, raccontare, farsi capire. Dialogare con tutti. Non solo con chi è “dalla tua”, ma con chiunque. La lotta alla mafia non deve passare come uno scontro ideologico, ma una battaglia per la legalità. Perché coinvolga tutti... Sia condannata da tutti.
     

    Il Saviano-narratore ci ipnotizza. Il tono pacato stride con le realtà scottanti.

    Descrive come si “vota” nelle regioni del Sud. Lo scrittore sostiene che i voti di scambio valgono somme minime, cifre irrisorie: sono venduti con la promessa di un posto-auto sotto casa, per un cellulare o persino meno, appena 22 euro. 
     

    Lo scrittore provoca: “Si sta svuotando il concetto della democrazia. Lo Stato non s'impone. Le organizzazioni criminali fiutano debolezze nelle istituzioni. Non ricevono aut-aut. E spadroneggiano”. Per i pavidi, nelle situazioni di comodo è meglio “accontentarsi di piccoli favori del sottobosco mafioso -ironizza l'autore- che sperare in aiuti dallo Stato”.
     

    Saviano è sferzante. Obbliga a riflettere. Ci trascina nel cuore delle vicende. Il suo diktat attraversa mente, anima, coscienza. Ci coinvolge in realtà che ci riguardano.

    “Si sa cosa dobbiamo fare, come bisogna agire e reagire a certi avvenimenti -conclude lo scrittore- si deve solo comportarsi di conseguenza”.

    Per l'autore di Gomorra anche quando “la soluzione sembra difficile da trovare, lontana da realizzare, quasi impossibile da raggiungere bisogna agire come, in effetti, già si sa”.

    Nella legalità. Con criterio. Secondo coscienza. Questi i pensieri che ci aleggiano in mente. Non siamo parte di realtà già determinate. Con un testimonial d'eccezione come Roberto Saviano siamo convinti che lo scenario criminale possa tramutarsi in status di legalità.
     

    Opporsi all'omertà. Denunciare connivenze mafiose. Combattere il malaffare. Devono essere “must” di vita.

    Aver il coraggio di cambiare. Rinnegare i compromessi. Ribellarsi alle complicità. Prove di civiltà.
     

    Applausi a scroscio per Saviano, pubblico quasi in trance. La kermesse ha in scaletta una “staffetta” tra grandi: lo scrittore partenopeo lascia il testimone all'altro ospite d’onore, Al Gore.
     

    L’ovazione è unanime: giovani “apprendisti” del mestiere e professionisti della notizia applaudono l’ex Vice-Presidente degli Stati Uniti, Premio Nobel per e co-fondatore di Current Tv.
     

    Al Gore è compiaciuto dell'accoglienza, contraccambia lo spirito del Morlacchi.

    L’ex leader politico parla dell'attuale fase del giornalismo come di un periodo di “transizione storica”, in cui l’informazione sta attraversando un momento di “crisi profonda”.
     

    Con un salto indietro nel tempo, al '500, alla nascita della stampa, Al Gore ricorda come uomini di tutte le classi sociali impararono a leggere e, via via, a scrivere. Intellettuali e non, misero in circolo un processo di conoscenza, rivoluzionarono un intero “ecosistema” del sapere: con l’avvento della stampa si poté esaminare i fatti, comprenderne il senso, comunicarli ad altri. Condividere e giudicare ciò che doveva essere cambiato.

    Così, per Al Gore, si “demolirono differenze sociali” e si “regolò il dominio della ragione” nelle comunità. Per il leader statunitense da qui partì “il sogno della Democrazia”.
     

    Dalle “rivoluzioni” della modernità alle “involuzioni” del 2010. L'ideatore di Current teme quella che definisce junk information della Tv. Il piccolo schermo “inverte il flusso delle news: dalla febbrile ricerca nell'epoca della stampa, all'inattività di oggi”. Le news della Tv sono a senso unico, dirette dal media al soggetto. Riducono l'agire umano a mera ricezione passiva, senza risposte critiche. Inaridiscono l'informazione.

    “Se si guarda troppo la TV non si sviluppano i muscoli della Democrazia”, esclama un acceso Al Gore.
     

    L'alternativa? Il Premio Nobel strizza l'occhio all'on-line Journalism.    

    Per Gore Internet non è solo un'inesauribile fonte di ispirazione per giornalisti. Il Web ha una marcia in più: consente di “improvvisarsi reporter”. Tutti possono guardarsi intorno, notare ciò che non va e scriverne sul proprio blog o sul profilo Facebook. In Rete blogger, social networker raccolgono notizie, discutono su temi, confrontano opinioni.              
     

    Del new extended journalism Al Gore apprezza oltre al valore informativo delle news, le critiche costruttive, lo spirito di denuncia, i tentativi di cambiamenti per migliorare la società.
     

    Informare. Comunicare. Creare Comunità virtuali, con mission reali.

    Al Gore riflette che “la televisione, con i suoi limiti, rimane un mezzo popolare al quale ha accesso un numero di utenti ancor di gran lunga superiore a quelli della Rete. Al Gore auspica un future journalism in cui TV e Internet s'intreccino, gli styles dei due media si fondino l'uno nell'altro per creare generi di news innovativi.

    Tempestività, dinamismo, interattività di Internet ben si sposano col pubblico di massa di Tv. 
     

    La sua Current TV prende spunto da questo media mix. 

    L'incontro entra nel vivo, stimola idee, fucina riflessioni. L’atmosfera già accesa del teatro si fa incandescente.

    Al Gore si addentra nella realtà informativa del Belpaese: non intende “valutare” lo stato del giornalismo nostrano, perché, riconosce di “non essere autoctono”, ma, da dirigente di un network che opera in Italia, ha le carte in regola per “criticare” i meccanismi d'informazione in Italia.
             

    Per l'ex leader politico, quella attuale, oltre che una fase di transizione storica, è un frame di crisi economica e ideologica.

    L'economica dei media italiani è simile a quelli americani: Gore stima che tanti Paper sono in bancarotta, perdono sempre più denaro. Il modello di business “è fallito e non si è elaborato un altro standard”. 

    Per il premio Nobel solo “innovazione e business del giornalismo assicurano autonomia economica e dunque indipendenza ideologica”. Il Gore Tought è fin troppo chiaro. Le testate in deficit sono in bilico: la carenza economica ne condiziona l'indipendenza. Le rende ricattabili. Mette a rischio la libertà d’espressione.
     

    Va da sé che la qualità delle notizie ne soffre. Lo spirito del giornalismo è defraudato nella sua essenza. Privato della sua natura di denuncia.

    Il fondatore di Current nomina giornalisti italiani che, a suo avviso, hanno “subito una situazione di cambiamento”. E' trascinante sentire, per bocca di Gore, pilastri del nostro giornalismo.
     

    Cita Michele Santoro, a cui ha chiesto di trasmettere lo show, Annozero, su Current TV: con ironia sostiene che forse, proprio per il fatto di “non esser italiano”, non comprende l'“anomalia”, tutta nostrana, per la quale “più ci si avvicina alle elezioni e più i talk show politici vengono decretati fuori programma”. Loda Milena Gabanelli per il taglio investigativo del suo Report, autentiche inchieste d'indagini. Rende omaggio a Enzo Biagi per l’obiettività di stile, la classe professionale, augurandosi che “lo spirito del grande giornalista possa rivivere su Current TV”.
     

    Il pubblico del Morlacchi è incontenibile...
     

    L’ex Vice-Presidente Usa chiude con una riflessione: nel giornalismo ci sono molte opportunità professionali, ma occorrono qualità d’eccellenza. I reporter devono dimostrare coraggio nell’affrontare situazioni rischiose e indipendenza di giudizio per l'onestà intellettuale.
     

    A costoro è assegnato il mandato di testimoni delle verità più scomode.

    Battute finali a Roberto Saviano che s'esprime così sul respiro autentico della professione-reporter: “Mi piacerebbe che qualcuno diventi voce di qualcun altro. E’ lo spirito universale del giornalismo, l’anima della parola risiede nel far passare tutte le storie, nel raccontare anche le contraddizioni degli altri Paesi”.
     

    S’è volato alto a Perugia…

  • "Cabbage". Il surreale dell'inconscio e la realtà dell'umano in mostra

    E' la sera del 17 Gennaio quando il Gotha dell'arte surrealista si riunisce nella fascinosa location della Galleria degli Antichi Forni, in Piaggia della Torre a Macerata. L'occasione è “Cabbage”, collettiva promossa dall'Associazione Arte Contemporanea Fabrizio Orsini e curata da Camilla Boemio

    “Cabbage” indaga il filone della fotografia surreale, esplora mondi magici, trend a effetto.

    L'exhibition svela spaccati di vita straordinari in labirinti di colori contrastanti. L'impatto cattura gli spettatori proiettandoli in universi filmici da sogno.
     

    “Cabbage”, come l'ortaggio, si compone di strati. Ogni layer of reality è ricco di sfaccettature, assume sfumature diverse, rimanda a significati correlati l’uno all’altro. Gli scatti svelano Surrealist art: aspetti fantastici prendono vita in realtà alterate, misteriose, da reinterpretare.

    Il rimando è alla società poliedrica, multiforme, cosmopolita in cui identità fa rima con diversità.

     
    Alla collettiva partecipano due tra i più famosi fotografi internazionali: David Stewart e Sandy Skoglund.

    Ci inoltriamo tra gli scatti di questi maestri d'arte contemporanea.

    “Cabbage” prende il nome dalla serie ideata da David Stewart su verdure in chiave surreale. L'autore inglese è artista a 360°, nel '95 la sua arte fotografica si fa film: Stewart dirige “Cabbage”, cortometraggio presentato in anteprima italiana a Macerata. Il film breve gli vale la nomination al prestigioso BAFTA, British Academy Film and Television Arts.

    L’altra serie esposta è “Fogeys” del 2001. Qui il fotografo ritrae eccentrici anziani, inquadrati in pose kitsch, come strategiche pubblicità moderne. Con “Fogeys” Stewart vince il premio d'argento all'Art Directors Club of New York.

    Nei suoi scatti David Stewart ricerca il bizzarro, il particolare strambo, l'originale in sé. Ci coinvolge in visioni trend, mix di surreale, ironico e umoristico. L'artista racconta i suoi personaggi: caratteri marcati, colori netti, pop e kitsch art piena. In primo piano spicca l'identità inglese. Il British style affiora in arredi di interni, entra nelle abitazioni, popola ambienti.
    Londoners Doc prendono vita nei lineamenti dei soggetti.
    David Stewart nella sua carriera fotografica ha lavorato, tra tanti, anche con The Clash e The Ramones

    Il nostro itinerario nell'arte di “Gabbage” segue le tele che si snodano lungo la sala. Ci accorgiamo del via vai brulicante davanti a noi: estimatori d'arte e semplici turisti sbirciano, commentano incuriositi. Ecco il motivo del vociferare: gli spettatori stanno ammirando scatti di Sandy Skoglund.

    Americana del Massachusetts, la Skoglund, dai primi scatti sperimentali, fino alle produzioni

    più recenti, abbraccia l'arte surrealista, allestendo presso art dealers d'eccellenza come l'italiano Leo Castelli e la newyorkese Barbara Gladstone.

    I suoi lavori si trovano in numerose collezioni di musei internazionali: Museum of Contemporary Photography di Chicago, San Francisco Museum of Modern Art e al Dayton Art Institute in Ohio.

    In “Cabbage” la Skoglund apre le porte del suo mondo incantato. Ce ne svela i segreti.

     
    Siamo accarezzati dal vento in “A Breeze at work”. Gustiamo le succulenze di “Nine Slices of Marblecake”. Brindiamo in “The Cocktail party”...

    Sandy Skoglund ci conduce nei meandri della mente. Il reale sfuma nell'immaginario. L'inconscio entra nel quotidiano. Per gli spettatori scene di vita ordinaria s'alterano.  

    Ci muoviamo tra uomini verdi seduti su tappeti di bicchieri in “Picnic on wine”, ci perdiamo in sentieri di foglie azzurre in “As Far as the Eye Can See”, strabuzziamo gli occhi davanti “Raining pop corn” in cui uomini, bianchi e di colore, volpi e alberi sono interamente ricoperti di pop corn...

    Siamo catapultati in un mondo stile cartoon Disney...
     
    Kitsch dei colori, esuberanza dei toni accesi, fantasy style: la Pop Art sconfina nel surreale. L'impressione è quella di momenti reali in mondi fantastici. La Skoglund inserisce la normalità in un paese delle meraviglie. L'artista svela il vero, in un contesto da sogno.  

    Gli spettatori indicano tele, confabulano, sono stregati: traggono rimandi al proprio background. La vita dipinta dalla Skoglund scaturisce da concezioni, valori, credo dell'autrice. Poi s'intreccia col vissuto di ognuno.

    Che c'è dietro l'arte della Skoglund? Definire le sue opere è un problema non da poco...

    La produzione è mix di originalità e brio. L’artista s’esprime in un lavoro di manualità creativa.   La Skoglund modella resina: crea cibo, realizza animali, plasma persone. Ne nascono statue con l'anima, vive quasi. L’autrice rifinisce la sua arte: costruisce set, dà vita ad arredi multicolour, compone scene minuziose in un lavoro capillare che dura mesi.

    Inserisce le statue negli scenari, prendono vita le installazioni. Piccoli capolavori, unici nel loro genere.
     

    La Skoglund completa l'opera con un tocco d’eccellenza, aggiunge l'elemento che fa la differenza. Fotografa le scene a go go per scegliere lo scatto che ritrae al meglio la sua arte foto-scultorea. La tecnica della reality maker statunitense passa per la fotografia, unica arte, secondo lei, in grado di mostrare qualcosa accaduto davvero. 

    La doppia fatica della Skoglund è appagata: se ciò che guardiamo è realmente esistito modifica, cambia la percezione che ne abbiamo. Il vero ci intriga.

    In “Walking on Eggshells” ragazze nude s'apprestano alla toilette su un fragile pavimento di uova, tra cobra minacciosi e conigli inquietanti. Siamo incantati da “Raining pop corn”: qui una cascata di pop corn invade la scena, copre uomini e animali, si stende a mo' di manto di neve fresca...

    Dagli scatti s'avverte l’esigenza etica del recupero della memoria: la Skoglund si distacca dalla cultura americana, riscopre tracce del passato per capire il presente.

    Con “Walking on Eggshells” l'artista fa incursioni nell'immaginario egiziano: qui il serpente è simbolo di violenza, caos. Scopre che l'iconografia del coniglio pasquale americano trae origine dal paganesimo del Nord Europa in cui incarnava l'essenza del cambiamento. 

    In “Raining pop corn” la Skoglund rende omaggio agli sterminati campi di granoturco della sua infanzia nell’Iowa. Qui l'artista indaga il senso storico-culturale associato al popcorn: i fiocchi di grano erano protagonisti nelle cerimonie degli Atzechi per creare collane e diademi; i nativi americani li offrivano come “snacks” nei negoziati di pace. Dal passato all'attualità il passo è breve. Con Raining pop corn la Skoglund critica l'industria alimentare americana, dice un fermo “no” ai cibi geneticamente modificati.

    “Gabbage” continua. ll fil rouge delle tele si tinge di un leitmotiv animalista.

    “Fox Games” ritrae volpi fulminee nel caos in un ristorante... In “Gathering Paradise” e “Squirrels at the drive-in” padroni della scena sono scoiattoli. Nel primo scatto gli animaletti blu invadono un tipico giardino americano rosa sgargiante, nel secondo squirrels dal fare umano sono spettatori in un drive-in.

    La Skoglund riflette sul rapporto uomo-animali-natura. Gli attori sociali s'intrecciano divenendo tutt'uno. Per cogliere la condizione umana la sua arte passa per questo legame...

      
    L'uomo vive di possesso. Esercita il suo dominio sulla natura, controlla l'universo animale, soffoca l'indole d'entrambi. Le istantanee della Skoglund denunciano una natura vessata dagli umani; la domanda è “si ribellerà”? Anche la condizione animale è un enigma: in "Fox Games" le volpi rosse rischiano la libertà intrappolate nella sale di un ristorante? Gli scoiattoli di "Squirrels" at the drive-in si riducono davanti ad un umano drive-in o a brulicare nei nostri cortili come in "Gathering Paradise"?

    Gli scatti sono provocazioni “figurate” dell'artista: Sandy Skoglund lancia a suo modo l'S.O.S. per  la specie animale “a rischio d'estinzione”, il circle of life è in pericolo. 

    Per la Skoglund il confine tra esseri umani e mondo animale è labile. Le due dimensioni sono ibride, l'una sconfina nell'altra. Mixate danno vita ad uno unico universo-natura.

    L'uomo è animale tra altri animali, proietta l'irruenza della “sua” razza su quella animale, prostrandola. Per l'artista, di rimando, lo spirito animale riflette l'essenza umana, invade spazi propri dell'uomo, s'appropria della dimensione domestica. E risponde con altrettanto impeto. 

    L'autrice riconosce carica eversiva nell’animale, esalta le sue potenzialità, accende l'istinto. Lo spirito animale quasi scavalca l'uomo. E' il paradosso che rovescia il potere.
     

    L'itinerario di i-italy fra gli scorci onirici di “Cabbage” prosegue. Nel secondo padiglione ci attendono altri scatti della Skoglund.

    L'universo stile "Alice in Wonderland" dell'artista s'interroga sui temi caldi dell'attualità. Lo fa con una formula tutta sua: l'alternativa. L'arte foto-scultorea della Skoglund apre a noi l'interpretazione delle opere. Ci offre varie chiavi di lettura. Il senso è quello che noi gli attribuiamo..

    Ci imbattiamo in “Radioctactive Cats”: una colonia di gatti fluorescenti invade la cucina di un'anziana coppia. Felini, colpiti dai raggi, mutano il loro colore divendo verdi.

    E' il tema delle radioazioni. I gatti subiscono radioattività ma non muoiono, cambiano nuance. Alterano la propria natura, ma sopravvivono. La Skoglund non si schiera “pro nucleare”, ne dà una doppia lettura. Per l'artista anche la più dolorosa delle human tragedy esala afflato vitale. Dal catastrofismo radioattivo può sgorgare vita.

    Ecco la svolta: "Radioctactive Cats" è metafora di cambiamento, sfida per affrontare l'esistenza, rinascita del nuovo state of mind.

    La chiave di salvezza è tutta lì.

    Volgiamo lo sguardo più in là, ci fermiamo su “The cold war”. Altro tema caldo della Skoglund è la guerra. Nello scatto un soldato è assediato da minacciosi missili giocattolo rosso fiamma.

    L'uomo combatte l'altro, spiana il fucile contro il mondo, manifesta la propria indole violenta. L'artista però inquadra il soldato in un'altra ottica: ha armi puntate addosso, è oggetto di mira, viene assediato. Ritorna la doppia morale. Secondo la Skuglond l'uomo scatena guerre ma ne è la prima vittima. Causa morte, ma è succube della propria spirale di violenza. L'Umanità che saprà riscattarsi dall'odio sarà davvero libera.

    Meditiamo, sospiriamo... questi scatti costringono ad interrogarsi...

    S'è radunata una piccola folla davanti a noi... Sbirciamo, incuriositi. Tra gli spettatori s'intravede “Revenge of the Goldfish”, tela simbolo della Skoglund...

    Siamo rapiti dall'essenza multicolour di questo frame senza tempo. Con “Revenge of the Goldfish”: galleggiamo in una stanza da letto blu, aleggiamo in un vuoto rilassante, nuotiamo in una scena da sogno. La mente è ipnotizzata, sospesa tra aria e acqua con tanti pesci rossi...

    Riconosciamo nella tela la copertina di “Venuto al mondo”, l'ultimo romanzo di Margaret Mazzantini.

    L'opera vive di un'aurea a sé... L'ammiriamo. La Skoglund raggiunge l'apice del suo estro... Ci sentiamo parte di un manga vivente.

    Per i critici il pezzo s'ispira all'universo omosessuale. Secondo alcuni riguarda la piaga del lavoro minorile. Altri ancora pensano all'infanzia violata con il dramma degli abusi sessuali, lo spettro della pedofilia.

    Riflettiamo. Qual'è il senso vero dell'opera? I dubbi con la Skoglund si moltiplicano...

    Anche in "Revenge of the Goldfish" reale e surreale co-esistono. Il fantasy dei pesci rossi sconfina, irrompe nel reality puerile. L'artista rileva la chimera dal reale. Eppure per la Skoglund queste immagini non sono sogni, elementi dell'assurdo, ma semplice...invadenza nella realtà. Provocazioni. Torna il tema della visione aperta a più interepretazioni.

    L'artista suggerisce la cornice degli eventi. Ci permette di riflettere. Dà spunto ai nostri pensieri.
    La Skoglund è mediatrice di realtà, non interprete. Costruisce mondi, ma non ne è protagonista. Siamo noi i veri interpreti della sua arte.

    Intuiamo dinamiche. Sbirciamo frames di vita dal buco della serratura. Cogliamo realtà altre.

    Lei accende il dubbio, a noi la risposta. 
     
    Ci colpisce il valore dell'estetica ma ancor più la carica emotiva che ci offre questa reality maker della fotografia. Per la Skoglund: “Quando l’immagine esprime un significato multiplo, se non addirittura contraddittorio...sono più soddisfatta. All’inizio di un progetto costruisco di proposito un puzzle concettualmente attivo”.

    L'arte surrealista vive proprio di questo...si alimenta dei nostri perchè...

    La Skoglund si interroga anche sul concetto di "True Fiction": per lei non c'è separazione tra coscienza e inconscio, natura e cultura, follia e normalità. Le verità assolute che ci sforziamo di erigere si scompaginano. Le certezze rassicuranti si alterano fino ad annullarsi. Ci destabilizza.

    Ed è proprio questo senso di spaesamento che la Skoglund vuol suscitare in noi.

    La reality maker ad un mondo regolare accosta uno un po’ folle. Obiettivo? Stupire, scioccare, suggestionare. Sandy Skoglund ci spinge su un'altalena di senso e nonsense, tra humour e riflessione, in un equilibrio imperfetto, andirivieni di calma e caos...

    In questo mondo c'è spazio per i dubbi, si aprono interrogativi, s'accende la critica.
    Speriamo anche nel nostro. 

     “Cabbage” è un'esperienza in sé. Varcare soglie di universi immaginari in compagnia di 5.000 persone ha reso ancor meglio l'atmosfera melting pot dell'opening.

    Ringraziamo la curatrice della mostra, Camilla Boemio, che qualche giorno dopo ci ha fatto incontrare via mail Sandy Skoglund. L'artista ci ha regalato altre curiosità rispondendo all'intervista di i-italy...

    “Cabbage” è una collettiva in cui gli scatti ritraggono “composizioni” di scenari da sogno. Perchè fotografare installazioni? Skoglund, si sente più fotografa o “reality maker”?

     Io sono una reality maker. Il mio obiettivo è stupire gli spettatori, incantare i loro sensi, rapirne l'attenzione. Colpirli. Per farlo sfrutto il surreale: creo cibi bizzarri, animali ambigui, landscape equivoci. Così motivo l'audience a riflettere, ad interrogarsi su ciò che vede. La verità non è unic∑a, mai univoca...s'articola in sfaccettature, sfumature. Dobbiamo scrutare il celato, cogliere la realtà altra, quella che esiste oltre l'apparenza.

    Nel Rinascimento, il grande Michelangelo dipinse la Cappella Sistina per svelare l'essenza di vita oltre il rivelato...

    Perchè fotografo installazioni? Le rispondo con un'altra domanada... Guarda allo stesso modo sfondi artificiali e ri-creazioni di scene? I primi sono frutto di realtà-collage, piatte, inanimate. Le installazioni sono composizioni di vero, porzioni di realtà, parti di vita assemblate. L'esperienza della scena ci mette in ascolto. La nostra percezione cambia se ciò che scrutiamo è esistito davvero...

    In “Cabbage” colpisce l'impatto visivo delle istantanee: scopriamo che cibo, persone, paesaggi sono attori sociali, interpreti di vita. Il surrealismo sconfina nell'American pop-art e nel kitsch? Il sogno ha la meglio sulla realtà?

     Forse l'estate di lavoro a Disneyland, in gioventù, mi ha influenzato più di quanto io ammetta...
     

     Per me pop e kitsch style sono reali. L'American culture è intrisa di kitsch. We live this way. Adoro questa tecnica. Per me è divenuta una filosofia di vita. Ma c'è un lato oscuro che incombe quando il kitsch fallisce, l'assolutismo di alcuni credo. Le grandi fedi monoteiste ci hanno allontanato dall'universo naturale, con le religioni abbiamo perso l'antico contatto col mondo animale. Oggi la scienza, l'ecologia, i nuovi orientamenti filosofici rivalutano gli animali. Vedono in essi entità coscienti. Gli attribuiscono un'anima simile a quella umana. La re-animation orienta la cultura odierna. 

    Gli animali sono protagonisti nelle sue opere. Li definisce una “coscienza alternativa”: sono un alter-ego degli esseri umani?

    Gli esseri umani si considerano la principale forma di coscienza in natura. Come se esistessimo solo noi...

    Dalle mie foto-sculture traspare che lo spirito animale è in ognuno di noi. Nei momenti di stress l'indole pacata si altera, la ragione sbanda, ci giriamo al mondo con irruenza. Pulsioni e passioni s'intrecciano. L'istinto animale ha la meglio. L'uomo si carica di coscienza alternativa. E' energia  creativa con cui sfida il mondo. Libero da costrizioni, diventa animale umano.

    In “Cabbage” la fantasia sconfina nel reale. Lei vive e lavora a New York. Realtà a tinte forti e ritmi frenetici della City condizionano la dimensione onirico-fantastica delle sue opere? I suoi scatti sono uno specchio della società statunitense?

     Certo, il mio lavoro riflette la società americana. Ne traspare il meglio e il peggio. Il nostro “modus vivendi”. "Radioctactive Cats" è ispirato al nucleare, "The cold war" prende spunto dalla guerra, in "Revenge of the Goldfish" m'interrogo sull'infanzia violata...Così partecipo alle dinamiche del mondo, racconto la vita nei miei scatti...

    New York è caleidoscopica, eclettica e l'artista s'arricchisce, cresce del fascino multietnico. Ci sono aspetti della realtà di vita (o di sogno) newyorkesi da cui prende spunto per la sua arte? Cosa la ispira della Grande Mela?

     New York è frenesia d'attività, circuito d'emozioni, sentimenti in divenire. E' un flusso di alchimie artistiche. Poliedricità di scambi relazionali. Eppure il life style newyorkese è incline alla milting pot dimensione risponde alla filosofia del “being alone together”. Ognuno è nel proprio mondo, fermo sui propri obiettivi, ancorato alle mete. Questa è la forza della City: trasmette energia adrenalinica. Ognuno però l'incamera nel privato, per tradurla secondo la propria creatività. 
    Questo state of mind alleggerisce il caos della City. Risolvo la frenesia di una megalopoli in corsa con l'ironia delle mie opere.

     

    Lei ha esposto a Venezia, Milano, Torino, Modena, Brescia ed ora a Macerata. Cosa la lega all'Italia? Che differenze/somiglianze ci sono tra l'arte moderna italiana e quella americana?

    Adoro l'arte italiana. E' il cuore pulsante della tradizione millenaria europea. Apprezzo anche la simbologia egizia e quella legata alla cultura celtica. Ma l'arte italiana è incipit della modernità. Universo creativo a sé. Ha generato, plasmato, ispirato l'arte successiva internazionale.
    Non è possibile prescinderne, parte tutto da lì...
    L'American style prende molto dal talento italiano...Ancora oggi gli artisti americani s'ispirano all'arte sempiterna. Del resto tra Colosseo, Pantheon, Circo Massimo a Roma, lo splendore di Firenze e l'incanto di Venezia...non potrebbe essere altrimenti.

    Dal surrealismo del 2010 al Manierismo del Bronzino e Pontormo...Cosa la colpisce nella corrente artistica di questi pittori del XVI secolo che dichiara di preferire nella storia dell'arte?

     Amo la febbre emotiva del genio italiano. L'arte antica del BelPaese è pura catarsi. Il fuoco che produce è estasi e ardore dell'animo umano. Anche quando è povera si nutre di passione e umiltà.

    Il Manierismo è un microcosmo nel macrocosmo. Fonde stile innovativo e meraviglia per l'estetica. Dell'arte italiana ho fatto mio il senso dell'instabilità culturale del Rinascimento e la distorsione delle figure che esprime ansietà della condizione umana. Sembra un rimando al presente: stress, incertezze, tensioni. Sono gli aspetti che affronto nei miei scatti...

    Non si è fatta mancare collaborazioni interessanti come quella con “L'italiano che inventò l'arte in America”, il gallerista Leo Castelli...

    Leo Castelli è stato principe indiscusso della Manhattan hip. Ha animato il panorama creativo a New York per tre decadi... Un autentico interprete di zeitgeist del presente. Castelli è stato un vero dealer leader: estimatore d'innovazione nell'intuire stili, anticipare tendenze e sperimentare “arie” del momento. Un vero punto fermo per me e gli altri artisti che gli ruotavano attorno: d'instinto fiutava capacità, ci dava fiducia, si spendeva per noi. Ci proiettava nel firmamento dell'arte come fosse la sua missione nel mondo... 

  • “New York Minute”. Raccontando ad arte miti e riti della Apple

    "New York Minute" esposta al Macro Future di Roma, nei padiglioni dell’ex Mattatoio a Testaccio, è un concentrato poliedrico di arti newyorkesi: fotografia, pittura, scultura, collage e composizioni esprimono una cornice unica di emozioni, suggestioni e sogni vibranti nella Big Apple.

    La collettiva è curata da Kathy Grayson, direttrice di Deitch Project, una delle più importanti gallerie d’arte degli Stati Uniti e organizzata dalla Fondazione Depart.

    Il tema portante di "New York Minute" è la rapidità con cui i newyorchesi affrontano la vita: prontezza, vivacità, brio ed energia...concentrati in a minute.

    L'ingresso del Macro è già uno spettacolo in sè: girandole smisurate e coloratissime ruotano in moto continuo, tele variopinte fluttuano sulle pareti, sculture astratte prendono vita nel foyer. 
    Il senso della velocità diventa poi sinonimo del life style newyorkese: un mix di impulsi, condensato di intuito, sinergia di reazioni agli stimoli della vita sono gli spunti con cui sessanta artisti d'oltreoceano in mostra rispondono al panorama culturale di oggi e alle questioni della loro generazione.

    "New York Minute" è un inno alla condivisione di miti e riti in cui "sesso droga e rock’n'roll" sono ancora gli ingredienti delle vite dei trentenni della City che inneggiano alla libertà, alla ribellione al conformismo, al godimento della vita, rispettando i principi di amore, amicizia, famiglia all'interno della propria cerchia, autentici pilastri nell'immaginario americano.
    La comunità “allargata” di espositori, nata tra la fine degli anni '90 e i primi del 2000, offre così uno spaccato di Manhattan, riflette su temi come il rispetto della città e dell'ambiente e pone un no fermo all'inquinamento ricalcando con una dimensione giovanilistica valori condivisi, comunitari, shakerati in un cocktail di arte, musica e moda.

    Il viaggio di i-italy attraverso “New York Minute” si snoda tra l'immaginario di fotografi, pittori, scultori di scena di New York, molti di base a downtown Manhattan. Altri sono di Providence, San Francisco, Los Angeles, Portland, Virginia Beach e perfino Tokyo. Il loro lavoro si nutre di alcune delle principali tendenze del "fare arte" a New York: svecchiare l’action e l'abstract painting con la durezza della vita di strada; organizzare collettivi e portare l’arte interdisciplinare in tour. In “New York Minute” traspaiono tre tendenze creative: Street Punk, Wild Figuration e New Abstraction.

    Il primo padiglione del Macro Future è animato dallo Street Punk, stile in cui gli artisti si esprimono con il collage, lavorano assemblando pezzi di opere, realizzano performance di scultura o fotografia. A stupirci sono le foto di Dash Show, morto per overdose lo scorso 13 luglio a soli 27 anni, dove ogni scatto è un inno d'amore per la figlia e la compagna; e i video di Terence Koh proiettati su mosaici iridescenti tra il fashion e il kitsch. Ammiriamo le immagini di "The Swan", lavoro di Agathe Show che trae spunto da una fiaba di Leonardo Da Vinci sul Rinascimento, risposta dell'autrice all'attuale crisi economica.
    L'intensità dei colori, la forza delle scene ritratte, il senso che esprimono, sono di artisti attratti dal pericolo del vuoto, dall'indifferenza, dall'anonimato dell’ambiente urbano che trasformano l’energia oscura delle strade in progetti provocatori, lavori crudi, per svegliare gli spettatori.

    “New York Minute” prosegue a cavallo tra il primo e il secondo padiglione del Macro.
    Qui fotografi e scultori lavorano nella modalità del Wild Figuration con oggetti fatti a mano o trovati, prediligono esplosioni di istantanee dai toni accesi usando tecnologie grafiche.
    Ci muoviamo tra le opere oscure di Chris Johanson, specchio della realtà fatta di lotta all'oppressione, resistenza alla violenza, inno alla libertà in un'atmosfera di critica culturale. Colpisce lo stile degli AVAF, acronimo di Assume Vivid Astro Focus, gruppo di artisti che crea installazioni con animazioni grafiche, pareti tappezzate di stickers, decalcomanie, sculture al neon, gioielli, pellicce, capaci di rievocare la drag culture. Lo stile fa crollare i soliti canoni di bellezza, per far prevalere su di essi la “gioia estetica”.

    Le creazioni di questi autori sono “condite” di citazioni da mondi di fumetti e cartoons che, insieme ad un pop immaginario, danno vita a creazioni eccentriche.

    Un terzo gruppo di artisti esplora la New Abstraction. Ci interroghiamo sul perchè Dan Colen lavori su tele nere animate con cartoons e fumetti, dipinti che sembrano pubblicità irriverenti su sfondo scuro, mixando l’astrazione delle scene con l’energia della strada. Rosson Crow ci sorprende con le sue installazioni di “carta da giornali e luci psichedeliche” come a sottolineare che l'astrazione della vita si concretizza poi nell'informazione. Obiettivo degli artisti della New Abstraction non è celebrare l'astratto ma sfruttarlo per comunicare con immediatezza realtà di vita, questioni, sentimenti ed emozioni.

    Lo Street Punk, Wild Figuration e New Abstraction portano la strada, il punk, la cultura pop al centro dell’opera. Ciò che stupisce di più vedendo questa carrellata di istantanee, video, sculture, installazioni è il senso di comunità espresso dagli artisti, che partecipano a veri e propri collettivi sociali. Sono tutti musicisti, cantanti, grafici, tatuatori, animatori, fotografi, graffitisti:  per loro l’essere artista è il frutto di sinergie comunicative indispensabili per indagare realtà, svelare verità nascoste e testimoniare cambiamenti. 

    Come sottolinea Pier Paolo Barzan, fondatore di Depart: “L’idea è nata perchè mi sono sempre sentito molto legato a New York, nutro un grande amore per la città. Tra Roma e New York c’è sempre stato un forte legame che però ultimamente sembra essersi perso. Se pensiamo agli anni Cinquanta o Sessanta, artisti come Rauschemberg o Jasper Johns venivano a Roma e trovavano un terreno fertilissimo d’ispirazione in grado di far cambiare le loro carriere. Questi artisti sono stati un grande stimolo creativo per la città, noi desideriamo continuare questo dialogo”. Prospettive interessanti in vista della apertura romana del Maxxi, museo nazionale delle arti del XXI secolo, a Maggio 2010.

  • Un “americano a Roma”. Le opere di Twombly tra sentimento ed astrattismo

    La Capitale del Bel Paese accoglie uno degli artisti americani più originali del secolo, Cy Twombly.  La suggestiva cornice della GNAM, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, ospita una retrospettiva di tutte le opere più importanti del pittore e offre agli spettatori la possibilità di viaggiare nella mente e nelle emozioni di un maestro dell’astrattismo americano. La mostra è articolata in dieci sezioni, procede a ritroso ed è un vero e proprio filo della memoria che si riavvolge, dalle opere più tarde fino alle prime produzioni di Twombly.

    Nelle sale della GNAM, tanti i visitatori ad apprezzare il Twombly pittore e scultore e, passeggiando tra gli stanzoni, abbiamo colto qua e là qualche parere sulla mostra. Un gruppo di turisti americani con cui abbiamo parlato ci risponde che “le opere di Twombly sono originali: riesce ad accostare reperti della Roma Imperiale a… pitture astratte”. In effetti è proprio così, nelle sale c’è un mix di sculture chiare, a tinte bianche, che emergono dal basso e ricordano molto le rovine dell’Antica Roma, alle quali l'artista accosta dipinti dai forti connotati astratti.

    Il parallelismo non è certo casuale: in Cy Twombly coesistono due anime, americana d’origine e italiana d’adozione. La carriera di Cy Twombly va dai primi lavori del '51, periodo di studio presso il Black Mountain College alle esposizioni di New York, dove è forte l'influenza di Franz Kline nel periodo astrattista. Seguono, nei primi anni ’60, l’amore per l'Espressionismo e il Surrealismo, che maturano nell'apertura al mito classico di Roma, città dove vive da più di 50 anni.

    Per l’artista “il passato è la sorgente”, dunque rivede nell’antichità le basi per la vita odierna, ma forti sono anche i connotati dell’astrattismo americano.

    Continuiamo a girovagare per le sale espositive e i turisti americani, incontrati pocanzi, commentano lo stile di Twombly, che a detta loro “rende bene l’idea della libertà, del mistero, è tutto un enigma”. Per l’artista di Lexington infatti sono tante le tele con pennellate che assomigliano a segni, graffi, “scarabocchi” quasi, tutto impastato in gocciolature, immerse nel bianco, forti tratti dello stile sfuggente ed essenziale dell’Astrattismo americano. Un vero e proprio artista dei due mondi Twombly, capace di fondere insieme classicismo romano e astrattismo statunitense.

    Tante le tele ad effetto: la serie “Bacchus” del 2005, dalle intense spennellate rosse fuoco, è dipinta durante la guerra in Iraq ed è evidente l’allegoria col colore del vino e del sangue. Il gruppo di turisti americani si avvicina e si compiace nel vederle: “Twombly è davvero il fotografo delle realtà di vita e morte di questo secolo”, dicono i commenti.

    Per saperne di più sulla figura di questo artista statunitense abbiamo intervistato il curatore della mostra Nicholas Serota, con cui abbiamo approfondito alcuni aspetti dell’esposizione.

    Cy Twombly vive e lavora da più di mezzo secolo in Italia. Perchè la Galleria Nazionale di Arte Moderna e  la città di Roma gli hanno dedicato una mostra?

    L’esposizione conclude un ciclo iniziato alla Tate Modern di Londra, continuato al Guggenheim di Bilbao e rappresenta la prima grande retrospettiva di Cy Twombly a Roma. La mostra tocca tutte le fasi della carriera del grande artista americano, dai primi lavori nati al Black Mountain College, dall’influenza di Franz Kline, alle opere che seguono un viaggio in Marocco, in compagnia di Rauschenberg nel '53, fino ai quadri e alle sculture di quest'anno. L’obiettivo è quello di riproporre tutte le opere più importati dell’artista, una sorta di tributo che, superati gli 80 anni e avendone più di 50 all’attivo come artista di successo a Roma, è davvero doveroso.

    Cy Twombly ha iniziato e continuato per vari anni la sua carriera a New York. Cosa ha significato per l'artista vivere in questa città?

    New York ha certamente rappresentato un importante punto di partenza per la carriera del pittore. Nella Grande Mela Twombly inizia l’accademia e frequenta mostre di artisti come Betty Parsons, Pollock, Newman, Clyfford Still e Gorky. Già nei primi anni ’60 il rapporto con la città si intensifica: il pittore vive praticamente nelle gallerie newyorkesi, l’atmosfera briosa e la sferzante energia della città hanno di gran lunga influenzato il Twombly uomo e artista. Il continuo peregrinare nelle gallerie della 57esima strada, gli fanno conoscere anche Bob Rauschenberg, Kooning e Franz Kline. Anche se poi è a Roma che l’artista decide di vivere.

    Perché questa decisione?

    In realtà il trasferimento è stato frutto di circostanze fortuite, un susseguirsi di eventi. Twombly ha incontrato Giorgio Franchetti e Plinio De Martiis, Toti Scialoja, Piero Dorazio, De Chirico, tutto un gruppo di artisti e intellettuali, una compagnia di pensiero davvero stimolante. Twombly si considera molto Southern, da sempre interessato alla campagna, alla vita calma e alla gente, considera lo stile di vita italiano degli anni ’60 come un sogno, e fu dunque naturale per lui stabilirsi nel Belpaese.

    Come s’è modificato nel corso degli anni lo stile dell’artista?

    L’evoluzioni tra l’astrattismo, il surrealismo e il classicismo sono ormai “passaggi” conosciuti nella vita di Twombly. Quello che si arricchisce nel tempo nell’artista sono l’assoluta libertà dal rigore compositivo, l’immediatezza dell’immagine. Twombly non segue regole e non ha canoni stilistici fissi, dipinge d’impulso, quasi forse guidato dall’“istinto” dell’arte.

    Come pensa che questa mostra possa “avvicinare” il pubblico?

    Un americano che s’innamora tanto dell’Italia da lasciare il suo Paese per stabilirsi prima a Roma e poi a Gaeta da 50 anni…già rende l’idea di un artista che, dando tanto al Belpaese, merita di essere ammirato. Se ciò non bastasse, sicuramente la sferzante energia e il brio delle sue tele farebbero il resto, invitando gli appassionati a seguirlo. Twombly è classico e moderno al tempo stesso, complesso e lineare, è questa la sua contrapposizione e la sua forza.

    Twombly ha sperimentato sia l’arte della pittura che quella della scultura, ma non si è fatto mancare collaborazioni interessanti come quella con l’architetto italiano Renzo Piano…

    Si, è vero la creazione del padiglione a Houston è stata un’idea di Twombly e il lavoro svolto da Renzo Piano è stato, a detta del pittore, “davvero geniale”. Twombly lo giudica ottimo anche come ingegnere e si è detto soddisfatto per l’effetto ottenuto: quello di un edificio che rende l’idea della leggerezza tramite la luce che filtra da teli fissati sul soffitto, stoffe come coperture insomma. Architettura geniale e scultura innovativa a servizio dell’arte, verrebbe da dire…

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