"Crime and Redemption Theatre". Riscattarsi recitando

Mila Tenaglia (February 19, 2014)
“Crime and Redemption Theatre” un progetto fotografico di Clara Vannucci: un documentario sul potere della recitazione nel carcere toscano di Volterra. L’Istituto Italiano di Cultura apre le porte il 21 febbraio a un lungo viaggio cominciato nel 2007 dalla fotografa nel penitenziario di Volterra

In Toscana, terra di borghi medievali, chiese e suggestive abbazie, nel carcere di Volterra c’è una realtà affermata e apprezzata a livello internazionale conosciuta come la Compagnia della Fortezza. Un progetto di laboratorio teatrale nato nell'agosto del 1988, a cura di Carte Blanche sotto la direzione di Armando Punzo, drammaturgo e regista teatrale italiano.

È proprio in questo penitenziario situato su un complesso medievale e rinascimentale di grande fascino immerso nel verde dove “spacciatori, assassini e mafiosi non sono più soltanto carcerati, ma diventano preti, travestiti e dame. Imparano a recitare, ma anche a leggere, a lavorare insieme, ad affrontare il difficile reinserimento in società. E soprattutto, la recitazione dà loro uno scopo, un nuovo ruolo nella vita, oltre che sul palcoscenico”. Ci racconta la fotografa Clara Vannucci.

Il 21 Febbraio all’Istituto di cultura di New York si apre la sua mostra  intitolata “Crime & Redemption Theatre” .

La curarice, Veronica Santi, ci spiega come “Tutti i progetti che realizzo sono molto diversi tra loro, ma mantengono un forte legame con l'Italia.

Inoltre sto rimettendo in piedi una piccola galleria a Chelsea per soli artisti italiani emergenti, Spazio 522, dove l'anno scorso ho curato un ciclo di mostre per le celebrazioni dell'anno Italiano della Cultura negli Stati Uniti. Infine sto lavorando con l'associazione newyorkese ArtBridge alla realizzazione di un bellissimo progetto di arte pubblica per la ricostruzione dell'Aquila: un progetto molto difficile ma anche molto stimolante... e anche molto necessario”.

“Io e Clara, entrambe toscane, ci siamo incontrate per la prima volta grazie un'amica in comune in un bar al neon di Times Square e lì si è accesa la scintilla. Non so da quale dimensione sia arrivata Clara, a me è sembrata un'extraterrestre: ha questo modo privo di aggettivi e apparentemente distaccato di raccontarti i contesti terribili in cui opera, tipico della fotografia di indagine; poi però le sue immagini hanno un gusto sofisticato che ti seduce e ti toglie di dosso quei sentimenti di reazione quali la compassione, il buonismo o il senso di colpa.

In "Crime & Redemption Theatre" questo è evidente, anche se, in realtà, il progetto che io e Clara volevamo portare a New York era quello sulle donne di Rikers Island Jail.” prosegue Veronica.

Attraverso il filtro della macchina fotografica usato come strumento di indagine esistenziale, Clara Vannucci  racconta l'esperienza di “Crime e Redemption” .

Ovvero come la recitazione, i costumi e la musica possano far riscattare moralmente e fisicamente i detenuti del carcere.

Quando hai cominciato ad avvicinarti alla fotografia?
Ho sempre scattato foto, sin da quando ero molto piccola. Ma la vera passione è nata a 17 anni durante il mio primo viaggio in Etiopia, dove ho iniziato ad usare una vecchia Pentax Asahi di famiglia, con pellicola rigorosamente in bianco e nero. Al momento della stampa in una camera oscura arrangiata in cantina, ho visto nascere l’immagine. La fotografia. È stata una sensazione straordinaria. Pura magia.

"Crime & Redemption Theatre": Come e' nata l'idea di documentare l'uso terapeutico del teatro sui detenuti del carcere di Volterra?
Ho iniziato il progetto sul teatro in carcere nel 2007 quando lavoravo come fotografa con un gruppo di video makers a un documentario sulle 13 diverse realtà di teatro in carcere in Toscana. Lì sono entrata per la prima volta in contatto con la Compagnia della Fortezza che mi ha colpito subito rispetto alle altre. Nel metodo e soprattutto nello scopo c’era qualcosa di diverso. Tutto questo mi ha colpito molto e spinto a tornare ogni anno a documentare l’evoluzione dei detenuti-attori.      

Grazie a questo progetto nel penitenziario di Volterra i carcerati si svestono dalle loro anonime uniformi per diventare preti, dame o nobili francesi.

Abbandonano la quotidianita' per recitare opere di Shakespeare o Lewiss Carrol.

Tramite le tue foto credi di aver restituito una sorta di riscatto liberatorio da queste persone?
Penso che i detenuti attori siano riusciti a riscattarsi a prescindere dalle mie fotografie. Io ho cercato, tramite le immagini, di mostrare un tipo di carcere fuori dal comune, di portarlo come esempio, di farlo conoscere, di raccontare un’esperienza che fa della cultura una sfida, concreta, di trasformazione. Ma, profondamente, solo loro sentono se questa esperienza li ha cambiati o riscattati nella società. Dall’ esterno, sembrerebbe di si.

Come e' stata la loro reazione all'idea di recitare?
Può capitare che all’inizio i detenuti siano titubanti nel mettersi in gioco, nel vestirsi da donna o da diavoli, ma poi si lasciano solitamente coinvolgere dall’entusiasmo della recitazione e dalla gloria del palcoscenico. L’emozione nel vedere un teatro o il carcere sempre pieno ad applaudire il loro spettacolo, regala agli attori il miglior riscatto. L’uscire, anche se solo per un momento, dalla loro realtà diventa straordinario. Inoltre il regista Armando Ponzo lascia loro la libertà di esprimersi e di improvvisare, di studiare e creare il proprio personaggio. I detenuti possono scegliere se far parte della Compagnia o meno, e ogni anno il numero degli attori aumenta vertiginosamente.

Hai stretto amiciza con qualche detenuto? Mi puoi raccontare qualcosa di loro?

Conosco alcuni detenuti ormai da molti anni. Spesso restano fino alla fine della pena, a volte vengono trasferiti in altre prigioni a finire la loro condanna. Come ragazza all’inizio ero un po’ intimorita, poi negli anni ho smesso di stupirmi del rispetto che hanno nei miei confronti. Parlando poi con loro ho sentito storie ed esperienze diverse, molte legate al teatro più che alle loro carriere criminose. Ciò che a me interessava era il loro rapporto con questa nuova vita, non tanto il loro passato. Ho legato con alcuni in particolare. Ad esempio Jamel (il diavolo nella foto),  detenuto tunisino, che, uscito di galera dopo 15 anni, ha preso casa a Volterra, e ha continuato ad andare in carcere ogni giorno per recitare. Ha scelto il carcere pur essendo libero, fino a quando è stato rimandato contro il suo volere in Tunisia. Sono rimasta molto legata a lui e cerchiamo di rimanere sempre in contatto. Ogni anno che torno in carcere sono felice di rincontrare o conoscere gli attori detenuti, di sentire le loro storie e di raccontargli le mie.

Credo che la diversita' culturale sia alla base dei tuoi lavori: testimoniare storie di persone che hanno un passato particolare o stanno vivendo una condizione precaria a livello politico, culturale, sociologico. Ho letto che a NY hai scattato foto alla Rikers Island Jail. Mi racconti di questa esperienza?

L’esperienza del teatro in carcere e l’essere stata a lungo l’ assistente della fotogiornalista Donna Ferrato, mi hanno aperto le porte del carcere di Rikers Island, dove ho fotografato per oltre due anni la sezione di donne che hanno commesso crimini di conseguenza alle violenze che hanno subito. Rikers è il più grande, e probabilmente più famoso carcere negli Stati Uniti.
Ho subito imparato che molte donne non vedevano I loro volti da anni perchè non possono utilizzare specchi, considerati una potenziale arma, all’interno dell’ istituto. Quando ho infatti mostrato loro gli scatti fatti le volte precedenti, ho capito quanto un’immagine potesse suscitare emozioni di ogni tipo. Ho avuto la sensazione tramite l’obiettivo, di offrire loro uno specchio. Non potendo dare alle detenute le foto di loro stesse, poiché potrebbero essere utilizzate per creare documenti falsi, ho deciso di portarle direttamente ai familiari. Nessuno ha avuto la possibilità di fotografare questa sezione fino ad ora, per questo ho sentito un profondo senso di onore e responsabilità. 
 

Progetti futuri?
Negli ultimi anni mi sono particolarmente focalizzata sul sistema giudiziario e criminale cercando punti di vista differenti per raccontarlo. Da qui l’ interesse per il mio ultimo progetto, di cui uscirà a breve un libro prodotto da FABRICA: un viaggio nel sistema delle cauzioni americano, un taboo per noi europei, ma di cui abbiamo sempre sentito parlare e quindi parte della nostra cultura. Bail Bond è un racconto visivo ambientato nella New York contemporanea. Intrecciando storie di Bondsmen (garanti), Defendants (imputati) e Bounty hunters (cacciatori di taglie) il reportage illumina una zona inesplorata della legge americana. Un luogo dove crimine e sicurezza si incontrano e si amalgamano.

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