Italiani a New York: due generazioni a confronto.

Doriana Varì (August 03, 2012)
Due storie estremamente diverse eppure sorprendentemente simili: iniziano a quasi quarant’anni l’una dall’altra, ma hanno al centro la stessa ambizione di migliorarsi, lo stesso rispetto e ammirazione per un paese che ha accolto le loro protagoniste e la stessa nostalgia di una casa lontana.

In Italia il Sogno Americano nasce intorno alla seconda metà del 1800 quando gli abitanti del Bel Paese iniziano a emigrare verso l’America, un continente affascinante per la sua ricchezza, per l’agio, per lo sviluppo. Chi partiva sperava che la propria intraprendenza per aver lasciato il paese natale, e il proprio coraggio di andare incontro a un mondo sconosciuto sarebbero stati ricompensate da più agiate condizioni di vita.

La grande ondata migratoria quasi si esaurì durante gli anni del Fascismo (anni, comunque,

durante i quali in Italia dilagava il Mito Americano ossia quel mito incarnato dall’America, modello di una libertà che in Italia il Fascismo impediva) per poi ricominciare dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Solo dopo il cosiddetto miracolo economico (ossia quella crescita economica che l’Italia vide all’interno dei suoi confini tra gli anni '50 e '70 del ventesimo secolo) l’afflusso migratorio degli italiani verso l’America cominciò a placarsi; tuttavia il concetto di quel Sogno Americano nato a metà del 1800 non è mai del tutto tramontato: intorno agli anni '60 l’Italia cantava insieme a Renato Carosone “Tu vuò fà l’americano” e nel 1971 Gigliola Cinquetti chiedeva “Mamma mia dammi 100 lire che in America voglio andar”.

La difficile situazione economica in cui versavano molte famiglie italiane spingeva numerose persone a emigrare verso paesi come la Germania e il Brasile, ma la meta più gettonata era l’America del Nord in virtù proprio di quel Sogno Americano mai crollato. Chiacchierando in un locale o in un negozio è facile imbattersi in persone di origine italiana: si tratta per lo più di giovani figli di immigrati che con non molte difficoltà riescono a intrattenere una buona conversazione in italiano. Queste persone sono perfettamente integrate nell’ambiente in cui vivono poiché sono nati o almeno cresciuti negli Stati Uniti, ma i loro genitori hanno spesso trascorsi tristi.

In un piccolo paesino del New Jersey vive, insieme a suo marito, una signora italiana che nel 1972, insieme alla sua famiglia, ha lasciato il suo paese. “A Monte San Giacomo (piccolo centro della provincia di Salerno)” racconta la signora “avevo un piccolo negozietto di generi alimentari che io gestivo insieme a mio marito. Avevamo tre bambini piccoli, e la nostra situazione economica non era peggiore di quella di altre famiglie, riuscivamo a non farci mancare il pane, ma volevamo qualcosa di più.”… “Qualche anno prima mia madre e due delle mie sorelle avevano lasciato Monte San Giacomo e si erano trasferite qui, negli Stati Uniti. Ci raccontavano della loro vita e ci chiedevano continuamente di raggiungerle, così, poco a poco, io ho iniziato a pensare veramente a una vita lontana dal piccolo centro della provincia di Salerno, nonostante mio marito non ne fosse del tutto convinto visto che la sua famiglia viveva in Campania; comunque, alla fine, armati di coraggio, decidemmo che saremmo partiti”… “Ricordo con precisione il momento in cui ho visto questa terra per la prima volta: l’America non era come la sognavo e non era esattamente come ce la raccontavano, ero spaventatissima, solo la vicinanza di mio marito e dei miei tre bambini mi hanno impedito di piangere: volevo tornare indietro!”… “Siamo stati accolti qui dal marito di mia sorella che ci ha portato ad Hobocken (NJ), in quello che sarebbe stato il nostro alloggio: non sono mai riuscita a definire quel posto <<una casa>>, era nulla di più che una stanza con dei letti non separati dalla cucina. Rimpiangevo la mia casa nel Sud Italia, quella casa che avevamo lasciato e in cui, in fondo, stavamo bene.”… “All’inizio è stata dura: non solo sentivamo una grande nostalgia di casa, ma non conoscevamo una sola parola d’inglese. Mio marito ha subito iniziato a lavorare in una pasticceria, ma dopo pochi giorni è stato costretto a lasciare quell’impiego.

Ha poi lavorato come muratore per un immigrato campano, ma nonostante le molte ore di lavoro, la paga era bassa e non bastava a sostenere l’intera famiglia così ha deciso di fondare una piccola società con un parente acquisito, sempre lavorando come muratore. La società però non è durata molto, e presto i due soci hanno pensato di dividersi. Mio marito ha quindi cominciato a lavorare per conto proprio. Lavorava davvero duramente. Io intanto avevo trovato un impiego: cucivo, ed ero fortunata perché potevo svolgere il mio lavoro a casa, diversamente avrei dovuto rinunciarvi avendo dei bambini piccoli e non avendo nessuno a cui affidarli. Comunque, dopo qualche anno avevamo cambiato appartamento, i nostri figli crescevano e si integravano perfettamente nella società americana; eravamo persino riusciti ad accendere un mutuo per acquistare la casa dove viviamo ora.”

“Dopo un inizio difficile, devo dire che adesso mi trovo benissimo qui: i miei figli sono andati all’università e ora hanno impieghi che non costringono a sacrifici come quelli che abbiamo affrontato io e mio marito, e già questo mi rende felice.” Finalmente negli occhi della signora si è accesa una luce diversa mentre spiega “in fondo l’Italia non mi manca più, vivo qui da quasi quarant’anni, la mia famiglia è qui, la mia casa è qui, la mia vita è qui. Mi piace tornare una volta l’anno al piccolo paese natale, vedere i miei parenti e le persone che frequentavo da ragazza, ma mi assicuro sempre di aver comprato anche il biglietto di ritorno!”.

Oggi gli italiani alla sempre famosa canzone di Gigliola Cinquetti, preferiscono canzoni di artisti americani e qualcuno ha pensato di volgere in versione remix l’immortale “tu vuò fà l’americano”. E’ forse, questo, il sintomo di una nuova ondata migratoria che dalla penisola italica muove nuovamente verso l’America? Basterà soffermarsi a pensare pochi attimi per accorgersi che chiacchierando in un locale o in un negozio è facile imbattersi tanto in persone di origine italiana quanto in italiani solo recentemente arrivati in America. Si tratta soprattutto di ragazzi che per lo più non superano la trentina, ragazzi che lasciano l’Italia armati in genere di sogni ed ambizioni, con il cuore in gola per il timore e una valigia pesante di saluti e raccomandazioni.

A New York, in un luminoso appartamento a Manhattan, vive Federica Mercuriello, una energica ventottenne che nel 2008 ha lasciato il suo Paese. “Dopo aver conseguito la laurea in Italia ho subito trovato un lavoro con cui riuscivo a pagare le mie spese” racconta piena d’entusiasmo Federica, “ma non mi bastava, sentivo che potevo ancora impegnarmi per migliorare, così, avendo vinto una borsa di studio, dopo una serie di ricerche, ho visto che la Columbia University proponeva il master che mi interessava, così mi sono data da fare, decisa a superare il test d’ammissione.

Una volta ricevuto l’esito positivo tutto è successo velocemente: nell’arco di una settimana, eccitatissima, ho lasciato il mio lavoro e mi sono trasferita nella Grande Mela: iniziavo i corsi all’università con due settimane di ritardo, per cui dovevo recuperare tutto il lavoro arretrato e rimettermi in pari con il programma, per questo, almeno immediatamente, non ho avuto modo di guardarmi intorno e farmi impressionare dalla città, quello che ricordo, però, è il senso di smarrimento che ho provato: non avevo avuto tempo di cercare un alloggio, quindi ho trascorso le prime cinque notti in un albergo, e tra le luci di questa città che non dorme davvero mai, tra la gente che cammina frettolosamente lungo i marciapiedi, mi sentivo spaesata, quasi stordita, ero veramente tentata a tornare a casa mia, tra le mie cose, nella calma del mio pesino di provincia.

Lo studio però mi coinvolgeva,” spiega orgogliosa Federica, “e alla fine ho deciso di tenere duro e di rimanere qui”... “A posteriori devo ammettere che è stata una scelta saggia, ma sul momento è stata dura: il mio inglese non era ottimo, e l’integrazione non è stata semplice: i miei compagni di corso americani non erano particolarmente amichevoli: erano molto concentrati sullo studio, tutti estremamente competitivi, sembravano non avere tempo né voglia di relazionarsi con me” … “Ancora oggi, se c’è una cosa che mi manca dell’Italia, credo sia proprio la calma con cui scorre la vita e la cordialità delle persone: non penso sia casuale il fatto che le persone che frequento di più siano tutte europee o sud americane, tutte persone con cui condivido il modo di percepire e condurre i rapporti interpersonali… e poi c’è quel pezzo d’Italia a cui non potrei rinunciare, un angolo che mi sono ritagliata istintivamente: mi piace uscire con italiani che come me si trovano qui per motivi di studio o di lavoro, sono proprio gli italiani le persone con cui ho contatti più di frequente, anche solo per bere un caffè, fare una passeggiata, o semplicemente fare un saluto.”

“Vivo a New York da più tre anni” continua Federica accennando un sorriso più disteso, “ormai il mio inglese è fluente, mi sono perfettamente adattata alla mentalità americana, e ho trovato un lavoro che mi piace e che mi permette un tenore di vita abbastanza agiato (e so bene che probabilmente in Italia questo non sarebbe stato possibile), ma devo ammettere che penso sempre alla mia terra: sono veramente decisa a tornare in Italia: non so bene quando questo avverrà, ma sono certa di non saper rinunciare a quel calore tutto italiano, a quel sereno scorrere della vita.”

Quella della signora campana e quella di Federica sono due storie estremamente diverse eppure sorprendentemente simili: iniziano a quasi quarant’anni l’una dall’altra, ma hanno al centro la stessa ambizione di migliorarsi, lo stesso rispetto e ammirazione per un paese che ha accolto le loro protagoniste e la stessa nostalgia di una casa lontana: sono storie allo stesso modo affascinanti poiché il loro epilogo è ancora da scrivere.

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