Fotografia. Tutte le strade portano a Coney Island

Vincenzo Ruocco (June 03, 2009)
Matilde Damele, fotografa italiana newyorkese d’adozione, è presente alla collettiva sulla spiaggia più famosa di Brooklyn

Evado sempre nel regno della fantasia, io, poiché ebbi un'infanzia infelice. Vengo da una famiglia poverissima. Mio padre lavorava a Coney Island, la spiaggia popolare di New York. Aveva in concessione un baracchino, tipo 'Tre palle un soldo',  dove uno doveva buttar giù le bottiglie di latte, vuote, con palle da tennis, cosa che io non riuscii mai a fare durante l'intera infanzia.

Ci fu una specie di maremoto, a Coney Island, quando ero ragazzo. Sbaraccò tutto, portò via il pontile, il Luna Park, le case e tutto quanto - fece danni per un milione di dollari e passa. L'unica cosa che rimase in piedi furono quelle bottiglie di latte...
da “Io e Annie” (1977) di Woody Allen.

Coney Island, la mitica spiaggia immortalata in numerose opere cinematografiche diventate un cult, da “Io e Annie” a “I guerrieri della notte”, rivive in questi giorni un momento di grande popolarità.
La Galleria A. M. Richard Fine Art di Brooklyn ha organizzato la mostra collettiva “All Roads Lead to Coney Island”, dando la possibilità a numerosi artisti di esporre i propri lavori d’arte contemporanea.
Sculture, film, dipinti, ma soprattutto fotografie. E di fotografia vuole occuparsi questo articolo di i-italy, focalizzando l’attenzione su un’artista italiana, Matilde Damele, a New York da dieci anni, arrivata con l’intenzione di seguire la propria passione, scrivere con la luce, ovvero fotografare.
Il grande sogno americano: l'illusione di un mondo meraviglioso in cui tutti sarebbero stati felici. Così Woody Allen sintetizza quello che Coney Island ha rappresentato per gli Stati Uniti, il luogo dell’onirico, l’ennesima location cinematografica di New York, l’ennesimo angolo di una metropoli romanticamente da raccontare.
Intervistiamo Matilde all’interno di questa insolita galleria d’arte di Brooklyn, nello spazio espositivo ricavato in  una graziosissima casa a tre piani dove ci aspetta una porta rossa all’entrata e un enorme vaso di pop-corn. Un’atmosfera allegra e piacevolmente informale avvolge il pubblico che si muove tra le stanze dipinte di un bianco latte dove, su pareti vergini, è possibile ammirare immagini, documenti storici, ricordi di una realtà che, forse, scomparirà presto.

Matilde, come ti sei avvicinata alla fotografia? Quando e perché hai scelto di trasferirti a New York?
Ho iniziato a fare foto a Bologna quando ancora studiavo alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Fotografavo gli amici e le persone che mi più mi incuriosivano.
Al TPW, Toscana Photographic Workshop, seguii un corso di fotografia proprio durante gli anni universitari. Gli insegnanti erano di New York e furono loro, dopo il corso, a consigliarmi di venire qui per approfondire la conoscenza di quest'arte. Così, dopo un anno e mezzo da quell’esperienza, sono partita all'avventura. Era il 1999.
La A. M. Richard Fine Art è una galleria importante di Brooklyn. Cosa significa per te far parte di questa exhibition?
Devo dire che non faccio mostre molto spesso, questo accadeva per lo più i primi anni vissuti qui a New York. Ricordo quanta voglia ci fosse di essere presente, di emergere, a volte a discapito della proprio valore individuale, intendo dire senza quasi considerare la qualità della galleria che ti accettava.
Adesso penso sia più importante fare foto e raggiungere la propria realizzazione dal punto di vista creativo che trovare il proprio nome su qualche giornale o su Google.
Io non ho mai pagato per essere presente in una galleria, so che diversi artisti, soprattutto italiani appena giunti a New York, utilizzano questo metodo sperando così di vedersi aprire chissà quali strade. Magari tornati in Italia possono spendere il nome della galleria sulla Broadway o su un’altra via importante ma qui, questo, non conta nulla. I critici e gli addetti ai lavori sanno quali sono gli spazi espositivi qualitativamente alti.
Ho scelto di fare la mostra perché mi ha entusiasmato il tema proposto. Coney Island ha un fascino tutto particolare, ci puoi trovare i Luna Park più antichi d'America, è stata immortalata fin dagli inizi del secolo da moltissimi fotografi i cui scatti sono poi divenuti dei classici, penso a Weegee e Bruce Davidson.
Anche se è cambiata, soprattutto negli ultimi tempi, conserva intatta la magia del passato quando era una meta di divertimenti per tutti. Ancora oggi si può incontrare una varietà umana senza paragoni. Personaggi da circo come la donna mangiafuoco, coppie innamorate che passeggiano mano nella mano, giovani gangsters o famiglie portoricane con cinque o sei figli e ombrellone portato da casa. Si possono vedere donne musulmane vestite nei giorni più caldi dell’estate entrare in acqua solo fino alle ginocchia o ebree ortodosse, pallide, sedute sulla sabbia con i loro cappellini antiquati. E infine il mare, liberatorio da qualsiasi tensione.
C’è l’orizzonte a Coney Island e questo invita il sogno, permette di subire una maggiore stimolazione intellettuale. Penso che per molte persone sia una meta per rilassarsi, sognare e rivivere i tempi in cui il divertimento poteva essere semplicemente una Wonder Wheel, un hot dog ed una spiaggia neanche troppo bella o pulita. Coney Island allora è uno stato mentale, di questo mi sono accorta, uno stato che spero rimanga così, almeno, ancora un po’.
Il curatore della mostra, Andrew Garn, è un ottimo fotografo. La galleria rappresenta artisti famosi come Jill Freedman e Barbara Mensch ed il fatto che abbia selezionato una mia foto significa che il mio lavoro ha un certo valore ai suoi occhi, questo per me è importante.
Quali sono le cose che ti colpiscono della realtà e cosa senti quando scegli di fare uno scatto?
Fotografo seguendo l'istinto, cerco di usare la razionalità il meno possibile. Le mie foto migliori sono nate in momenti in cui ero alla ricerca di qualcosa che fosse allo stesso tempo fuori e dentro di me. La foto, in fondo, è un autoritratto.
Quella che ho avuto la fortuna di esporre alla mostra è stata scattata a Coney Island solo pochi anni fa. Puoi vedere una bambina sepolta dalla sabbia fino al collo. Soltanto la testa rimane fuori, gli occhi sono chiusi e il viso è imperlato di sudore. A fianco, seduto e di schiena sta il fratello maggiore che l'ha seppellita e che sembra continuare l'opera tranquillo.
Camminavo, ho visto la scena, l’ho vissuta come un'immagine sofferta ma allo stesso tempo ironica. Perché la bambina si lascia seppellire dal fratello vista la sua espressione d'insofferenza?
In questa mostra sono presenti fotografie a colori. Normalmente si è portati a considerare il bianco e nero come lo stile dei fotografi professionisti. Ti chiedo proprio questo, il Black&White è considerabile un dogma stilistico imposto? Quale credi possa essere la sua forza?
Non credo esista un dogma stilistico. Personalmente preferisco la pellicola al digitale, per un discorso di qualità, in special modo parlando di bianco e nero. L’immagine digitale è visibile immediatamente e questo porta a giudicare le foto scattate meno seriamente, in fondo le puoi sempre cancellare. Il negativo non soffre di questa caducità, una volta sviluppato rimarrà nella memoria del fotografo e, si spera, della collettività. Questa condizione ne arricchisce il valore in quanto documento. Il bianco e nero è molto romantico e artistico ma si possono ottenere ottimi risultati anche col colore o lavorando sul colore.
Parlaci del tuo lavoro, le esperienze vissute, il rapporto coi colleghi.
Ho lavorato e lavoro tuttora sia per americani che per italiani, sono freelance.
In riferimento alle mie esperienze qui a New York posso solo dire essere state positive e stimolanti. In questa metropoli se sei richiamata per un lavoro è perché la tua arte è apprezzata e non perché ti conoscono o sanno chi conosci, come succede spesso in Italia.
Ho amici fotografi e devo ammettere che la competizione per il momento non la sentiamo.
Sono portata a pensare che ognuno segua il proprio percorso e lavori per raggiungere le proprie mete. Ognuno di noi ha un modo di fotografare personale, quindi diverso, per cui non ha senso per me guardare al lavoro degli altri o, meglio, ha senso solo se lo faccio per imparare e migliorarmi.
Progetti futuri?
Sto portando avanti un progetto sulla boxe che ho iniziato nel 2002 e, oltre a continuare le mie foto di strada qui a New York, ho intenzione di documentare in modo più approfondito il Brasile, un Paese che ha un grande fascino ma anche delle grandi contraddizioni dal punto di vista sociale. Matilde Damele www.matildedamele.com Find more photos like this on i-Italy

Matilde Damele
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