Articles by: Vincenzo Ruocco

  • Fotografia. Tutte le strade portano a Coney Island

    Evado sempre nel regno della fantasia, io, poiché ebbi un'infanzia infelice. Vengo da una famiglia poverissima. Mio padre lavorava a Coney Island, la spiaggia popolare di New York. Aveva in concessione un baracchino, tipo 'Tre palle un soldo',  dove uno doveva buttar giù le bottiglie di latte, vuote, con palle da tennis, cosa che io non riuscii mai a fare durante l'intera infanzia.

    Ci fu una specie di maremoto, a Coney Island, quando ero ragazzo. Sbaraccò tutto, portò via il pontile, il Luna Park, le case e tutto quanto - fece danni per un milione di dollari e passa. L'unica cosa che rimase in piedi furono quelle bottiglie di latte...
    da “Io e Annie” (1977) di Woody Allen.

    Coney Island, la mitica spiaggia immortalata in numerose opere cinematografiche diventate un cult, da “Io e Annie” a “I guerrieri della notte”, rivive in questi giorni un momento di grande popolarità.
    La Galleria A. M. Richard Fine Art di Brooklyn ha organizzato la mostra collettiva “All Roads Lead to Coney Island”, dando la possibilità a numerosi artisti di esporre i propri lavori d’arte contemporanea.
    Sculture, film, dipinti, ma soprattutto fotografie. E di fotografia vuole occuparsi questo articolo di i-italy, focalizzando l’attenzione su un’artista italiana, Matilde Damele, a New York da dieci anni, arrivata con l’intenzione di seguire la propria passione, scrivere con la luce, ovvero fotografare.
    Il grande sogno americano: l'illusione di un mondo meraviglioso in cui tutti sarebbero stati felici. Così Woody Allen sintetizza quello che Coney Island ha rappresentato per gli Stati Uniti, il luogo dell’onirico, l’ennesima location cinematografica di New York, l’ennesimo angolo di una metropoli romanticamente da raccontare.
    Intervistiamo Matilde all’interno di questa insolita galleria d’arte di Brooklyn, nello spazio espositivo ricavato in  una graziosissima casa a tre piani dove ci aspetta una porta rossa all’entrata e un enorme vaso di pop-corn. Un’atmosfera allegra e piacevolmente informale avvolge il pubblico che si muove tra le stanze dipinte di un bianco latte dove, su pareti vergini, è possibile ammirare immagini, documenti storici, ricordi di una realtà che, forse, scomparirà presto.

    Matilde, come ti sei avvicinata alla fotografia? Quando e perché hai scelto di trasferirti a New York?
    Ho iniziato a fare foto a Bologna quando ancora studiavo alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Fotografavo gli amici e le persone che mi più mi incuriosivano.
    Al TPW, Toscana Photographic Workshop, seguii un corso di fotografia proprio durante gli anni universitari. Gli insegnanti erano di New York e furono loro, dopo il corso, a consigliarmi di venire qui per approfondire la conoscenza di quest'arte. Così, dopo un anno e mezzo da quell’esperienza, sono partita all'avventura. Era il 1999.
    La A. M. Richard Fine Art è una galleria importante di Brooklyn. Cosa significa per te far parte di questa exhibition?
    Devo dire che non faccio mostre molto spesso, questo accadeva per lo più i primi anni vissuti qui a New York. Ricordo quanta voglia ci fosse di essere presente, di emergere, a volte a discapito della proprio valore individuale, intendo dire senza quasi considerare la qualità della galleria che ti accettava.
    Adesso penso sia più importante fare foto e raggiungere la propria realizzazione dal punto di vista creativo che trovare il proprio nome su qualche giornale o su Google.
    Io non ho mai pagato per essere presente in una galleria, so che diversi artisti, soprattutto italiani appena giunti a New York, utilizzano questo metodo sperando così di vedersi aprire chissà quali strade. Magari tornati in Italia possono spendere il nome della galleria sulla Broadway o su un’altra via importante ma qui, questo, non conta nulla. I critici e gli addetti ai lavori sanno quali sono gli spazi espositivi qualitativamente alti.
    Ho scelto di fare la mostra perché mi ha entusiasmato il tema proposto. Coney Island ha un fascino tutto particolare, ci puoi trovare i Luna Park più antichi d'America, è stata immortalata fin dagli inizi del secolo da moltissimi fotografi i cui scatti sono poi divenuti dei classici, penso a Weegee e Bruce Davidson.
    Anche se è cambiata, soprattutto negli ultimi tempi, conserva intatta la magia del passato quando era una meta di divertimenti per tutti. Ancora oggi si può incontrare una varietà umana senza paragoni. Personaggi da circo come la donna mangiafuoco, coppie innamorate che passeggiano mano nella mano, giovani gangsters o famiglie portoricane con cinque o sei figli e ombrellone portato da casa. Si possono vedere donne musulmane vestite nei giorni più caldi dell’estate entrare in acqua solo fino alle ginocchia o ebree ortodosse, pallide, sedute sulla sabbia con i loro cappellini antiquati. E infine il mare, liberatorio da qualsiasi tensione.
    C’è l’orizzonte a Coney Island e questo invita il sogno, permette di subire una maggiore stimolazione intellettuale. Penso che per molte persone sia una meta per rilassarsi, sognare e rivivere i tempi in cui il divertimento poteva essere semplicemente una Wonder Wheel, un hot dog ed una spiaggia neanche troppo bella o pulita. Coney Island allora è uno stato mentale, di questo mi sono accorta, uno stato che spero rimanga così, almeno, ancora un po’.
    Il curatore della mostra, Andrew Garn, è un ottimo fotografo. La galleria rappresenta artisti famosi come Jill Freedman e Barbara Mensch ed il fatto che abbia selezionato una mia foto significa che il mio lavoro ha un certo valore ai suoi occhi, questo per me è importante.
    Quali sono le cose che ti colpiscono della realtà e cosa senti quando scegli di fare uno scatto?
    Fotografo seguendo l'istinto, cerco di usare la razionalità il meno possibile. Le mie foto migliori sono nate in momenti in cui ero alla ricerca di qualcosa che fosse allo stesso tempo fuori e dentro di me. La foto, in fondo, è un autoritratto.
    Quella che ho avuto la fortuna di esporre alla mostra è stata scattata a Coney Island solo pochi anni fa. Puoi vedere una bambina sepolta dalla sabbia fino al collo. Soltanto la testa rimane fuori, gli occhi sono chiusi e il viso è imperlato di sudore. A fianco, seduto e di schiena sta il fratello maggiore che l'ha seppellita e che sembra continuare l'opera tranquillo.
    Camminavo, ho visto la scena, l’ho vissuta come un'immagine sofferta ma allo stesso tempo ironica. Perché la bambina si lascia seppellire dal fratello vista la sua espressione d'insofferenza?
    In questa mostra sono presenti fotografie a colori. Normalmente si è portati a considerare il bianco e nero come lo stile dei fotografi professionisti. Ti chiedo proprio questo, il Black&White è considerabile un dogma stilistico imposto? Quale credi possa essere la sua forza?
    Non credo esista un dogma stilistico. Personalmente preferisco la pellicola al digitale, per un discorso di qualità, in special modo parlando di bianco e nero. L’immagine digitale è visibile immediatamente e questo porta a giudicare le foto scattate meno seriamente, in fondo le puoi sempre cancellare. Il negativo non soffre di questa caducità, una volta sviluppato rimarrà nella memoria del fotografo e, si spera, della collettività. Questa condizione ne arricchisce il valore in quanto documento. Il bianco e nero è molto romantico e artistico ma si possono ottenere ottimi risultati anche col colore o lavorando sul colore.
    Parlaci del tuo lavoro, le esperienze vissute, il rapporto coi colleghi.
    Ho lavorato e lavoro tuttora sia per americani che per italiani, sono freelance.
    In riferimento alle mie esperienze qui a New York posso solo dire essere state positive e stimolanti. In questa metropoli se sei richiamata per un lavoro è perché la tua arte è apprezzata e non perché ti conoscono o sanno chi conosci, come succede spesso in Italia.
    Ho amici fotografi e devo ammettere che la competizione per il momento non la sentiamo.
    Sono portata a pensare che ognuno segua il proprio percorso e lavori per raggiungere le proprie mete. Ognuno di noi ha un modo di fotografare personale, quindi diverso, per cui non ha senso per me guardare al lavoro degli altri o, meglio, ha senso solo se lo faccio per imparare e migliorarmi.
    Progetti futuri?
    Sto portando avanti un progetto sulla boxe che ho iniziato nel 2002 e, oltre a continuare le mie foto di strada qui a New York, ho intenzione di documentare in modo più approfondito il Brasile, un Paese che ha un grande fascino ma anche delle grandi contraddizioni dal punto di vista sociale. Matilde Damele www.matildedamele.com Find more photos like this on i-Italy

    Matilde Damele
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  • Il Festival è del popolo. New York, Marlon Brando e i nuovi autori del documentario

    Il New York Documentary Film Festival organizzato e prodotto dalla Fondazione Fitzgerald di Firenze e dal Festival dei Popoli, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura attraverso la figura del direttore Renato Miracco e dell’addetta culturale Art&Cinema Simonetta Magnani, la Mediateca Regionale Toscana Film Commission attraverso il direttore Stefani Ippoliti e la Regione Toscana, Toscana Promozione e Anthology Film Archives è giunto al secondo anno di vita.

    Grande interesse e partecipazione fin dal primo giorno, un successo garantito dall’alta qualità delle opere e dalla capacità di stimolare e proporre l’arte cinematografica del documentario, considerata spesso di nicchia eppure capace di richiamare un pubblico variegato composto da differenti nazionalità e perc

    orsi formativi eterogenei.

    Questa seconda edizione del Festival entra di diritto a far parte del processo di sviluppo che investe il Festival dei Popoli di Firenze, celebrando così l’anniversario dei 50 anni attraverso la diffusione della ricca collezione di film stranieri che ad esso appartengono.

    Fondato nel 1959, il Festival dei Popoli è dedicato alla promozione del documentario cinematografico attraverso la collezione che gli è propria, una collezione cresciuta in questo mezzo secolo divenendo una vera miniera di film documentari che hanno scritto la storia della narrativa cinematografica non di finzione.

    L’obiettivo si posa su una figura mitica del Festival, un regista partecipe da sempre e ancora curioso di sperimentare e di raccontare; il documentarista Albert Maysles.

    Davvero sempre gradito e spesso presente nel corso delle edizioni del Festival fiorentino, Maysles ha aperto personalmente i cinque giorni dell’evento con la proiezione del suo “Meet Marlon Brando”, un documentario in cui dipinge un ritratto più che mai insolito del grande attore americano.

    L’occasione per quest’opera fu colta dal regista nel 1966, anno in cui Brando si mise a disposizione dei giornalisti in favore del film Morituri (1965) dall’interno dell’Hampshire Hotel di New York. Accettando di partecipare ad una maratona di interviste durante l’arco di un’intera giornata, si mise a disposizione dei tantissimi giornalisti, non solamente di grossi networks televisivi ma anche di piccole TV locali sparse per tutto il Paese, presenti o giunti nella Grande Mela.

    Se in quegli anni Brando si proiettava come una delle stelle cinematografiche meno conosciute, questo documento storico ne rivela un lato inedito, più che mai vivace, giocoso, solare, vero principe di un sarcasmo pungente solo pochi anni più tardi, tristemente maestro nell’autodistruzione fisica e professionale negli ultimi decenni di carriera, quando forse la parola carriera già sembrava essere desueta in riferimento a lui, da molti ritenuto il più grande attore di tutti i tempi.

    Al Pacino asserì, dopo aver lavorato assieme sul set de “Il Padrino”, di aver avuto la sensazione di recitare con Dio.

    Un pubblico estremamente divertito dalla capacità di non prendersi sul serio che Brando instilla in ogni momento del documentario, dalla sua mimica facciale, da quegli sguardi diretti all’interlocutore prima, e alla macchina da presa poi, dall’evadere le domande e controbattere, dal corteggiare le belle giornaliste, dall’imitare un rude reporter texano e dal rispondere in altre lingue con una capacità che non ci si aspetta, dal francese al tedesco.

    Alla termine della proiezione i commenti a voce alta degli spettatori, contenti, sorridenti. E quante considerazioni, quante domande poste tra loro su quella figura mitica che il tempo potrà solo rendere ancora più unica. Fuoriuscendo lentamente dalla sala ci si ritrova a chiedersi quanta intelligenza ci fosse in quell’uomo, perché è vero il talento non basta, il talento non è tutto. Ricordiamo un Bernardo Bertolucci distrutto alla notizia della morte di  Marlon Brando che per lui era stato il protagonista di “Ultimo tango a Parigi”. Nelle parole di Bertolucci il ricordo di un uomo fuori del comune, lui che di Brando disse essere una delle persone più dolci che avesse mai conosciuto.

    Ma certamente è giusto anche ricordarlo così, uomo maturo sorprendentemente bello e affascinante.

    Il Festival non si ferma qui ma anzi continua in questi giorni con l’obiettivo che si è proposto fin dal primo anno, rendere protagonisti i documentari d’autore.

    Attraverso un totale di 18 film il tentativo dichiarato di descrive la realtà e la storia filtrandola attraverso l’estetica personale dei differenti registi, questa la forza della manifestazione newyorkese.

    Oltre al “Tributo ad Albert Maysles” si potrà godere anche di “Cronache Italiane”, una selezione delle opere giunte dall’Italia, firmate dai tre documentaristi Alina Marazzi, Leonardo Di Costanzo e Bruno Oliviero. Sei lavori che, sebbene ognuno di essi costituisca la testimonianza più verace dello stile personale di ogni autore, insieme si inquadrano nel panorama della quotidianità italiana a partire dal 1970 ad oggi.

    Infine “50 anni di documentario (50!).”

    Dall’archivio del Festival dei Popoli una selezione di nove dei migliori documentari degli ultimi 50 anni. Anche in questo caso con l’obiettivo di mettere in evidenza autori internazionali come Agnès Varda (regista francese), Alan Berliner (regista americano), Artavazd Pelechian (regista armeno) e Volker Koepp (regista polacco).

    Di seguito il link alla programmazione giornaliera del Festival:
    http://www.thefgf.org/film_schedule.html

  • Ferruccio Gard, emozioni in colori

    Opere che consentono di cogliere la musicalità espressa dai colori e dalle forme all’interno delle stesse. Colori cangianti come quelli della Laguna di Venezia, dove l’artista, Ferruccio Gard, vive e lavora fin dal 1973. Forme che appartengono all’Astrattismo, di cui è uno dei massimi esponenti a livello mondiale, dopo essere stato fra i protagonisti della Optical Art, ricerca che prosegue tuttora con successo.

    La mostra che l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato in suo onore ha portato all'attenzione del pubblico americano una selezione di quadri particolarissimi.

    Nato nel 1941 a Vestigné in provincia di Torino, l’artista piemontese ha visto esporre le proprie opere in più di 200 mostre e partecipato a oltre 200 collettive all’interno dei più importanti musei del mondo. Fuori dall’Europa la sua produzione è stata ammirata in Cina, Giappone, Stati Uniti, Australia, Brasile, Panama, Singapore e Tasmania. E nel Vecchio Continente in Francia, Belgio, Germania, Austria, Danimarca, Svezia, Svizzera, Grecia, Romania e ovviamente Italia.

    Ha partecipato a cinque Biennali Internazionali di Venezia (1982, 1986, 1995, 2007 e 2009) e alla XI° Quadriennale Nazionale di Roma. Della sua arte hanno scritto i più importanti critici come Pierre Restany e Achille Bonito Oliva.
    Cortese, disponibile al colloquio, solare e voglioso di raccontarsi. Lungimirante, propositivo, vivace. Introdotto dal direttore Renato Miracco si e' presentato al pubblico intervenuto all'Istituto Italiano di Cultura con grande generosità.
    Molti ricorderanno Ferruccio Gard anche come giornalista e collega in 90esimo Minuto del compianto Paolo Valenti.
    Come pittore dopo un periodo iniziale in cui si è avvicinato al Surrealismo, e alla Metafisica, caratterizzato da figure geometriche, a partire dal 1978 ha seguito un’evoluzione coerente, programmatica, giungendo alle sponde dell’Avanguardia connessa con la psicologia della percezione e la teoria delle forme.
    In questo senso ha proseguito la ricerca esaminando la relazione tra luce, spazio e forma, generando contrasti cromatici volti a disturbare la percezione visiva.
    Stimolanti, così sono stati descritti i quadri dagli spettatori all’interno della sala espositiva. Capaci di generare quel rumore inconfondibile di sottofondo che è il dibattito.

    La vera protagonista dei suoi quadri è la luce, soffiata quasi nelle interposizioni delle forme generando un senso di instabilità che è concettuale e costruttivo.
    Luce e colori leggeri, naturali, interpretabili come energia spirituale.
    L’arte che lui rappresenta e genera raccoglie l’eredità del Cubismo di Braque, delle forme degli artisti del Cercle et Carré, dell'Astrattismo di Mondrian, Sophie Taeuber e Mac Bill.
    Gard aggiunge a queste tradizioni le proprie personali variazioni, dando un contributo eccellente all’articolazione delle scale cromatiche delle strutture armoniche che le contengono.
    Infine, le forme fanno parte di un universo in cui esse stesse, se confrontate le une alle altre, raggiungono la perfezione di immobilità, unica soluzione capace di comprendere ogni possibile movimento.
    Oggi, ha sostenuto Gard, la questione non è più relativa ad un conflitto ideologico, o se vogliamo teoretico, tra l’arte figurativa e non figurativa. Il vero punto centrale di tutta l’arte è la qualità e il criterio attraverso il quale la si regola e la si giudica. In questo senso compie un ulteriore passo in avanti rispetto alla struttura linguistica che caratterizza il suo stile.
    Divertente, al termine del suo discorso, l'invito al pubblico presente di consolarsi con il vino, offerto per l'occasione dall'azienda vinicola di Nadia Zenato, qualora i quadri non piacessero. Ecco di nuovro quell'ironia e fare dissacrante del giornalista ormai in pensione. Cronista sportivo che riusciva a stemperare le atmosfere più tese nei match più importanti.
    Il primo giugno le opere di Gard verranno esposte anche per le celebrazioni della Festa della Repubblica italiana previste presso Cipriani a Wall Strret.
     

  • Il RAP di Chiara Rapaccini

    Disegni, quadri, illustrazioni, sculture, mobili. Tutto questo fa parte del mondo artistico e fantastico di Chiara Rapaccini. Opere divertenti, colorate, buffe, ricche di senso dell’umorismo.

    “Ero una di quelle bambine che disegnavano molto fin da piccolissime: tanti colori, fogli riempiti fino all’ultimo millimetro, figure decise. Ma i miei genitori non mi hanno mandato all’Accademia di Firenze, mia città natale, perché c’era ‘gente poco per bene’ per una ragazzina borghese come me. Allora ho fatto a meno delle scuole d’arte e questa è stata la mia fortuna perché il virus dell’accademismo non mi ha mai contagiato. Mi sono inventata un segno, un modo di usare i colori, sempre a pennello, senza mai cedere alla matita, e sono andata avanti.”

     Vive a Roma ormai da moltissimi anni.
    Nella capitale, oltre a realizzare silhouettes in legno e mobili per bambini, scrive e illustra libri per ragazzi per le maggiori case editrici italiane.
     
    Nel suo curriculum troviamo cartoni animati realizzati per la RAI e per il cinema, collaborazioni come illustratrice per Corriere della Sera, Repubblica, Manifesto, Gioia e Unità.
     
    Sue mostre personali sono state allestite a Roma, Milano, Venezia, Torino, Osaka e Tokyo.
    E dal 1995 insegna illustrazione per l'infanzia all'Istituto Europeo di Design di Roma.
     
    Il legame col teatro dell’assurdo, con gli autori surreali come Ionesco e Blake, e col mondo dell’illustrazione attraverso Ungerer, Delessert, Claveloux e Couratin, le hanno ‘aperto gli occhi.’
     
    Le opere di questi artisti hanno permesso di farle comprendere che scrivere e disegnare per ragazzi non significa rassicurare ‘bambini inerti e zuccherosi (che di fatto non esistono) e i loro genitori.’ Al contrario, significa mettersi al loro livello per raccontare, sdrammatizzando, i loro piccoli grandi problemi, i pensieri più reconditi, le frustrazioni, i desideri. E sono proprio i bambini il suo pubblico di lettori preferiti.
     

    Un percorso artistico che è diventato anche d'autore in senso più ampio e completo.
    Dieci anni fa ha iniziato l’attività di scrittrice per bambini, ‘il segno grafico non mi bastava più per raccontare.’ Ha così affrontato nuovi temi, reali e naturali, che fanno parte del mondo dei piccoli.
    In quei libri coloratissimi e ironici ha inserito per ciascuno un problema vero di bambini anche piccolissimi: l’ansia di andare a scuola, la paura di essere brutti, la gelosia per i nuovi nati.
     
    ‘Le radici restano toscane’, ammette, ed è da quella regione infatti che ha imparato a ridere di sé stessa prima ancora che degli altri.
    ‘I bambini’ ci dice, ‘sono ironici per natura, infatti ci intendiamo perfettamente.’
     
    Nel 2008 assieme al marito Mario Monicelli ha firmato la sceneggiatura di "Vicino al Colosseo… c’è Monti", cortometraggio fuori concorso presentato a Venezia 65 e proiettato alla mostra, in cui l’occhio del Maestro si posa sul quartiere Monti di Roma dove la coppia risiede da tempo, curiosando qua e là fino a scoprirne i personaggi, le macchiette e le manie.
    Cinema del dettaglio e di pennellate sapienti che in poco più di venti minuti sanno affrescare un mondo che sta a metà tra i panni stesi e le rovine austere di Fori e Colosseo.
     
    Per Monicelli è la prima esperienza nel mondo del cortometraggio, un’esperienza vissuta in compagnia della moglie, sapendo cogliere quegli elementi della quotidianità capaci di raccontare un paese e chi lo popola.
    L’ironia leggera pervade tutto il filmato stimolando la risata. Ci si ritrova così a ridere del cartello “Asta di bici usate”, e dell’insegna appesa alla vetrina di un negozio “A volte non ci sono!”, del macellaio con la passione dei fumetti tenuti in esposizione tra polli e bistecche, del negozio di articoli improbabili con la cucina nel retrobottega e pentola sul fuoco, della banda del rione che si esercita in piazza Madonna de’ Monti, del barbiere che fa la barba a Monicelli come se stesse officiando un rito, e del garage in cui si gioca a carte mentre il regista chiede se fanno lo Scopone.
     
    La creatività artistica si muove quindi in Chiara Rapaccini, capace di trovare nuove idee e tradurle in produzione. Una produzione viva e vitale che sa cogliere nel segno, sorprendere e alleggerire, stimolando il sorriso sui volti degli spettatori raccolti nella grande sala dell’Istituto Italiano di Cultura, e nello spazio espositivo dove le sculture e i quadri hanno preso il proscenio che spetta loro.
     
    Nella New York dove la primavera tarda a venire i colori di RAP creano il mondo che vogliamo, sono le cose giuste da guardare, quelle che ci fanno tornare bambini, quelle che ci permettono ancora di giocare.

  • Enzo Capua. “L'uomo del jazz”

     Enzo Capua, l'italiano che è riuscito a portare il nostro jazz a New York.

    Giornalista, scrittore, regista, produttore televisivo, ma soprattutto grande appassionato di jazz.

    Nella sua lunga carriera si è occupato di musica contemporanea, scrivendo per le principali riviste specializzate e per alcuni importanti quotidiani fin dagli anni '70.  Ma soprattutto è l'uomo della promozione del Jazz italiano qui e  a cui spetta il compito di curare la presentazione di Umbria Jazz oltre oceano.
     

    Enzo è venuto a trovarci in redazione e si è reso amabilmente disponibile a qualcosa di più di semplici domande.  Si è aperto e ha raccontato molto di sè e della sua passione per la musica.

    Un uomo, prima di tutto, prima ancora di essere un grande professionista. Lo abbiamo evinto dalla maniera di porsi, dallo sguardo vivo, dai pensieri lucidi, dalla calma. Una persona estremamente curiosa che non ha mancato di porre a sua volta domande.
     

    Ci è piaciuto il suo modo di ragionare, di vedere le cose, di soffermarsi quel poco di più per approfondire.

    La passione per il mestiere che ha deciso di intraprendere, o da cui forse è stato scelto, lo spinge a porsi nuovi obiettivi, sempre. Anche anticipando i tempi.  È questa lungimiranza accorta e decisa ad averlo reso "l'uomo del jazz" a New York.

    Un genere musicale che l'ha coinvolto fin dai tempi dell'infanzia, ricorda l'entusiasmo del padre per Louis Prima e l'interesse che la madre aveva per Ella Fitzgerald. Ed è quello stesso genere che l'ha accompagnato nella crescita fino all'età adulta, il jazz, capace di permeare anche in altri mondi artistici da lui sperimentati come la letteratura e il cinema, differenti note appartenenti al medesimo spartito, quello della sua passione.

    Enzo Capua affascina chi lo ascolta con le sue ponderate scelte musciali e attrae anche chi lo legge.  Come nel caso di "New York night & day. Storie, voci e suoni della città che non dorme mai", un libro uscito nel 2005, intenso e vivo,  realizzato  battendo palmo a palmo la Grande Mela, città che ha saputo accoglierlo, ospitarlo, rapirlo, fino a diventare la sua casa e forse qualcosa di più.

    Cominciamo la nostra conversazione con Enzo Capua  parlando dell'ultimo  "Umbria Jazz" a New York, appena terminato.
     

    Enzo, come è nato il progetto americano di Umbria Jazz?
    "Tutto è iniziato con l'incontro che ebbi col direttore di Umbria Jazz - Carlo Pagnotta - nel 2003. A quel tempo ero corrispondente di 'Musica Jazz', la rivista italiana più importante del settore. Pagnotta mi parlò del progetto di creare un minifestival a New York nel gennaio del 2004. Si pensava di farlo diventare un mezzo di diffusione di Umbria Jazz in tutto il mondo, cominciando proprio da New York. Nel 2006, dopo qualche anno, si registrò un successo definitivo che ci consentì di allargare la presentazione di Umbria Jazz anche in altri paesi, in Giappone, in Argentina e in Brasile.

    Ora si sta pensando di organizzare, a partire dall’anno prossimo, un tour di Umbria Jazz anche in altre città importanti americane, mi riferisco a Los Angeles, San Francisco e Chicago."

    Che obiettivi si pone il festival?

    "L’obiettivo di Umbria Jazz quando va all’estero è quello di portare sempre musica italiana. Il jazz nel nostro paese è cresciuto in maniera vertiginosa negli ultimi dieci anni, sia nella qualità che nell’ascolto. Ci sono grandi musicisti italiani che non hanno nessun problema ad essere paragonati ai più grandi jazzisti del mondo. Umbria Jazz nello stesso tempo ha fatto in America un grosso sforzo contribuendo in maniera decisiva alla diffusione del linguaggio jazzistico italiano. Perché è vero che il jazz è nato in America ma ormai questo genere musicale si fa dappertutto, e non è detto che quello che si fa in America sia sermpre il migliore in assoluto. Considerando l’Europa, l’Italia è il paese in cui si fa il miglior jazz. La manifestazione qui ha avuto il merito di far conoscere in America molti musicisti importanti italiani invitando i giornalisti di settore americani poi anche in Italia. Questo ha permesso che se ne parlasse sempre di più, arrivando a quella che viene definita ormai una overexposure, una sovraesposizione."

    Dieci anni fa Enzo Capua iniziò la sua avventura americana trasferendosi definitivamente negli Stati Uniti. Ricorda che a quel tempo andando nei negozi di dischi più importanti di New York si poteva trovare nell'angolo jazz un elenco in ordine alfabetico e, a parte, una sezione piccolissima denominata European Jazz. Come dire, “prima c’erano gli americani e poi il resto del mondo.”

    Oggi la musica è cambiata. “Se tu parli coi giornalisti e col pubblico ti accorgi subito di questa realtà. Il jazz italiano ha ormai le porte aperte nei più famosi locali jazzistici, come il Blue Note Jazz. Ciò che è mutato è perciò la consapevolezza.”

    Il jazz italiano è considerato dagli esperti un jazz maturo, adulto, in grado di superare le matrici iniziali, creando anzi un linguaggio autonomo. “In Italia ci sono artisti con un carattere e uno stile tutto proprio. Nella composizione semmai c’è ancora da crescere.”

    C’è un musicista che ritieni possa essere in grado di aprire una nuova strada nel Jazz?
    "Negli ultimi trent’anni è successo un fenomeno mondiale riguardo a questa musica, nel senso che il jazz è diventato sempre più popolare. Oggi tanta gente lo segue perché piace l’idea. Una volta era qualcosa solo per gli addetti ai lavori, i quali erano probabilmente anche un pò snob. Nel contempo è avvenuto un ristagno dal punto di vista delle innovazioni. Siamo nell’attuale fase neoclassica, di ritorno a certi stilemi del passato ma nessuna grande esplosione di novità. Ci sono artisti che fanno cose molto interessanti oggi ma non vedo nessun Miles Davis o John Coltrane o Charlie Parker, personaggi che hanno girato pagina nel jazz, ed è ciò che in verità aspettano un pò tutti."
     

    Fin dagli inizi l'interpretazione jazzistica ha posto un grande accento sull'espressività, e, nel corso degli anni, anche sul virtuosismo strumentale. Come viene visto dunque il jazz contemporaneo da quegli addetti ai lavori? E quanto è difficile per un giovane avere successo?

    "Oggi ci sono i tradizionalisti che pensano più al passato, e coloro che considerano anche l’opportunità di contaminazioni, magari con l’elettronica, col folk, con la cosiddetta etnomusica fusa proprio insieme al jazz.
    L’Italia è il paese in cui d’estate si fa più jazz dal vivo che nel resto del mondo, compresa l’America. Nel periodo tra giugno e settembre si organizzano più di 200 eventi d jazz. Ci sono grandi festival come Umbria Jazz che possono puntare al pubblico, altri festival più ristretti che puntano invece alle nuove proposte d’avanguardia.
    Per quanto riguarda i giovani oggi non ci sono difficoltà per emergere, c’è spazio per imparare, ci sono conservatori con sezioni dedicate al jazz, ci sono scuole, insegnanti.  Dal punto di vista della didattica non vedo difficoltà.

    E devo anche dire che ci sono musicisti italiani che guadagnano molto di più dei loro corrispettivi americani. In America il jazz fa parte del pane quotidiano, molti musicisti americani accettano di suonare anche per poco ma un grande musicista italiano ha invece la possibilità di guadagnare moltissimo per una singola serata. È un momento d’oro da noi."

    Quando è nato il tuo amore per il jazz?

    "Avevo 14 anni.  Il passaggio tra i 14 e i 15 è stato fondamentale perché venni a contatto diretto con due cose che mi hanno segnato: il cinema e la musica. Quando parlo di cinema mi riferisco a “2001 Odissea nello spazio”. Il film, appena uscito alla fine del ’68/inizio ’69, è stato uno spartiacque nella mia vita. Relativamente alla musica il contatto l’ho avuto coi Beatles attraverso i dischi che mia cugina portava a Napoli. Personalmente sono nato con un interesse più vicino al rock, ma quel film mi spinse a cercare qualcosa altrove, sempre. Nel ’70 ascoltai per caso un disco di Miles Davis, alla radio. Ne rimasi talmente affascinato che decisi di approfondire la conoscenza di quell’artista. Mi avvicinai poi a quel tipo di jazz che all’epoca era considerato di ricerca, quello mescolato con l’avanguardia, con altra musica elettrica. Mio padre aveva i dischi di Armstrong, di Nick La Rocca, della Fitzgerald, Luis Prima e di Frank Sinatra, artisti che oggi considero come dei santi. A quell’età però come ragazzo tendevo a controbattere mio padre per una ragione di indipendenza generazionale.
    Per lavoro ho cominciato a occuparmene con le radio private, facendo trasmissioni sulla Radio Rai, tramissioni notturne e pomeridiane come 'Un certo discorso'..unico programma radiofonico con all’interno tutti gli argomenti che potevano interessare ai giovani di quell’epoca, c’era musica, politica e cultura."

    Quali i progetti futuri?

    "Continuare con le produzioni personali e con Umbria Jazz. Avevo un club che si chiamava 'Enzo Jazz' qui a New York all’interno del Jolly Club, spero di poterlo riaprire. Era l’unico club dedicato ai cantanti, uomini e donne, a coloro con una particolare predisposizione per il canto jazz."


    Le donne sono sempre più importanti per il jazz. Tu hai realizzato un evento unico nel suo genere. Un festival dedicato alle donne, si chiamava Italian Women in Jazz. Quest’anno non sei riuscito a proporlo... perchè? E' davvero un periodo così difficile economicamente?

    "A dire la verità sono accadute  una serie di coincidenze, dei ritardi negli accordi con certi club e richieste di artiste che non erano disponibili in quel preciso momento. Mi sono ritrovato privo della possibilità di presentare l’evento. Spero di poterlo riprendere nel 2010.

    Certo la crisi economica è pesante negli Stati Uniti. Chi gestisce un locale deve essere molto più rigido nelle proprie scelte, deve selezionare maggiormente. Non potendo più rischiare come si poteva fare prima tutto diventa più complicato ma non per questo certo impossibile. L'importante è proporre qualità."

    Tu sei anche regista, giornalista e scrittore. Trovi che nel tuo stile letterario ci sia un riflesso di questo genere musicale?

    "Il rapporto con la musica fa parte del mio essere. Certo sicuramente ci sono influenze, ma devono dirlo gli altri.  Quando scrivo però non posso ascoltare musica perché mi disturba, distoglie l’attenzione di cui ho bisogno. La musica assorbe moltissimo la mia energia. Posso avere bisogno magari dei rumori attorno, magari quelli che giungono da fuori, dalla strada."

    È possibile considerare la musica pericolosa?

    "La musica è molto pericolosa, mi ha cambiato la vita radicalmente. C’è un famoso regista che si chiama Wim Wenders che dichiarò di essere appassionato di rock’n roll. 'Se non ci fosse stato il rock’n roll oggi farei altro, non certamente il regista' disse.
    La musica, in bene o in male, ti muta il tuo rapporto con le cose. Più sei sensibile, più assorbi la musica e il tuo rapporto con la realtà ne è compromesso. È la forma d’arte più potente perché è immateriale. Tutte le altre forme d’arte sono materiali, persino il teatro o il cinema sono materiali, le puoi toccare quasi. La musica è nell’aria, sono vibrazioni messe insieme, raccolte, codificate, ma stanno nell’aria."

    Che caratteristiche ha il Jazz italiano?"
    "Il jazz è una musica di interazione emotiva con le persone con cui stai suonando, improvvisare sul momento è un modo molto caldo, molto latino di proporsi. Gli italiani come popolo e come natura non potevano non esserne attratti.
    Oggi il jazz è considerato l'espressione artistica più alta che l'America sia stata in grado di manifestare nell'ultimo secolo, espressione che il nostro paese ha imparato a improvvisare, plasmandola attraverso quel sentire italiano unico e inconfondibile."
     
     

  • Cinema benedetto di un regista maledetto

    “Essere un regista indipendente certamente significa voler raccontare storie indipendenti”, e così è la storia di “Mary” descritta da Abel Ferrara.

    Tre anni estenuanti motivati da difficoltà finanziarie, produttori non trovati negli Stati Uniti, cercati altrove e scovati in Italia. E Alex Grazioli ha avuto così l’idea di seguire e filmare il regista, da lui definito contoversial oltre che indipendente.

    “Mary” è un film sulla religione, sulla storia altra di Maria Maddalena.
    Attraverso i Vangeli ritrovati in Egitto nel 1945 si narra una versione umana della vicenda di Gesù, offrendo un diverso punto di vista sulla figura femminile. Dipinta per anni come una prostituta pentita e poi riabilitata da alcuni brani recuperati proprio nel secolo scorso.
    Moglie o amante di Gesù, forse sororale discepola, queste le ipotesi. Queste le provocazioni.

    Abel è la stella del documentario in cui si mostra totalmente, alternando momenti di forza e di debolezza, di dolcezza ad altri di ira, attimi di lucida follia ad altri di incosciente concentrazione.
    Talento smisurato in grado di esprimersi non soltanto attraverso il cinema ma anche la musica.
    Lo ascoltiamo suonare la chitarra e cantare splendidamente brani da lui stesso composti.
    Un artista dalle grandi potenzialità ma al tempo stesso irrisolto, incompleto per certi versi. Incapace di “fare i conti” col cinema americano, industria nel senso più totale del termine.
    I suoi film stanno ormai diventando di nicchia e i produttori preferiscono altri progetti potenzialmente più redditizi.
    Dove è dunque il problema?
    Forse i tempi sono cambiati, forse Ferrara non è un uomo di questi tempi. Un artista oggi sempre più non si afferma mai solamente attraverso il puro talento, si richiedono altre capacità come quella di conoscere e saper gestire anche le fasi del processo che esulano dall’essere dietro la macchina da presa.
    Questo può essere secondo noi il messaggio e al tempo stesso la provocazione di “Odyssey in Rome”.  Far comprendere la necessità di saper maneggiare il know-how moderno, riuscire a destreggiarsi nell’ambito della produzione, della pubblicità e della distribuzione, elementi concatenati e indispensabili per un progetto fattibile.
    E c'è da chiedersi infatti. Che senso ha aggiudicarsi  il Premio Speciale della Giuria alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia per poi passare quasi inosservato al grande pubblico?

    Alla luce di queste considerazioni come giudicare oggi il panorama cinematografico internazionale? E quale orientamento contraddistingue le majors americane e i produttori indipendenti?
    Forse il problema non è la produzione, o non solamente. Forse il problema non è neppure del "Sistema". Sappiamo benissimo che il risultato di un processo impegnativo e costoso, non solamente dal punto di vista finanziario, come la produzione di un film deve essere il successo al botteghino, il guadagno per fugare ogni possibile dubbio.
    Non si discute l'estro del Ferrara visionario e, in questo caso, mistico; semmai ciò su cui bisogna riflettere è l'utilità  o non di Ferrara all'industria cinematografica.
    Non riscuotendo il successo in grado di soddisfare le necessità dei produttori, questo regista è destinato probabilmente a scivolare sempre più ai margini dello stesso cinema indipendente, divenendo autore di culto per un audience scarsa dal punto di vista numerico, seppure estremamente fedele dal punto di vista partecipativo.
    Il documentario approda così in una terra di nessuno in cui ciò che si consegue non è la felicità. Smuove il fondo sabbioso del mare alzando un numero indecifrato di piccolissimi granuli dorati, tanti quante le domande poste alla fine della proiezione dal pubbilco presente in sala. E forse, quasi per assurdo, è il documentario stesso la vera opera vincitrice.
    Ancora una volta invito all'ennesima valutazione, lungi da noi il desiderio di lanciare discredito sull'opera ferrariana. Ma quanti di coloro che hanno assistito al documentario finiranno per vedere "Mary"?
    In questa domanda ed eventuali risposte forse ancora una provocazione di  "Odyssey in Rome" .

  • L'Aquila tornerà a volare, se avrà "ali ben curate"

    Prima di tutto la lettura dell'intervista realizzata da Andrea Fiano - giornalista di Milano Finanza e Class-Cnbc - a Stefania Pezzopane, Presidente della Provincia dell'Aquila, venti giorni dopo il terremoto. La sala della Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU l'ha ascoltata in silenzio. La Pezzopane, rispondendo alle domande con parole severe e taglienti, ha parlato liberamente, cominciando ad elencare i bisogni primari che devono essere soddisfatti al più presto e che riguardano un numero elevatissimo di persone.

    “Ci sono due principali priorità. La prima è l’assistenza agli sfollati, che sono 70.000. Questa sarà un’emergenza che si protrarrà a lungo, in quanto solo una parte di queste 70.000 persone potrà tornare presto nelle proprie abitazioni.
    La seconda emergenza è connessa alla ricostruzione. Una ricostruzione che deve cominciare immediatamente per mantenere viva la speranza e la fede di coloro che devono affrontare questa tragedia quotidiana.”

    E ancora: “Naturalmente ognuno di noi deve riprendere la propria vita, dobbiamo impegnarci tutti insieme nel creare le condizioni basilari per la gente, mi riferisco alla necessità di dar loro un posto dove dormire, lavarsi e mangiare. E poi dobbiamo pensare ai giovani, a farli tornare a scuola.”

    Subito dopo parla dell’economia della zona:
    “Il grande problema è dato dal fatto che l’economia locale ripartirà con grandissima difficoltà. All’interno del centro storico è pressoché impossibile la ripresa di qualunque attività. Le industrie di molte grandi multinazionali presenti sul nostro territorio hanno subito seri danni e, sappiamo, non sarà facile ricominciare, per lo meno non nel medio termine.”

    Ma ci sono sate disfunzioni nei soccorsi?

    Stefania Pezzopane non ha peli sulla lingua: “L’organizzazione era assolutamente inadeguata ad affrontare una catastrofe di queste proporzioni. Lo stesso Guido Bertolaso (Capo della Protezione Civile Italiana) ha ammesso in un’intervista ad un giornale nazionale che nelle prime 48 ore non c’erano abbastanza tende per tutti. Il Presidente del Consiglio, nella prima conferenza stampa il giorno dopo il terremoto, ha annunciato che 2000 tende sarebbero state disponibili la sera stessa, ma alla sera ne sarebbero arrivate solo 100."

    E poi, secondo dice la Pezzopane, abbiamo assistito ad "un eccesso di trionfalismo".  "La cosa peggiore che questa situazione ha generato in coloro che non erano lì sul territorio è stata la convinzione che tutto stesse procedendo nel migliore dei modi, quando sfortunatamente così non era.”

    Sull'idea di Berlusconi di creare un’Aquila 2 la risposta diventa ancora più ferma: “L’idea lanciata dal Presidente Berlusconi non è solamente impraticabile, è anche inaccettabile. Porterebbe un danno enorme all’identità, alla storia e al futuro dell’Aquila e dell’intera provincia.”
     

    E la presidente  parla della sua Provincia. Lo fa con passione e amore. Della sua storia. Di come L'Aquila sia città millenaria, insieme a Castelvecchio, Santo Stefano e Calascio...  Delle importanti tracce medievali,  dei prestigiosi monumenti e le chiese, dall’antica necropoli di Fossa alla Basilica di Collemaggio...
     

    Accanto al patrimonio storico - tiene a precisarlo -  presenti nell'area anche importanti industrie che, a dispetto della crisi economica in atto, avevano continuato ad essere produttive. Tra le tante i Laboratori Nazionali del Gran Sasso (LNGS), i laboratori di ricerca dedicati allo studio della fisica delle particelle, i più grandi laboratori sotterranei del mondo che si trovano proprio a 1.400 m sotto la cima del massiccio montuoso.

    Un  territorio meraviglioso dunque,  che sebbene abbia mantenuto un basso livello demografico, non superando mai i 70.000 abitanti, è circondato da piccole municipalità che insieme formano una comunità di più di 100.000 abitanti, occupando uno spazio enorme, con le montagne del Gran Sasso, della Maiella e del Velino Sirente.

    La Pezzopane conosce in profondità lo stato della sua terra e dei suoi abitanti.
    “Certamente oggi la città è ferita, così come molte bellezze e aree del nostro territorio sono state danneggiate. In questi giorni sono stati affissi diversi manifesti col simbolo di un’aquila dalle ali spezzate. La scritta su questi poster recita: ‘L’Aquila è ferita ma tornerà a volare.’ È la verità, se le ali verranno ben curate L’Aquila si salverà. La nostra intenzione è ricominciare dalla parte antica, su questo abbiamo già coinvolto la comunità internazionale. Quello che a noi tocca è garantire onestà, l’onestà nella gestione dei fondi, nel raggiungimento degli obiettivi concreti e nella messa al centro del progetto di rinascita i bisogni primari della collettività.”

    E ancora il ricordo delle sensazioni provate negli attimi in cui la terra tremò. Poi la realtà , timori concreti legati alla vita che riprende, che continua.....
    “Da quella terribile notte quando fummo svegliati come da un mostruoso grido di un gigante che ha spezzato i nostri cuori e le nostre vite è rimasta una paura profonda. Dopo la visita del Presidente del Consiglio, dopo la visita del Papa, dopo la grande attenzione da parte dell’opinione pubblica, dei mass media e degli uomini di Stato, c’è la paura, ancora una volta,

    di rimanere soli ad affrontare emergenza dopo emergenza.”

    Seguono alle parole commoventi, e dure al tempo stesso, dell'intervista  le immagini illustrate da Francesco Benelli (Columbia University) in un percorso visivo che sottolinea le bellezze del territorio.
     

    Memoria storica, paesaggi, ma anche memoria individuale. Si innescano benissimo gli interventi di due personaggi molto conosciute nell'ambiente newyorkese:  Anna Teresa Callen, famosa scrittrice di libri di cucina, e Mario Fratti, professore di Letteratura Italiana all’Hunter College, acclamato commediografo e critico.

    Ecco la loro L’Aquila, individuale e, possiamo dire, intima.

    Le basiliche, le chiese, le statue, i palazzi, ma anche e soprattutto le ricette di quella località, i Maccheroni alla chitarra, il Brodetto di pesce, i Timballi, il Capretto cacio e oro, le Testoline di agnello, fino alla Cicerchiata e le Sisse delle monache. Il ricordo di Villa Santa Maria, famosissima scuola di cucina. Queste le suggestioni che Anna Teresa Callen ha voluto condividere con il pubblico.

    La memoria che arriva fino alla Piazza dei Nove Martiri, nove amici, nove suoi coetanei, e l’immagine del padre con le valigie sempre pronte perché da un momento all’altro, diceva, tutto poteva accadere. Questo l'Abruzzo del grande uomo di teatro, Mario Fratti.
     

    Al termine del fimato realizzato da Silvia Minguzzi, Anna Di Lellio (New School) e Stefano Biaggioni, immagini del terremoto, drammatiche...  Alla fine  la basilica Santa Maria di Collemaggio antico luogo di culto situato immediatamente fuori le mura de L'Aquila. Prima del terremoto.

    Nell'auditorio della Casa Italiana Zerilli Marimò due ore vissiute insieme per non dimenticare, ma anche per guardare il presente, costruire. Tutto questo allontanando "facili trionfalismi" che possono nascondere e celare  la realtà durrissima del post terremoto. E dobbiamo vigilare anche da questa parte dell'oceano. Per non non veder ripetere esperimenti di "ricostruzione" post terremoto che sono ancora in corso da anni ed anni. Magari finanziati con il sempre generoso aiuto economico di chi vive negli USA.

  • Cinema. TriBeCa. "Sunspots". Raggi di sole. 18 minuti tra luci ed ombre generazionali

    Un’adolescente divisa tra l’infanzia e l’età adulta. E la sua storia che si muove tra luci e ombre.  Diciotto minuti di sensazioni, emozioni, vita reale. "Sunspots” (Macchie di Sole) di Stella Di Tocco ha richiamato la scorsa settimana una nutrita quantità di appassionati e curiosi presso l’Istituto Italiano di Cultura.

    Il cortometraggio, in concorso al Tribeca Film Festival di New York, è stato l'unico film italiano presente alla manifestazione cinematografica creata nel 2002 da Robert De Niro dopo gli attentati terroristici al World Trade Center, con l'obiettivo di fornire un sostegno economico e culturale al quartiere di Lower Manhattan, ma anche di promuovere New York come una delle capitali del cinema internazionale.
    Simonetta Magnani, addetta culturale Cinema&Art dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, apre l’incontro presentando al pubblico la regista, Stella Di Tocco, giovanissima e solare, lo sceneggiatore madrileno Enrique Esteve, anche lui giovanissimo, e il direttore della fotografia Piero Basso.

    Stella Di Tocco, romana classe 1973, è regista e produttrice. Non essendo riuscita a reperire i finanziamenti pubblici, né statali né locali, ha deciso di autofinanziarsi, pratica comune nel mondo del cortometraggio, chiedendo un no prestito in banca.
    Per questo film, girato in sei giorni e costato intorno ai 20.000€, ha preso ispirazione dal proprio vissuto, scegliendo di raccontare il momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
    “Volevo approfondire quella sensazione di perdita che si ha nella transizione tra le due realtà.
    La mia è una storia di persone e di emozioni.”
    Il processo di scrittura è stato lungo.
    Tutto è cominciato dal racconto, fatto allo sceneggiatore, di una sua storia personale relativa ad una telefonata.
    Dall’idea della telefonata Enrique Esteve ha intrapreso quel processo testuale che lo ha portato alla realizzazione della sceneggiatura stessa.
    Sono diversi i registi a cu si sente vicina, ci dice.
    Sceglie di nominarne due: Lucrecia Martel e Michelangelo Antonioni.
    Di quest’ultimo, “L’avventura” è stato, per questo cortometraggio, il film che più l’ha ispirata.
    “Sunspots” è ambientato in una piccola località sulla costa laziale.
    Adriana, una ragazzina di dodici anni, si trova a passare le vacanze in compagnia della sorella maggiore, Francesca. Quest’ultima, compromessa in una vicenda sentimentale con un uomo sposato, coinvolge la sorella nel fare telefonate anonime all’uomo. A rispondere sarà però il figlio dell’uomo, Tommaso, un bambino più piccolo di Adriana, che rappresenta l’immagine dell’innocenza che proprio lei sta perdendo.
    Adriana alla fine uccide la sua parte più innocente unendosi alla realtà matura e adulta della sorella.

    I raggi del sole che bruciano sulla sua pelle rappresentao la dicotomia ombra/luce.
    Il mondo dell’infanzia è il mondo dell’ombra mentre il sole rappresenta il mondo dell’adulto attraverso il dolore provato sulla pelle dalla protagonista.
    È il dolore che si prova quando si perde qualcosa, un dolore ‘sveglio’ che consapevolmente accettiamo di vivere.
    “La bambina è stata la cosa più difficile da trovare. Doveva avere qualcosa di innocente e allo stesso tempo di malizioso e di malinconico.”
    “Il cinema è un linguaggio, come la letteratura. Leggendo, capiamo cosa ci piace e nello stesso tempo comprendiamo se la nostra passione va oltre, arrivando a metterci in gioco.”
    L'ottima fotografia del film la dobbiamo a Piero Basso, che ben accompagna una storia da un ritmo della ben cadenzato.
    Non è certo facile raccontare con così poco tempo a disposizione, ma in 18 minuti Stella Di Tocco dimostra un’ottima capacità di sintesi, eliminando il rischio di soluzioni manieristiche, riuscendo a infondere nell’opera il proprio stile narrativo.
    Nell'edizione del Tribeca in cui l'Italia non è rappresentata da nessun lungometraggio in concorso, applaudiamo a questa piccola grande opera italiana, frutto della tenacia e della fiducia che una giovane regista è riuscita a conservare, anche di fronte alle difficoltà del sistema cinematografico relativamente al finanziamento per le nuove opere.

  • Alain Elkann ed il contributo ebraico alla Letteratura italiana del Novecento

      L’incontro a Park Avenue presso l’Istituto Italiano di Cultura con Alain Elkann - consigliere per gli eventi culturali e per i rapporti con l’estero del Ministro della Cultura - è stato molto più di un appuntamento legato agli eventi su Giorgio Bassani che si sono sono svolti negli ultimi giorni a New York.

    Davanti ad un’audience selezionata, in presenza del Console Generale d’Italia a New York, Francesco Maria Talò, e dell’Ambasciatore Italiano Giulio Terzi, Elkann ha esortato ad una opportuna riflessione sull'ancora scarsa consapevolezza italiana per quanto riguarda l’influenza ebraica nella letteratura del ‘900.

    Elkann, giornalista e scrittore italiano di origini ebraiche, francesi ed americane ha portato avanti la sua conferenza in maniera molto diretta, competente ma al tempo stesso creando un’atmosfera piacevolmente informale.

    Molti scrittori italiani del dopoguerra sono di origine ebraica. Della generazione cresciuta nel Ventennio, Elkann ha citato i nomi di Moravia, Morante, Ginzburg, Carlo e Primo Levi, e Bassani, annoverandolo fra i più importanti.

    Il fascismo, le leggi razziali e l'occupazione nazista con le grandi deportazioni hanno fatto maturare le coscienze artistiche di queste personalità, permettendo loro di sviluppare il proprio pensiero e proporlo attraverso grandi opere letterarie.

    Elkann ha parlato di mancanza di consapevolezza italiana, una consapevolezza da riscoprire relativamente all’importanza di questi autori nel mondo.

    Molti grandi intellettuali giunsero negli Stati Uniti “grazie” alle leggi razziali, diventando figure chiave nel proprio campo di appartenenza. Nomi e cognomi italiani, di persone che volevano essere riconosciute ebree e italiane. Così tra Roma, Torino e Trieste, il fenomeno del “piccolo ebraismo italiano” si espanse, divenendo maturo e centrale per la conoscenza di nuovi scrittori e per l’arrivo di autori stranieri mai tradotti.

    Bassani ebbe, fra i tanti meriti che gli si devono ascrivere, anche questo. Si impegnò a portare e a far conoscere in Italia scrittori quali T. S. Eliot, Dylan Thomas, René Char, Maurice Blanchot, Georges Bataille e Truman Capote, scoprendo autori fondamentali del nostro Novecento, da Bertolucci a Calvino, da Soldati a Pasolini. E proprio legato a quest’ultimo Elkann torna con la memoria a quando fu lo stesso Bassani a portarlo in Friuli sulla tomba di Pasolini.

    Elkann si  è soffermato poi sulla vicenda legata a “Il Gattopardo”, pubblicato postumo.

    L’aristocratico autore Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì con la malinconia di sentirsi rifiutato da Vittorini lasciando il testo incompleto. Trovò ad accoglierlo Bassani, direttore editoriale della Feltrinelli, instancabile nel rimettere insieme le tante parti del mosaico, fino ad ottenere l’opera definitivamente pronta per le stampe.

    Lunga è la lista degli autori ebrei italiani citati da Elkann, e grande è l’orgoglio di poter scrivere nuove pagine della storia letteraria del nostro Paese.

    Elkann ha celebrato, in un certo senso, anche la nostra lingua quando ha detto con grande enfasi di aver scelto l’italiano perché è la sua lingua madre. Così come lo era per Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, per Umberto Saba, figlio di Felicita Rachele Coen, per Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle, per Primo e Carlo Levi, per Natalía Ginzburg, alla nascita Natalia Levi, fino ad Alessandro Piperno, scrittore italiano nato da padre ebreo e madre cattolica, giunto alla notorietà nel 2005 con la pubblicazione del suo primo romanzo "Con le peggiori intenzioni", riuscendo a conquistare il Premio Campiello come opera prima.

  • Mimmo Rotella. Le radici comuni dell'arte

    Riscoprire quelle radici comuni che hanno sempre tenuto ben saldo il legame tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America, questo è il punto di partenza del percorso visivo su Mimmo Rotella organizzato alla Knoedler Gallery, dal 30 aprile fino al 31 luglio, presso la Knoedler Gallery & Company (19 East 70 Street - New York).

    Basta un primo passo all’interno dello spazio espositivo per immergersi.  Ecco di fronte, in fondo alla lunga sala dalla pavimentazione in parquet, la grande composizione della Pan Am, la compagnia americana nata nel lontano 1927, costituita da tre sezioni verticali poste le une accanto alle altre.

    “Mimmo Rotella: American Icons and Early Work”, organizzata in collaborazione con la Fondazione Mimmo Rotella di Milano, è la prima personale che si tiene a New York dal 2000. Ventuno le opere esposte, ventuno lavori che abbracciano un arco di tempo molto ampio, dal 1954 al 1990, includendo pressoché ogni tecnica creativa sperimentata dall’artista:

     - I retro d’affiches, ovvero la composizione attraverso il collage del retro dei poster staccati a mano proprio da Rotella per le strade di Roma
    - Gli artypos, neologismo nato dalla contrazione delle parole art e typography, in cui Rotella fonde i poster trovati e presi dentro ai negozi di stampe
    - La Mec Art, “mechanical art”, il cui processo non coinvolge più lo strappo di poster dai city walls, ma piuttosto l’utilizzo delle immagini, spesso figure chiave a livello politico e religioso, “rubate” ai magazines e ai giornali. Fotografate, proiettando poi i negativi, a colori o in bianco e nero, su tele trattate con emulsioni fotografiche
    - I photoreportages in cui ingrandisce i negativi proprio dei magazines e dei giornali appena citati, proiettandoli su tele trattate con emulsioni particolari
    - La sovrapittura, nella quale la parte anteriore dei poster viene cancellata da segni nello stile dei graffiti, passandoci sopra una mano di acrilico, un particolare colore, brillante e di rapida essiccazione, ottenuto grazie alla resina
    - I décollages, il processo per il quale Rotella è considerato uno dei primi innovatori, e per il quale è forse meglio conosciuto. La tecnica dello strappo, “lacerate”, dei poster dai muri pubblici, appiccicati su tele per poi essere nuovamente strappati, creando composizioni astratte in un doppio path creativo di construction e destruction
     

    Nessuna attenzione è prestata alle parole o alle immagini stampate sui poster. La volontà è concentrarsi esclusivamente sull’imprevisto accostamento di colori, forme e texture.
    Avrà occasione di sottolineare l’atto distruttivo di collaboratori sconosciuti che, attraverso episodi di “vandalismo”, hanno arricchito i poster di una nuova simbologia, definendoli come segni distintivi della dominazione dello spazio pubblico da parte del linguaggio pubblicitario attraverso i primi effetti sulla modernità della vita quotidiana.
     

    Scrive Meredith Malone, Assistant Curator al Mildred Lane Kemper Art Museum della Washington University di St. Louis: “la superficie dei poster strappati, siano essi presentati dal lato anteriore o posteriore, si mostra come l’opportunità di grandi scoperte per l’artista, al quale, come se stesse ricreando una scena di lotta, offre un’abbondanza di immagini senza fine, dai primi lavori astratti e poi sempre più connessi al consumismo di massa e al cinema.”
     

    Attraverso un percorso parallelo alla Pop Art americana Rotella finisce per distinguersi da essa, riconoscendo l’atto di appropriazione come una convinta e necessaria forma di protesta. “Lo strappo dei poster dai muri cittadini è l’unico modo per riequilibrare una società che ha perso il gusto per il cambiamento.”
    I poster pubblici, va altresì detto, gli offrono l’occasione di avere a disposizione immagini già pronte, liberandolo dalla necessità di inventare nuove “forme”, riducendo perciò al minimo la personale espressione artistica.
     

    Tra il 1958 e il 1960, acquisisce invece un ruolo importante la facciata dei poster nel processo selettivo intrapreso da Rotella. Egli comincia a lasciare le immagini abbastanza intatte, diminuendo così quella lacerazione che lo aveva contraddistinto. In questo modo permette allo spettatore di riconoscere i nomi dei marchi che popolano il mercato, Coca Cola, Scotch Tape, Ritz Crackers, aggiungendo altre immagini dell’industria dell’intrattenimento, siano essi legati al circo o al cinema, rendendolo testimone della rapida espansione dell’economia italiana e dell’imporsi di Roma quale international media capital.
     

    A partire dai primi anni ’60 in poi è emerso l’incanto per la cultura popolare americana affiorando come tema ricorrente nei suoi lavori. La mostra presso la Knoedler Gallery include immagini di tante icone U.S.A. fra le quali Marilyn Monroe, Elvis Presley, John F. Kennedy, Jacqueline Kennedy, Andy Warhol, la Statua della Libertà.
     

    Il sorriso nasce spontaneo in chi questa mostra la scopre, passo dopo passo, immagine dopo immagine, in chi ritrova i miti di un’epoca lontana, magari della propria adolescenza, non scalfiti dal tempo ma anzi resi cristallini, entrati in quello che viene definito “immaginario collettivo”.
    Marilyn e JFK, Jacqueline nella foto in bianco e nero del giorno dell’attentato al Presidente degli Stati Uniti (22 novembre 1963), il 21enne criminale statunitense Billy the Kid, soggetto di ispirazione per molte opere teatrali, dell’industria cinematografica e musicale.
     

    Rotella arriva dunque dove voleva arrivare, al tessuto connettivo degli spettatori.
     

    Piero Mascitti, direttore della Fondazione Mimmo Rotella, spiega come l'arte di questo italiano sia attuale e in grado di dialogare con il mondo di oggi, pur mantenendo profonde e importanti radici storiche.
    “Rotella, attraverso il suo potente immaginario artistico sottolinea le virtù, i pregi ma anche i rischi della società a americana.
    E’ chiaro che Rotella può essere considerato uno tra i più americani degli artisti italiani del secondo dopo guerra. Nonostante sia ormai un artista storicizzato la sua fortuna critica è sicuramente soltanto agli inizi.

    La  galleria Knoedler & Company per questa mostra ha dato un grande contributo in questo senso per far si che Rotella sia uno degli artisti europei più conosciuti negli Stati Uniti per la forza delle sue immagini e la particolare affinità della sua poetica rispetto al cinema.”
     

    Knoedler & Company
    19 East 70 Street - 10021 New York NY USA
    Website    http://www.knoedlergallery.com/
    e-mail    [email protected]
    tel: 212 794-0550
    Aperta
    dalle 09:30 am alle 05:30 pm, dal martedì al venerdì
    dalle 10:00 am alle 05:30 pm, al sabato

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