Essere a Gerusalemme, oggi

Gennaro Matino (September 10, 2017)
Essere a Gerusalemme in questi giorni è anche essere protagonisti di un tempo che ancora non riesce a lasciarsi coinvolgere dal grido della vita, della pace, la stessa pace che il Risorto annuncia ai discepoli prigionieri nel cenacolo. Si avverte che basta un nonnulla per scatenare l’inferno. Non puoi non farti domande di senso quando partecipi alla memoria del popolo eletto, pregando a quel muro che racconta vestigia passate e ricorda il tempio distrutto mentre i giovani, ormai adulti per quella comunità, leggono la Thorà. Non puoi non farti provocare dall’altro muro, diverso da quello del pianto, ma comunque bagnato di lacrime, eretto per dividere il destino di due popoli.

Essere a Gerusalemme è respirare Pasqua, vita e morte che si mischiano insieme nella fede di chi crede, nella quotidianità di chi vive questo lembo di terra, così ricco di storia, così pieno di contraddizioni. Ero lì a luglio mentre divampava la protesta che faceva morti, ci sono ritornato in settimana. Un posto unico al mondo dove si percepisce che qui si gioca la pace, il destino del mondo, una terra oltre le sue mura, aperta al futuro, arroccata al suo passato. Un grido di pace che riguarda anche noi cittadini di altrove che da qui abbiamo origine e qui invochiamo un destino sicuro per i figli nostri, per i figli del mondo. Un grido che coinvolge, che arriva allo stomaco, e commuove come l’amore innocente che spacca la banalità del vivere. Essere qui è respirare la pace, non quella che il mondo ancora non conosce, ma quella che arriva dentro, che fa rinascere l’uomo dall’Alto e lo apre a nuovi orizzonti.

La Basilica della Resurrezione è un crocevia di popoli, pianto di genti e gioia incontenibile di sorprese. Il marmo dell’unzione, subito all’ingresso del tempio, è unto misto di olio profumato e lacrime, tenute nascoste da tempo, ora libere di essere versate, senza pudore. Poco importa del rumore estraneo, non si avverte fastidio per i passi del passeggero distratto arrivato qui da turista, per pura curiosità, non distraggono i flash delle fotocamere, veloce contatto con una pietra che resta con il solo sapore del marmo. Chi è qui per sfondare il muro dell’apparenza, chi è qui per rimuovere la pietra e oltrepassare la barriera del terzo giorno è troppo teso e coinvolto per non abbracciare la luce di Pasqua, nemmeno sente il rumore dei passi senza memoria. Qui, proprio in questo sepolcro, il Figlio dell’uomo ha sconfitto la morte, quella definitiva, ma non ancora quella che i figli degli uomini si portano dentro.

Essere a Gerusalemme in questi giorni è anche essere protagonisti di un tempo che ancora non riesce a lasciarsi coinvolgere dal grido della vita, della pace, la stessa pace che il Risorto annuncia ai discepoli prigionieri nel cenacolo. Si avverte che basta un nonnulla per scatenare l’inferno. Non puoi non farti domande di senso quando partecipi alla memoria del popolo eletto, pregando a quel muro che racconta vestigia passate e ricorda il tempio distrutto mentre i giovani, ormai adulti per quella comunità, leggono la Thorà. Non puoi non farti provocare dall’altro muro, diverso da quello del pianto, ma comunque bagnato di lacrime, eretto per dividere il destino di due popoli.

Qui, o altrove, il muro innalzato dall’odio insensato, da menzogne passate per verità, è sempre lo stesso, uguale in qualunque frontiera che mette uomo contro uomo, fratello contro fratello. Limite che ragiona separando per sesso, per razza, per condizione sociale, religiosa, economica. Mare che affoga speranza di popoli in cerca di casa, confini di sangue che limitano territori di spaccio e di camorra. Confini di pietra eretti a protezioni, riserve mai sicure per accogliere alcuni ed escludere il resto, tutto il resto con l’unica colpa di essere diversi. Gerusalemme come New York, Napoli come Parigi, il mondo, le sue mura, la guerra è già in atto. Testimone occasionale, alla barriera di uno dei tanti check-point, ho visto il pianto di chi in casa propria si sente prigioniero.

Un padre, israeliano, tre bambini per mano, cercava di tornare a casa da Betlemme, ma il varco non era quello giusto, da lì passano solo le auto e l’altro varco era già stato chiuso. «Devo tornare a casa, mia moglie è in pena». «Da qui non si passa». Una risposta secca, metallica come il rumore delle armi, che non lascia spazio al dialogo, alla pietà, alla compassione. La voce dell’uomo, a guardia di quel confine contro natura, non aveva più nulla di umano. «Da qui non si passa». Faccia a faccia, l’ebreo e l’ebreo, il padre e la guardia. L’uno col volto segnato dalla sofferenza, l’altro, senza espressione, col fucile puntato. Grida, urla, spintoni, tre creature impaurite e il loro pianto dirotto. Ripensavo al sepolcro vuoto, ma l’immagine che ora tornava alla mia mente era quella di Cristo nell’orto degli Ulivi, sentivo la sua angoscia, la sua paura, la stessa che ora provavano quei bambini, avvinghiati alle gambe del padre, ancora troppo piccoli per bere quel calice amaro.

Quanto lontano mi sembrava Gerusalemme, quanta distanza aveva provocato quel pianto di bambini, che ora evocava in me il pianto di Maria ai piedi della croce. Quante madri ancora dovranno piangere i loro figli a Gerusalemme, quanti ancora nelle nostre strade, nei nostri vicoli, nelle metropoli del mondo mai sicure, sempre bisognose di pace. Quanto lontana mi sembrava, adesso, la Basilica della Resurrezione, eppure ero ancora a Gerusalemme.

*Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli

 
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