Articles by: Doriana Varì

  • Fatti e Storie

    Ottavio Missoni. Ci lascia un maestro di stile

    Ottavio Missioni, attento alle sue origini dalmate, fu, sin dalla giovinezza legato all’Italia dove
    si trasferì subito dopo la guerra, infatti nel corso della sua carriera sportiva non smise mai la maglia azzurra nelle specialità dei 400 metri piani e 400 ostacoli che lo portarono alla conquista di otto titoli nazionali e di un campionato mondiale studentesco.
     

    Più che per le sue performance sportive, comunque, Ottavio Missoni è noto al mondo intero per essere un maestro di stile L’impegno nel campo della moda sembra arrivare in maniera casuale: sposa una ragazza lombarda la cui famiglia possiede una piccola impresa tessile, e decide, insieme alla giovane moglie, di cominciare a produrre, in un piccolo laboratorio di Sumirago (VA), degli indumenti sportivi, tra i quali spicca la tuta Venjulia, di sua ideazione, grazie alla quale l’azienda ha i primi successi perchè adottata dal team italiano durante i giochi olimpici di Londra nel 1948.
     

    Il vero e proprio salto avvenne però quando la nota catena “La Rinascente” commissionò ai Missoni, che pian piano avevano ampliato la piccola azienda, 500 abiti a righe: l’inizio di un successo che porta oggi gli abiti Missoni non solo nelle Boutique ma anche nei musei di tutto il mondo: nel MoMa a New York, nel Museum of Art a Dallas, nel Museum of Costum a Bath.

    “Il successo del marchio Missoni è dovuto alla perseveranza dell’osare” ripeteva il patriarca del brand, che per primo aveva mescolato punti di fantasie e colori che mai nessuno avrebbe osato accostare, creando un incantevole caleidoscopio di motivi e tinte.
     

    Il marchio Missoni raggiunge l’apice del successo tra gli anni 60 e gli anni 70: la produzione coinvolge ora oltre che l’abbigliamento e gli accessori, anche la biancheria per la casa e i costumi da bagno: nel 1973 i Missoni ricevono così il premio Neiman Marcus Fashion Award, un’onorificenza molto prestigiosa, corrispondente a un premio Nobel per la moda, inoltre negli anni successivi le boutique proliferano non solo in Europa, ma anche in medio oriente, a New York, in Giappone, così il marchio Missoni si consolida come sinonimo di un’eleganza colorata.

    Dopo 50 anni di successi nel campo della moda e dello sport, qualche giorno fa, dallìinizio del 2013 la famiglia missoni è vittima di una serie di tragedie: all’inizio di Gennaio, la scomparsa del veivolo su cui viaggiava Vittorio Missoni aveva fortemente colpito l’anziano padre Ottavio che non aveva mai superato il trauma della perdita e del mancato ritrovamento del figlio. A distanza quattro mesi Ottavio Missoni muore nella sua casa di Sumirago accanto alla sua famiglia all’età di 92 anni a causa di una crisi cardiaca.

    La morte di Ottavio Missoni, uno dei signori dell’alta moda italiana, rappresenta per il made in italy la perdita di un maestro di stile dotato di una particolare sensibilità agli accostamenti cromatici e ai motivi geometrici che rendevano i tessuti di questo marchio riconoscibili in tutto il mondo.

    Ora i figli di Ottavio Missoni, Angela e Luca si occuperanno della direzione dell’azienda di famiglia. Di certo sapranno conservare quello stile che ha reso Missoni inconfondile e apprezzato, sapranno preservare una dimensione più vicino possibile a quella dell’artigianato che il patriarca del brand decantava con tanto orgoglio, e saranno certo in grado di pregiare il made in Italy di un marchio così popolare.

  • Fatti e Storie

    Giro d'Italia 2013. Parte da Napoli!

    Da quasi un secolo, in piena primavera, quando il campionato di calcio si è quasi concluso, gli amanti dello sport svuotano gli spalti degli stadi per ritrovarsi sui cigli delle strade di tutta la penisola, anche qui muniti di striscioni e armati di grida, ma non più cori unanimi, solo  frasi di incitamento; non più fumogeni da lanciare in campo, ma bottiglie d’acqua che rinvigoriscano i corridori; davanti alla tv non più uomini e ragazzi avvolti nelle sciarpe colorate dei toni della squadra del cuore, niente più <<goal>>, solo tante famiglie riunite che nell frescura del proprio appartamento apprezzano da lontano gli svariati paesaggi coloratissimi che fanno da sfondo ai corridori.

    Già, perché dopo lunghi inverni in cui il calcio è anche troppo spesso accompagnato da polemiche e violenze, finalmente in primavera sboccia uno sport che gli spettatori apprezzano con lo stesso zelo, ma con meno aggressività: il ciclismo.
     

    Giunto alla sua novantaseiesima edizione, il Giro d’Italia è partito, dopo cinquant’anni, da Napoli sabato quattro maggio: il mare e le vie della bella città partenopea, Chiaia, Mergellina, Posillipo, hanno fatto da sfondo alle biciclette da corsa.
     

    I napoletani non hanno fatto mancare ai duecentosette corridori l’entusiasmo per cui sono noti in tutto il mondo.

    “Il ciclismo è uno sport che coinvolge tutti”, “è bello vedere una città caotica come Napoli, finalmente ripulita dal trambusto quotidiano” sono questi i commenti dei cittadini, a cui si aggiunge quello del sindaco De Masgistris “ottenere la partenza del Giro d’Italia è un risultato straordinario perché le biciclette che attraversano il lungomare liberato portano coi loro colori anche una nuova immagine di una città troppo spesso nota solo per i suoi aspetti più bui. Tra l’altro l’arrivo della carovana del Giro d’Italia rappresenta anche un cospicuo indotto economico che in un periodo così critico non è da sottovalutare, si tratta di cifre economiche importanti e di posti di lavoro che per quanto temporanei aiutano alla sopravvivenza”.

    E il Giro del 2013 parte in effetti nella maniera più positiva possibile: poche o nulle le polemiche che riguardano il percorso in programma che si dividerà in ventuno tappe (tre delle quali già disputate), né per quanto riguarda l’organizzazione sobria; inoltre, dato ancor più importante, nessun corridore è stato fino a ora squalificato a causa del doping.

    Come spiega Michele Acquarone, responsabile del Giro 2013 e direttore generale di Rcs Sport “c’è un entusiasmo diffuso, c’è stato un grande lavoro per disegnare un Giro equilibrato affinché ogni tipologia di corridore possa avere la sua grande occasione. Speriamo di regalare agli spettatori e ai tifosi non solo la gara ma anche lo spettacolo perché in un momento così delicato per il Paese speriamo di portare un filo rosa di speranza e di gioia insieme alle biciclette: tante volte il Giro ha aiutato l’Italia, speriamo che possa farlo anche questa volta, speriamo che mostrando in tutto il mondo i panorami italiani a qualcuno venga voglia di visitarli”.

    I corridori, partiti da Napoli, pedaleranno quest’anno per 3.405,3 km sino all’arrivo previsto per il 26 maggio a Brescia.

    Di strada ce n’è ancora tanta da “pedalare” per i ciclisti del Giro, intanto l’appuntamento è per domani, al chilometro 244 a Policastro Bussentino (SA) mentre per celebrare l’arrivo tutti i tifosi saranno riuniti a Serra San Bruno (VV). Chi invece non potrà godere dell’entusiasmo del Giro dal vivo si accontenterà di seguire la diretta trasmessa in tutto il mondo dalla Rai e apprezzare da lontano gli scorci e i panorami mozzafiato di un’Italia nascosta, affascinate e arcana che le biciclette percorreranno ancora una volta.

  • Arte e Cultura

    Festival di Roma tra fischi e applausi



    Grandi locandine affisse per le strade della città annunciavano l’imminente apertura del festival più atteso dalla capitale: dal 9 al 17 Novembre, Roma ha aperto le porte al Festival Internazionale del film. Un’iniziativa nata nel 2006, che si ripete annualmente e che riscuote sempre maggior successo di critica e di pubblico.
    La manifestazione si è svolta per lo più presso l’Auditorium Parco della Musica,  il complesso architettonico firmato da Renzo Piano (che, tra le altre cose, ha progettato il New York Times building), che ha ospitato le principali sale di proiezione, il red carpet e il Villaggio del Cinema; ma l’intera città si è mobilitata per la riuscita di un evento che i romani amano ospitare.
    Per nove giorni consecutivi gli amanti del cinema hanno potuto assistere alle proiezioni dei film in concorso, e l’intera manifestazione è stata seguita con interesse ed entusiasmo: i twitt e i post su facebook raccontavano, via via, ciò che il festival presentava.
    Il festival romano è gemellato con il TriBeCa Film Festival di New York, fondato nel 2002 da Jane Rosenthal e Robert De Niro in risposta agli attentati dell'11 settembre 2001 al World Trade Center e la conseguente perdita di vitalità dell'area vicina di TriBeCa a Manhattan, e giunto alla sua settima edizione presenta una sorprendente varietà di film: non solo europei, ma anche orientali e americani sono i registi che hanno presentato a Roma le loro produzioni: Roman Coppola, Gabriel Polsky e Alan Polsky, Michele Placido sono solo alcuni dei nomi di spicco.
    Dopo nove giorni trascorsi tra proiezioni di film inediti e incontri con prestigiose personalità del mondo del cinema e delle arti, come ogni anno, in una sala affollata di appassionati di cinema, sono stati annunciati, tra fischi di dissenso e applausi di apprezzamento, i vincitori della settima edizione del Festival internazionale del Film di Roma nelle varie categorie: il premino più ambito e più importante, il Marc’Aurelio d’Oro, è stato assegnato al film di Larry Clark, “Marfa Girl”, ambientato nella difficile realtà texana, il cui impatto sulla giuria è stato particolarmente forte: “Abbiamo scelto di premiare i film che ci hanno fatto discutere di più, perché in quanto tali ci avevano suscitato qualcosa” spiega Jeff Nichols nell’argomentare i motivi della scelta di premiare questo film, “Marfa Girl ha uno dei migliori cattivi degli ultimi 10 anni”
    Scorrendo la lista dei premiati è possibile leggere alcuni nomi italiani: “Alì ha gli occhi azzurri”, a cui è stato assegnato il Premio Speciale della Giuria, è il film di Claudio Giovannesi che racconta il traumatico incontro/scontro di due culture diverse come quella italiana ed egiziana, un dissidio vissuto da un adolescente di origine egiziana nato in Italia, un ragazzo che cerca, tra amore e fuga, di conciliare le sue due, troppe diverse, radici culturali.
    Paolo Franchi, che si aggiudica il Premio per la miglior regia, presenta “E la chiamavano estate”, un lungometraggio che racconta il difficile rapporto del suo protagonista con il sesso: Dino è un uomo che scosso dai traumi del passato non riesce a concretizzare una sessualità sana in complicità con la sua tenera compagna Anna interpretata da Isabella Ferrari, (vincitrice a sua volta del premio per la miglior interpretazione femminile), è quindi costretto, suo malgrado, ad appagare i desideri, a notte fonda, con prostitute e scambisti.

    Al film ad alto tasso erotico e per la nudità della sua protagonista non sono stati risparmiati risate e fischi anche nel corso della conferenza stampa.

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     E la chiamano estate. Trailer


    Il Premio Prospettive per il miglior Lungometraggio va invece a Francesco Amato che in “Cosimo e Nicole” racconta una storia d’amore ai tempi del G8.
    Tra i documentari, quello premiato è “Pezzi” di Luca Ferrari che cuce una triste tela con le storie di chi vive in periferia, traumatizzato e violentato dalla vita.
    Vince il Premio Prospettive per il Miglior Cortometraggio il mistero che Antonello Schioppa racconta ne “Il gatto del Maine”.
    Tra i fischi e gli applausi, tanti successi italiani, dunque, a Roma. E agli appassionati di cinema, la kermesse del film internazionale da appuntamento al prossimo anno.
     
     
     


  • Fatti e Storie

    A Rockaways per dare a chi ha bisogno

    Che, dopo Sandy, New York fosse paralizzata, e che molte zone del New Jersey fossero allagate e senza elettricità, chi non lo aveva vissuto da vicino o su Internet, lo aveva saputo fin da subito da giornali e telegiornali. Spiegavano come la metropolitana fosse completamente fuori uso per via dell’acqua piovana che si era insinuata nei cunicoli e come la parte più a Sud dell’isola di Manhattan fosse priva di energia elettrica. Si sono viste poi immagini girate ad Atlantic City, NJ dove l’acqua del mare superava il boardwolk e il violento sventolio delle bandiere agitate e sconvolte dal vento che soffiava fortissimo. E poi Time Square deserta mentre sentivamo, attraverso i microfoni, il soffio cupo del vento.
     

    Gli interventi dei soccorritori, in queste zone colpite da Sandy, sono stati tempestivi: a pochi giorni di distanza dall’uragano alcuni tratti della metropolitana erano già stati rimessi in funzione, contemporaneamente Hoboken, NJ cominciava ad essere liberata dall’acqua mentre i soccorritori aiutavano la popolazione a riordinare le strade. Oggi l’energia elettrica è di nuovo a disposizione dei più: sono ormai poche le zone e le abitazioni non ancora illuminate.  In generale, la vita dei cittadini sembra aver ripreso il suo corso usuale quasi ovunque.
     

    Tra le zone più colpite dall’uragano abbiamo  anche Rockways, una penisola a sud del Queens, dove gli aiuti hanno tardato ad arrivare.
     

    E'  in questa zona che un gruppo di ragazzi, armati solo dei loro computer e di tanta voglia di aiutare,  ha deciso di andare a portare il proprio aiuto.
     

    La mattina di giovedì 1 Novembre, Graziano Casale, un giovane trentenne italiano che da qualche anno vive a Hoboken, si sveglia con un’irrefrenabile proposito di  “fare qualcosa per aiutare…subito!”. Come tutti noi ormai oggi va su Internet, ma non riesce a trovare nulla che soddisfi il suo desiderio di collaborazione attiva e immediata.
     

    Allora pensa di utilizzare il più diffuso mezzo di comunicazione che utilizza le community di oggi: Facebook.  Scrive sulla sua bacheca: “I'm available to help organize any kind of fundraising hurricane relief! Please contact me in private if you have some idea you want to share! We should all help!!”. Subito risponde al post la sua amica Alina Gershman
     “Would like to help as well. Let me know if you come up with something”. Detto, fatto, i preparativi cominciano e nell’arco di poche ore cresce un’iniziativa che è rimbalzata di wall in wall sulla rete.
     

    “Alle 9:30pm di giovedì 1 novembre creiamo l'evento su Facebook e la pagina www.fundly.com in cui spieghiamo che gli abitanti di Rockways avevano bisogno dell’aiuto di tutti subito e invitiamo tutti a donare per ciò che possono. All'1am avevamo già messo insieme 1600 dollari” ci racconta Graziano con entusiasmo, “la mattina successiva toccavamo i 2,000 dollari, la sera 3,000, il sabato mattina 4,000!
     

    Tutti i miei amici hanno risposto in maniera formidabile all’appello che io e Alina avevamo lanciato. Anche diverse aziende italiane hanno dimostrato grande solidarietà: Lurisia ha donato 1600 bottiglie d’acqua da 1 litro, Smeraldina 3200 bottiglie da 500ml, quelli di Ferrarelle ci hanno contattato per comunicarci di voler donare un intero camion pieno di bottiglie d’acqua… L’essere umano, quando vuole, è un meraviglioso!”.
     

    Di certo Graziano ed Alina non avrebbero potuto immaginare una tanto massiccia partecipazione al loro progetto: la notizia dell’iniziativa nata su Facebook si diffonde velocemente. Moltissimi sono riusciti ad essere nelle condizioni di offrire ad una popolazione messa in ginocchio dall’uragano, tutti i generi di prima necessità: cibo, acqua, coperte, vestiti, biancheria, pannolini, torce a pile, guanti da lavoro… A Rockways c’è bisogno di tutte queste cose!
     

    In tanti, tantissimi, sono stati non solo coloro che hanno donato dei soldi o della benzina o del cibo o dei vestiti, ma sono stati anche coloro che, sabato 3 e domenica 4, a Rockway sono andati di persona ad aiutare,  Etie Khan, Ivy Mahscio, Amit-Z Ben, Dario Ferraro, Anthony Marotta, Rosa Daza, Katusha Avez, Lisa Capezzuoli, Aurore Quercy sono solo alcuni dei ragazzi che hanno visto dal vivo Rockways, che di persona hanno sentito le richieste d’aiuto degli abitanti. E hanno postato su Facebook centinaia di fotografie: strade coperte di fango, case e automobili distrutte, cumuli di oggetti trascinati dalla furia dell’uragano e cumuli di oggetti accantonati dai cittadini sui cigli delle strade,  E tante persone davanti ai camion che tendono le mani verso i ragazzi che finalmente sono arrivati ad aiutarli… questa era ma è ancora Rockways.
     

    Continua il tempo di aiutare e di donare: a Rockways c’è chi non ha più nulla e, tra l’odore delle macerie, deve ripartire da zero. Per questo Graziano, Alina, e le altre, tantissime, persone coinvolte in questo turbine di solidarietà chiedono ancora di donare. E’ un posto dove manca ancora l’energia elettrica e dove i soccorsi statali non sono ancora efficienti, il freddo è pungente. C’è ancora urgenza di vestiti, di coperte, di torce, di pannolini.
     

    Rockways ha ancora bisogno di questi ragazzi che non si tirano indietro e  domenica 11 Novembre saranno lì per la terza volta a disposizione chi ha veramente bisogno di loro.

    Fino ad oggi, grazie all’aiuto di centinaia di persone e di decine di aziende, Alina e Graziano sono riusciti a mettere insieme quasi 8000 dollari. E’ importante continuare a lasciarsi contagiare da questa esplosione di solidarietà: chiunque volesse fare una donazione può farlo cliccando qui http://fundly.com/people-in-the-rockaways-need-your-help.  Può anche contattare Graziano e Alina agli indirizzi di posta elettronica [email protected] o [email protected]
     

    Non è mai troppo tardi per donare… Siamo ancora in tempo per Rockways.

  • Facts & Stories

    “Rescue Rockaways“, with Graziano and Alina

    On October 29th, 2012 Hurricane Sandy paralyzed the Tri-State area. Many cities were left without electricity and flooded by sea water.

    Those who didn’t experience it personally were able to follow continuous news coverage on television, the Internet, and on social media sites. State governments and national agencies provided means of relief. In just a few days NYC's MTA was running on limited service and electric companies worked nonstop in order to have power return to both the city and the suburbs.

    Life slowly , very slowly, attempted to return to daily routines but many areas will be forever changed because of Hurricane Sandy. One  specific area is that of the Rockaways, located in Queens, New York.

    On November 1st Graziano Casale, a 30 year old Hoboken resident, explained that he was overwhelmed by an urge to help. He immediately searched the web but couldn’t find a relief group where he could physically roll up his sleeves and assist those in need.

    Graziano then switched over to his Facebook account and updated his status and wrote the following “I'm available to help organize any kind of fund raising hurricane relief! Please contact me in private if you have any idea you want to share! We should all help!”

    Soon after he received a message from his friend Alina Gershman, “Would like to help as well. Let me know if you come up with something.” This brief exchange gave life to the following initiative “Rescue Rockaways.”

    As of 9:30pm that same Thursday evening “Rescue Rockaways“ was turned into a Facebook event and its donation page went live.

    Graziano and Alina’s friends immediately advocated the cause and informed their social circles of this initiative. Graziano states that by 1am donations reached $1,600.00, Friday morning over $2,000.00, that evening $3,000.00, and by Saturday morning donations topped $4,000.00.

    He goes on to say that, “even various Italian corporations donated to ‘Rescue Rockaways’ : Lurisia donated 1,600 bottles of (1L) bottles of water,  Smeraldina donated 3,200 (500ml) bottles of water and just recently Ferrarelle contacted us because they want to donate an entire truck load of water. The efforts are simply marvelous!”

    Funds donated were used to purchase all types of necessities: food, water, blankets, clothes, under garments, diapers, and work gloves. The Rockaways need all this and more, and so Graziano Casale, Alina Gershmin, Etie Khan, Ivy Mahscio, Amit- Z Ben, Dario Ferraro, Anthony Marotta, Rosa Daza, Katusha Avez, Lisa Capezzuoli and Aurore Quercy  made their way to the Rockaways to personally distribute the necessities to  the victims of Hurricane Sandy.

    “Rescue Rockaways” doesn’t end here, because the Rockaways, Queens still need our help. That’s why Graziano and Alina personally ask that you continue to donate, simply go to http://fundly.com/people-in-the-rockaways-need-your-help. In fact, another trip to the Rockaways is scheduled this Sunday November 11th.  Anyone interested in volunteering is encouraged to email Graziano or Alina [email protected] or [email protected] .  
    As of today, a mere want to help lead to the creation of a relief effort that has raised over $9,000.00; imagine what more is possible with your help.
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    Agenda for this Sunday, 11.11:
    • Visiting seniors who live in tall buildings without electricity, who aren't mobile to come down the stairs to get supplies the Red Cross and others are providing at their stations
    • Visiting others who are not receiving the supplies they need from the Red Cross and other organizations
    • We will also need a lot of volunteers and will be leaving first thing in the morning to reach as many people as possible

    Event page on Facebook >>>

  • Fatti e Storie

    Calabria. Quando la mafia uccide per caso

    Si muore giovani in Calabria, si muore di mafia a diciannove anni nella punta dello stivale italiano. E si muore per caso. Così è stato per Filippo, che la sera del 26 novembre è stato freddato da due colpi di lupara nel tratto di strada che collega Soriano Calabro a Pizzoni. Non ne sapeva niente Filippo della mafia, non era invischiato in affari loschi o in sanguinose faide, ma è morto lo stesso.

     “Per sbaglio”, si dice in questi casi. Filippo sarebbe stato ucciso da due pallottole destinate a  un'altra persona; già, perché nelle strette strade buie della provincia di Vibo Valentia, in una zona ad altissima densità mafiosa, non è difficile che qualcuno si nasconda e al momento giusto spari dei colpi di fucile. Questa volta, però, è intervenuto anche il caso, un triste caso, perchè quelle pallottole non erano destinate a Filippo.
     

    La notte è poi trascorsa in silenzio. Sembrava come tante notti. Ma la notizia della morte del ragazzo di Contrada Covalo ha cominciato a diffondersi per il paese il giorno successivo, nello sgomento e nel dolore generale. Soriano è un piccolo centro che conta meno di tremila abitanti. E’ un posto in cui la vita quotidiana scorre tranquilla, almeno in superficie… Esiste però un fondo scuro che, per paura o per vergogna, i sorianesi tendono a voler dimenticare. Vorrebbero cancellarlo perché miete troppe vittime. L’ultima è Filippo.
     

    “Filippo uno di noi” è la frase che recano gli striscioni dei ragazzi sorianesi. Questo è un segno importante. Le pallottole che hanno ucciso Filippo hanno colpito l’intera comunità, che nel dolore si scuote e ricorda una vittima innocente. Si stringe intorno alla sua famiglia.

    L’intero paese con gli occhi pieni di lacrime ha voluto partecipare ai funerali di un ragazzo come tanti, timido e sorridente, innocente. Vicino alla bara bianca qualcuno ha portato un fiore, qualcun altro solo una preghiera per quella vita spezzata. I più ripetevano: “Filippo è figlio di tutti”.
     

     Il dolore per una perdita tanto amara si è diffuso rapidamente non solo in chi gli era vicino e lo conosceva, ma anche in chi sente che la morte di Filippo è il segno di una società oppressa, una società che vive nella paura di un pericolo effettivo, una società che non sa e che non riesce a separarsi dalla sua stessa parte malata. E’ una società in cui si muore ammazzati “per sbaglio”… è quasi un ossimoro, ed è spaventosa.
     

    Quella di Soriano è comunità non solo sconvolta da una morte violenta e prematura,  ma dalla morte di un suo figlio, perché la morte di Filippo è stata vissuta veramente come quella di un figlio. Seguendo le sua bara gli abitanti si sono sentiti sono tutti Filippo.
     

    Questo in Calabria, una terra deturpata dall’illegalità con una comunità troppe volte offesa e che non vuole temere qualcuno nascosto tra l’erba alta nelle sere d’autunno. iI sorianesi vogliono che non ci siano altri Filippo per questo un gruppo di privati cittadini ha organizzato una fiaccolata silenziosa lungo le vie del paese. Per ricordare e per pregare. Partecipare a questa manifestazione di rifiuto che gridi la volontà di reagire e di non lasciar più correre è un dovere morale e civile, è un segno di umanità e di coalizione contro un mostro invisibile che da troppo tempo ormai tortura una terra stanca.
     

    Forse un giorno in Calabria non si morirà più giovani così, forse un giorno in Calabria non si morirà più di mafia. Solo quel giorno per Filippo sarà fatta giiustizia.

  • Fatti e Storie

    Autunno caldo per gli studenti italiani

    Sarà un autunno caldo di sole e di proteste quello di quest’anno… e d’altra parte lo sono statianche quelli precedenti, se non di sole, di certo di manifestazioni: nel 2008 il grande movimento dell’Onda partito dalle università, nel 2010 le proteste che esprimevano dissenso per la riforma Gelmini, l’anno scorso quella grande marcia a Roma boicottata dal vandalismo dei black block, e quest’anno quella degli studenti delle scuole superiori che da Torino a Palermo passando per Firenze, Roma, Napoli, Livorno, sabato 6 Ottobre, sono scesi in piazza armati di striscioni e di sfiducia per manifestare contro l’approvazione del disegno di legge Profumo, per gridare che ai tagli alla scuola pubblica, loro non ci stanno.
     

    Sono tutti ragazzi tra i 14 e i 19 anni che, stanchi dei caro-libri che grava sui bilanci familiari e spaventati da quella che chiamano “privatizzazione della scuola pubblica” vogliono dire la loro, e all’unisono, per le vie del centro delle principali città italiane, dicono NO alla “mercantilizzazione del sapere”, e spiegano “La nostra generazione scende in piazza contro questo Governo e contro l'Unione Europea, che assieme privano milioni di giovani del diritto all'istruzione, al lavoro e al futuro”.

    Ecco cosa li spaventa: la prospettiva di oggi che li vede senza lavoro e senza futuro, ecco perché scendono in piazza: per rivendicarli entrambi attraverso il diritto a una valida istruzione.

    Con le t-shirt e i jeans, coi braccialetti di filo ai polsi e le scarpe da ginnastica, sfilano e tengono tra le dita gli striscioni colorati: “Contro crisi e austerità riprendiamoci scuola e città”, “fuori banche e aziende dalle scuole”, “sapere per tutti, privilegi per nessuno”.
     

    Qualcuno non approva asserendo che la protesta sia solo un altro pretesto pericoloso per saltare un giorno di scuola, che i ragazzi, data la loro giovane età, non possono neppure comprendere fino in fondo il significato degli striscioni che mostrano e degli slogan che gridano: “andate tutti a scuola anziché manifestare senza neppure sapere il perché, e imparate Dante e le formule di matematica a memoria anziché quelle frasi stupide e senza senso” rimprovera papàGiovanni on line; tuttavia, in rete, i più sono dalla parte dei ragazzi: “Non dovremmo lasciare da soli i ragazzi a protestare dovremmo andare tutti. Hanno tolto il futuro ai nostri figli. E' giusto che si ribellino contro una classe dirigente che ha ridotto l'Italia allo sfacelo…alziamo finalmente la testa” scrive gis53, e gli fa da eco Mamu79 che scrive “Hanno ragione. Non una, ma mille. Mi chiedo come mai le proteste siano così poche e così tardive. Stanno rubando la vita ad una intera generazione”, “FORZA RAGAZZI ! Sono idealmente con voi per protestare contro questa asfissia generale, contro l'ingordigia, contro le ingiustizie sociali e contro questi nemici del Popolo. Mi auguro che assieme a voi arrivino anche i disoccupati, i cassintegrati e tutta quella gente onesta e leale presente nel Popolo italiano. Questa Italia deve lasciare spazio ad un migliore futuro; ne abbiamo diritto” incoraggia Matri41

    L’eco della protesta, però non si spande solo per la grande quantità di cortei e di slogan, ma per le loro conseguenze ed effetti: come troppo spesso succede, alle buone intenzioni si accompagnano delle pessime azioni: lancio di fumogeni, di petardi, di uova e di sassi, improvvisi cambiamenti di percorso non autorizzati, vari tafferugli, sono questi gli atti che i manifestanti non possono permettersi e ai quali la polizia inevitabilmente e prevedibilmente risponde con cariche e manganellate che finiscono col fornire tristi bilanci: a Torino i contusi sono cinque e molti di più se ne contano a Milano e a Roma dove, tra gli altri, sono stati feriti anche quattro agenti di polizia.
     

    Non mancano, come sempre i commenti in rete: “Come ci siamo ridotti....vedere le cariche operate dei poliziotti (per dovere e per contratto) contro i propri figli che, in questo momento rappresentano l'unica speranza per un futuro diverso di questo disgraziato paese fa non solo male ma fa venire voglia di unirsi ai manifestanti per radere al suolo tutto il preesistente!!!!”.

    Ma forse, tra gli attacchi e le difese, tra le frasi di appoggio e quelle di disapprovazione, è giusto che l’attenzione di tutti sia concentrata sui ragazzi, quelli che sono scesi in pazza, quelli che hanno camminato e urlato, quelli che sono stati feriti e quelli che hanno attaccato: questi ragazzi, forse non ancora del tutto coscienti degli effetti delle loro azioni, ma di certo coscienti del loro peso, hanno capito che le difficoltà del paese in cui vivono sono le loro difficoltà e hanno capito la necessità di questa nazione di essere aiutata: non sanno di preciso come fare, ma sanno che è loro dovere intervenire perché non hanno ancora ceduto il passo al pessimismo dei loro padri che troppo spesso lamentano una politica che non sanno più cambiare, questi ragazzi armati di book block sperano che il futuro dipenda davvero da loro, e vogliono lottare per i loro sogni.
     

    Se è vero che i ragazzi di oggi sono gli adulti di domani, quelli che andranno a formare la società degli anni a venire, allora, forse, è davvero indispensabile che levino la voce e gli striscioni colorati.

  • Fatti e Storie

    “Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è”

    Ci sono similitudini tra le ondate migratorie negli USA ed in Canada di inizio ‘900 e quelle di oggi dai Paesi africani in Europa? Sì, secondo il professor Antony Tamburri, Preside dell'istituto italo-americano Calandra, non ci sono dubbi. E l’intellettuale ha voluto darne una dimostrazione leggendo  uno dopo l'altro due passi di due libri così lontani ma così simili.

    Il contesto era la presentazione del libro “Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è”, un romanzo nato dall’esperienza sull’isola dei due giornalisti che hanno vissuto direttamente l’emergenza che lo scorso anno ha colpito Lampedusa, meta di migliaia di profughi africani scappati dai loro paesi d’origine.

    Tamburri ha letto due brani: uno dal libro presentato e l'altro da “L'emigrazione in Canada” nell'inchiesta del «Corriere» 1901 di Eugenio Balzan. Impossibile non coglierne subito le similitudini, le spesso tragiche connessioni di un’umanità che ripete se stessa e non impara dalla storia. Storie di emigrati italiani in Nord America e di africani in Europa.

    "Quello  di Balzan  risale al 1900, ma è impossibile non pensare ad oggi" ha detto Tamburri. Nei due romanzi sono raccontati  momenti della storia troppo simili tra di loro.

    Il titolo del romanzo fa un po’ il verso alla famosa canzone di Eduardo Bennato “l’isola che non c’è” ma purtroppo il contesto è meno giocoso.

    “Lampedusa è l’isola che non c’è perché, ad esclusione dei tre mesi estivi durante i quali diventa una delle più ambite mete turistiche d’Italia, viene dimenticata e lasciata a se stessa essendo più vicina alle coste africane che a quelle italiane. I lampedusani si sentono troppo spesso invisibili agli occhi dei nostri politici che si occupano dell’emergenza immigrati solo dopo l’arrivo dei media e che quasi mai rispondono alle richieste di soccorso civile. Lampedusa è un’isola che c’è, nonostante le telecamere e il clamore mediatico” spiega Laura.

    Stefano  Vaccara, Executive Editor America Oggi / Oggi7, ha raccontato quello che ha provato fin dalla lettura dalle prime pagine del libro. “Sono rimasto colpito dallo stile, simile a quello dei romanzi veristi. E’ molto più efficace di un reportage giornalistico. Parla non solo degli emigranti, ma anche di Lampedusa con tutte le persone che hanno vissuto quei giorni”

    Migranti, militari e volontari che erano lì per aiutare, ma anche gli stessi lampedusani che all‘improvviso hanno visto modificato il proprio quotidiano per assistere, spesso con un senso di impotenza, a quest’incredibile sbarco di umanità ..

    “Siamo entrambi giornalisti” spiega Laura “quindi avremmo potuto scegliere di raccontare questo nostro vissuto in forma di reportage, invece abbiamo preferito usare una forma narrativa in modo tale da poter dare voce a quelle persone che hanno vissuto quell’esperienza in prima persona.” Il romanzo si compone di quindici segmenti in forma di diario, ognuno dei quali ha un proprio protagonista; “in questo modo” continua Tommaso “abbiamo cercato di delineare un quadro a varie tinte proprio attraverso i personaggi che, durante una ipotetica notte, raccontano, secondo un flusso di coscienza, di pensieri e di ricordi, ognuno dal suo punto di vista, tutto quello che, nel corso di diversi mesi, è successo a Lampedusa.

    C’è il pescatore lampedusano che racconta la vicenda dal punto di vista degli abitanti dell’isola, c’è l’emigrante tunisino che già prima di intraprendere il viaggio ne conosceva perfettamente la trafila, e poi c’è il poliziotto, il giornalista, l’operatore volontario”. Addirittura una tartaruga caretta, la cui specie è effettivamente solita deporre le uova sull’isola di Lampedusa, prende la parola per raccontare le vicende secondo il suo immacolato punto di vista: la tartaruga pensa e parla come un bambino, guarda nuotare questi strani pesci a quattro zampe che senza preoccuparsi delle barriere politiche, come le tartarughe, dall’Africa arrivano fino in Italia.

    La stesura del libro è cominciata subito dopo il ritorno dei due autori a Roma: “l’idea” racconta Laura” nasce a Lampedusa. Io e Tommaso ci siamo interrogati sulla necessità di raccontare un’esperienza del genere per la sua intensità. Lo scopo è da subito stato quello di raccontare senza filtri, perché la vita a Lampedusa è davvero così, è un posto dove non esistono filtri, né compromessi, né sovrastrutture, tutto è diretto, immediato. Abbiamo voluto inventare una storia che però avesse tutti i dettagli e tutto il contesto che abbiamo realmente vissuto.”
    Un’esperienza unica e formativa, quella dei due giovani autori di “Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è”, un’esperienza che hanno cercato di riportare con semplicità e linearità in un romanzo che penetra i corpi e gli animi dei suoi quindici protagonisti.

    “Quello che non dimenticherò” conclude Laura “è la lezione di dignità che ho ricevuto da tutti gli emigranti che sono arrivati, da quelli tunisini e da quelli provenienti dall’Africa Nera che si sono trovati ad alimentare una Collina della vergogna degna di essere chiamata tale.

  • Fatti e Storie

    NOI ITALIANI, turisti a New York


    Ok, New York è ancora la capitale del mondo, la città in cui un’innumerevole quantità di culture diverse si incontrano e convivono. Sugli schermi cinematografici vediamo le sue metropolitane affollate, le sue strade colorate dal giallo dei taxi. Sui suoi marciapiedi la gente cammina frettolosamente per raggiungere un ufficio la cui sede si trova in uno dei più prestigiosi edifici della città.  E poi i profili dei grattacieli, i ponti, le luci soffuse dei ristoranti, i romantici innamoramenti dei protagonisti del film….

     
    E  così affascinati da queste immagini NOI ITALIANI rinunciamo alle ferie da trascorrere al mare sotto il sole, e prenotiamo con largo anticipo un volo: destinazione New York.
    Dopo otto interminabili ore in cielo finalmente NOI ITALIANI atterriamo sulla Grande Mela e ci lasciamo rapire dalle luci e dall’architettura della citt.   Sì questo è vero ma…  siamo solo all’inizio!

     
    Già, perché NOI ITALIANI arrivati a New York, assimilato il meccanismo di numerazione delle strade, ci sentiamo presto sicuri di poterla percorrere in lungo e in largo. Poco importa se poi finiamo immancabilmente per perderci tra una avenue e l’altra.  

     
    E pochi italiani si rendono conto di  essere proprio riconoscibili, di aver stampato una sorta di brand addosso. Si perché per diverse ragioni, tra i milioni di turisti che la città ospita, è fin troppo facile essere identificati come: ITALIANI.

     
    Il primo elemento utile per distinguere un italiano in visita a New York è senza dubbio l’abbigliamento. NOI ITALIANI, da sempre popolo di vanitosi, reputiamo infatti importante saper scegliere dei capi che siano all’altezza della città, universalmente riconosciuta come capitale dello stile.


    Glii uomini si concedono improbabili bermuda che riscattano però con calzature rigorosamente griffate. Le donne non possono rinunciare, anche in piena estate, agli stivali di pelle che coprono le caviglie e all’immancabile enorme borsa firmata Louis Vuitton.  Molto spesso poi non manca una cintura della stessa marca che attraversa i passanti del jeans di Gucci.

     
    A prescindere dal target d’età, che si tratti di intere famiglie, adulti, o ragazzi, NOI ITALIANI generalmente tendiamo ad organizzare vacanze di gruppo.  E così capita che l’abbigliamento scelto con minuziosa attenzione finisce per diventare quasi una divisa che contraddistingue.

     
    In ogni caso, GLI ITALIANI, belli nei loro vestiti e fieri, cartina alla mano - per chi ha un iPhone rigorosamente unlocked secondo il consiglio di qualche amico in America  Google Map -, cominciano a visitare la città.


    Ma cosa cerca a New York un italiano in vacanza? Quali posti sono inclusi nel suo programma di visita? La prima tappa per tutti quasi sempre la prima sera, nonostante il fuso orario, è sicuramente Time Square che, con la sua folla e i suoi schermi luminosi, è tanto diversa dalle piazze italiane; ma  tra una foto da scattare vicino alla scaletta rossa e un negozio in cui acquistare souvenir di ogni tipo, si è  fatta ora di cena.

     
     E’ questo il momento preciso in cui si verifica la profonda scissione tra il tipico turista italiano e quello proveniente da qualunque altra parte del mondo.  Già, perché se generalmente ci si allontana dal proprio paese alla ricerca degli usi, delle tradizioni del popolo indigeno, e quindi si desidera conoscere e assaggiare i piatti tipici della cucina locale, GLI ITALIANI in vacanza invece vanno inspiegabilmente alla ricerca del ristorante o della pizzeria italiana.  Una volta trovata, impegnano tutto il suo spirito critico e tutto iil fine palato per decretare che, comunque, quello che hanno appena mangiato non è di certo frutto della cucina mediterranea e che il pizzaiolo di sicuro non è italiano!

     
    Da un anno circa poi c’è un posto magico: Eataly. Concepito dall'imprenditore Oscar Farinetti per gli americani il megastore è diventato anche l’ancora di salvezza degli ITALIANI turisti che escono dal negozio con borse piene di biscotti e merendine italiane.

     
    A pancia piena ma per nulla soddisfatti, GLI ITALIANI, decidono di riprendere la visita alla città: il Rockefeller Center con tanto di Top of the Rock, l’Empire State Building, il Madison Square Garden, Wall Street, Central Park, la Statua della Libertà, il ponte di Brooklyn, la Freedom Tower … e poi c’è il MoMa, il Metropolitan Museum, i musical di Broadway….

    O forse no?

     
    Eh no, in effetti no! Già perché a NOI ITALIANI in vacanza a New York non piace l’arte moderna, non ci importa poi granchè dei dipinti e delle sculture, e gli show nei teatri di Broadway costano veramente tanto… e poi queste cose si trovano ormai con estrema facilità su Internet… Noi preferiamo invece andare a fare un giro per i negozi della quinta Avenue: alla Lindt distribuiscono sempre dei cioccolatini gratis, lo store di Louis Vuitton è un sogno, Abercrombie poi ha dei prezzi vantaggiosissimi e abbiamo una lista lunghissima di ordini di amici e parenti…


    Ma i posti che veramente mandano in estasi sono due. Tiffany&Co,  dove Gli ITALIANI passano ore a passeggiare tra una teca e l’altra e a indossare preziosissimi gioielli che non comprano mai. E qui, udite udite, i commessi parlano anche italiano. Sembrano scelti apposta per una clientela bianco-rosso e verde.


    E poi c'è lo store della Apple, preferibilmente quello sulla Quinta Strada davanti al Central Park.  Dai suoi computer si da un’occhiata alla casella email e ci si collega con Facebook per fare il check-in.  Il mondo intero  deve sapere: si gode tutto della Grande Mela!!!


    I bambini al seguito, dopo avere mandato in tilt tutti gli iPad della Apple,  vogliono attenzione: giocare. Ed una tappa fissa è FAO Schwarz, tra pupazzi di peluche e giocattoli spesso megalomani, gli ITALIANI, quelli adulti tanto per interderci, accontentano i figli ma si lasciano incantare più di loro.

    Gia New York è piena di luoghi e musei per bambini. Ma questo nessuno sembra saperlo.

     
    All’altezza della cinquantanovesima strada, proprio lì dove il logo della Apple resta sospeso in aria nella teca di vetro, per NOI ITALIANI, la quinta Avenue si interrompe bruscamente. In quei negozi non siamo sempre riusciti a fare lo shopping che speravano.


    Molti di questi  non sono poi così economici così come si pensava; ma NOI ITALIANI non perdiamo la forza e l’entusiasmo: prendiamo d’assalto il negozio degli sconti assicurati:  Century21! Qui finalmente si da libero sfogo alla  irrefrenabile voglia di shopping e si acquistiamo chili di prodotti firmati GUESS, Timberland, Calvin Klein e Tommy Hilfiger. Ora sì che New York comincia a piacere. 


    Qualcuno non ancora contento chiede timidamente in giro. Ma se andassimo ad un outlet? Nagari in New Jersey?  Le facce si fanno scure: in New Jersey? Comunque qualcuno coraggiosamente poi alla fine il ponte lo passa.

     
    Ormai, avendo quasi esaurito  budget di spesa, si decide di chiudere con lo shopping e dedicarsi veramente alla scoperta della città…


    Niente paura però, a nessuno verrà in mente di andare ad ammirare l’architettura del Guggenheim Museum né le opere d’arte che espone. Ci si concentra a cercare sulla mappa e in rete tutti quei posti in cui scattare fotografie che testimonino di essere stati inequivocabilmente a New York. Ci si fionda nel primo Starbucks Coffee, si ordina un caffè americano -che non si beve-, e si  scattiamo centinaia di foto con il logo della caffetteria ben in vista.

     
    NOI  ITALIANI ricominciamo la passeggiata e incontiamo un poliziotto a cavallo: foto! Più in là, sull’uscio di un negozio di souvenir c’è una Statua della Libertà in miniatura: foto! Ancora più avanti c’è un pover’uomo con indosso un enorme costume da Topolino: foto! E lì c’è lo store delle M&M’S: foto! E Toys"R"Us: anche lì, foto!

     
    Ora sì che si è vista New York, ed è piaciuta davvero tanto! Così,  GLI ITALIANI stanchi per le lunghe camminate, con un bagaglio pesantissimo e una fotocamera che conta ormai centinaia di fotografie, sono pronti per tornare in Italia e, una volta acceso il computer, postare tutto su Facebook!


  • Art & Culture

    Stefania Zamparelli. Pictures Instead of Narrative

    In a calm, low voice,  choosing her words carefully  between one cigarette and another, Stefania Zamparelli speaks at a rate that does not betray its Neapolitan origins.

     
    Her rebellious nature is immediately apparent when she states: "I was born in a family of doctors, my father was a doctor, my brothers are doctors, and If I had gone along with their plans, I also would have been a doctor, but I let everyone down when the time came to choose a major and I enrolled in foreign languages and literature. Once I have completed my studies I worked as a teacher, but I hated that job, so I decided to leave Italy and I chose to come to New York to improve my English ... or at least that was the excuse needed to leave. At first it was hard: I shared an apartment with other people, one can barely call that an apartment really, located in one of the worst neighborhoods in the city.

    I had an endless series of jobs to pay for photography school, The School of Visual Arts, as well as for other expenses: I started as a busgirl, then I was a waitress in an Italian restaurant, I sold T-shirts, I was a cleaning lady, I worked in wardrobe ... Well, basically I was willing to do anything to stay here and to be able to support myself without asking my father for money. These were depressing jobs. I still remember the feeling of nausea that overcame me every time I walked into the restaurant and at the inevitable thought of having to run to and from the kitchen, at the smells and the forced smile that I had to keep plastered on my face for the entire evening. So I thought I would once again try out the role of a teacher: teaching Italian, privately this time, but the experience was, once again, a failure. The people I worked for were all wealthy, no one was really motivated to learn, and this was upsetting to me, so I decided that I would never be a teacher again! In the meantime, I was collecting reply letters from various New York photo editors to whom I kept sending my portfolio, and whom invariably would respond with: 'Your work looks great, keep shooting!'  And which I translated to: 'You will never get anywhere.'" 

    Stefania comes off as a strong personality. She immediately seems to be a solid woman, concrete, decisive, direct, essential. She describes herself as "not at all sociable" and continues "I like minding my own business, in silence, perhaps this is why I love photography so much, because it is immediate and silent."

     
    That's right, because after the many and diverse occupations she took on, Stefania, eventually chose to work in photography. "I think I became passionate about photography when I was very young, just a teenager: once a month, my father would receive in the mail medical journals, of which I still have several copies. It was called "In the field of medicine and Culture." I was fascinated not only by the articles which were certainly interesting, but what I was captivated by were the images: photographs absolutely avant-garde for those years. There were many, there was one almost on every page and they were large enough to be able to study the details. I never got tired of looking at them, even now I find them incredibly beautiful, and I still occasionally flip through a random issue of the magazine."

     
    Another cigarette and then, at last, with care and attention, Stefania takes out large prints of her photographs, and telling anecdotes, she flips through them. Almost all of the images depict human subjects, a few landscapes, natural or artificial, all of them are photographs taken between Africa and Asia: Syria, Numibia, Afghanistan, Papua. "In my photographs I try to capture the time, maybe ten years from now it will not be possible to photograph these same things, in the case of war games and other rites of the tribe in Papua." Then she explains: "I like to travel. As soon as I get the chance I leave. I'm away for two, three, four months ... as long as I can. I visit parts of the world which seem really forgotten by everyone. These are places where tourism does not exist, and because of this, at least from this point of view, these places are immaculate.

    Therefore, these are areas inhabited by people who live in the simplest way possible, in homes often without running water and electricity; areas where people retain the oldest values in the world, those that existed before religions or conventions institutionalized them. That 's what I want to relay when I take a picture, or rather, I want to demonstrate it! I could write about it, of course, but I hate fiction, I flee away from it in every possible way, so instead of narrating I prefer to indicate, to photograph. I want to photograph / tell that the so-called Third World has something that goes beyond the stereotype that civilized countries offer, so people portrayed in my pictures are smiling, playing, praying, working, protesting. There is nothing different between their lives and ours: we all do the same things, we all want the same things."

    And it is exactly for this reason, to "show, to demonstrate, to document" and, in its way, tell, that Stefania, along with 1800 other artists living in Brooklyn, will take part in "Open Studio," an event designed to promote art.  On the 8th and 9th of September the artists will open the doors of their studios to the public, whom then through an on-line voting system will decide which of the 1800 artists, will exhibit their work at the Brooklyn Museum.

     
    Stefania is one of the 68 participating artists residing in the neighborhood of Bedford Stuyvesant. "I don't have a proper studio, therefore I will open the doors of my house where I will mount a small exhibition of my work," concludes Stefania, "and on the other hand when I am not traveling I carry out all my work here.

    Bolivia, Senegal, Egypt, Afghanistan. The places and populations which Stefania visits are all, in one way or another, "extreme", but these are the places and the people that Stefania loves and photographs perhaps because, they resemble her a bit...

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