Quando la vita e la morte galleggiano sullo stesso scafo...
Ricordate la rivolta del pane? Era il 2008, solo dieci anni fa. Ne avevo parlato e avevamo previsto allora quello che sarebbe successo. “Quando l’economia apre i mercati per l’interesse di pochi, facendo credere a tutti l’esatto contrario, torna lo spettro delle grandi rivoluzioni che hanno cambiato la storia; quando si muovono eserciti e si giustificano guerre con motivazioni che poi si rivelano false, torna alla mente il Grande Fratello di George Orwell che denunciava il pericolo della manipolazione delle informazioni e della concentrazione del potere nelle mani di pochi.
E mentre l’Occidente e il Nord del mondo cercano nei biocarburanti nuove soluzioni al rincaro del petrolio, la povertà si allarga a macchia d’olio. Il potere economico nelle mani di una nuova oligarchia sta privando dei beni di prima necessità aree sempre più vaste del pianeta. Che l’economia dei Paesi poveri, legata alla vendita di pochi prodotti su mercati globalizzati, finisca con l’essere ancora più vulnerabile alle variazioni dei prezzi e all’incalzare delle nuove tecnologie, è risaputo. Ma quando a reclamare grano e riso sono le città, e non solo i villaggi dell’Africa nera o delle zone del mondo più arretrate, allora vuol dire che la globalizzazione più che dare vita a un villaggio globale, in cui dovrebbero convivere sistemi culturali diversi, ha globalizzato la menzogna a vantaggio di pochi e a danno di molti. Se ai poveri dell’Africa viene tolto anche il pane, verranno a prenderselo sulle nostre sponde”.
Partiamo dal nome, extracomunitari. Una parola nuova, di quelle che diventano importanti nei vocabolari, strutturate per raccontare limiti; gente di paesi lontani che non appartengono allo statuto comunitario, quella comunità dei popoli d’Europa che è nata per difendere il diritto dei cittadini aggregati, per rilanciare un’economia difendendola dal mercato onnivoro degli stati forti economicamente, dei blocchi dell’ovest e dell’est.
Il sogno europeista era nato per conservare un grande spirito di accoglienza e i padri fondatori immaginavano, insieme all’economia dei popoli, i popoli nella loro stessa dignità, uniti in un bisogno estremo di giustizia e di pace a superare quella logica dei conflitti che veniva fuori dalle due grandi guerre mondiali, e che avrebbe dovuto immaginare scenari di dialogo dopo i grandi lutti provocati dai totalitarismi del Secolo breve. Comunitario significa il mondo di coloro che in ragione di un patto si sono aggregati, e nella specificità della loro condizione, benché rispettosi della propria nazionalità la mettono al servizio, come esperienza, come cultura, come ricchezza da condividere. Extracomunitario, in questa ottica è allora quella nazione o persona, che non rientra nel patto economico ma con il quale si dialoga, con il quale è necessaria un’intesa, perché comunque la comunità deve entrare per motivi politici ed economici, in dialogo ad extra: extracomunitaria, appunto. Ma nella corsa delle parole, nel rovesciamento dei significati il termine da descrittivo è finito per degenerare in una perversa restrizione. Extracomunitario ora significa fuori, posto fuori, fuori posto.
La parola amplifica il fatto che tu non appartieni a noi, non sei dei nostri. Sei fuori perché sei diverso da noi, e se devi ancora cercare aria per vivere, se umanamente ti serve, non chiederlo a noi, semmai lo devi fare sotto il nostro controllo. E così gli accordi “comunitari” rispondono a delle parole, le parole a delle restrizioni, le restrizioni a degli egoismi, degli egoismi ad un modo di intendere la politica e relazionarsi tra uomini con gradi diversi di umanità. E quando si arriva a concepire che i bambini, i nostri, siano “diversi” dai loro, allora le parole iniziano a devastare l’umano come al tempo del Terzo Reich. La giustizia più che essere dovuta per diritto di umanità è sottomessa alla sola regola economica. Il problema delle sponde, dei grandi movimenti migratori che interessano il mondo ad ogni latitudine, non si risolverà chiudendo i porti o minacciando di chiuderli. Masse di popoli, spinte dalla fame, dalla disperazione, dalle guerre, tutte frutto di un colonialismo del passato e di una corruzione del presente non sono governabili, non per sempre. Paesi poveri, gente del Sud del mondo, che si muove in cerca di aria irresistibilmente, come prigionieri di cave inospitali, che per respirare allungano la testa fuori, verso l’alto, in attesa di futuro, non si possono respingere per sempre. La propaganda non è fatta per dire la verità. Per chi cerca ancora di respirare, la vita e la morte galleggiano sullo stesso scafo. Per questo come tutti i disperati, sono più forti di noi. Se non ci attrezziamo a riceverli nella giustizia, l’aria verranno a prendersela da soli. E questa volta, come la storia insegna, per sempre.
*Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli
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