Nelle vene di Napoli e Parigi lo stesso sangue

Gennaro Matino (November 19, 2015)
Parigi e i suoi caduti, i nostri caduti. Napoli non può che sentirli suoi, non sono lontani, non sono stranieri e non perché il genere umano è stato offeso e ogni uomo di buona volontà li piange, ma perché nelle vene di Napoli e Parigi scorre lo stesso sangue. Un'antica leggenda vuole che le due città siano da sempre legate da un fiume sotterraneo, e che leggenda sia, ma non nasce da pura invenzione.


PARIGI piange i suoi morti. Il venerdì della scelleratezza è passato, la paura di una notte profonda non passa, coinvolge tutti, nessuno si sente più al sicuro. Non c'è luogo, non c'è recinto protetto, non basta l'allerta, non resiste il fragile confine di stati e continenti messi in presunta sicurezza da eserciti, armamenti, intelligence o fili spinati.

La morte arriva allo scoperto e spara, esplode, fa saltare in aria mentre la vita normale di gente normale prova, un venerdì sera, uno dei tanti o forse dei pochi destinati allo svago, nei luoghi normali di una vita normale a spendere il tempo dovuto allo scambio di vita. Posti normali, vita normale che ormai di normale non conservano più niente. Niente è più normale quando il tuo Paese non si sente sicuro, quando non trovi neppure nelle mura di case la protezione dovuta.


Una notte che sembra non finire mai da quel tragico 11 settembre di quindici anni fa che avvolge ogni cosa, speranze, progetti, provoca vertigini incontrollate in chi mai poteva aspettarsi o sospettare lontanamente che il suo futuro sarebbe stato così doloroso, che chiusi i grandi conflitti mondiali si potesse ritornare a tanta crudeltà. Non è una guerra, è di più, è molto di più. È la vendetta che spinge il disumano a trovare ragioni, è l'ingiustizia che apre olocausti oltre i campi di sterminio, è quotidiano vivere esposto alla barbarie. È la morte, il linguaggio della morte, che trionfa sulla vita.

Parigi conta i suoi morti, i nostri morti, una serata di svago trascinata nel sangue da mani feroci, folli interpreti di uno sterminio annunciato, che vuole mondi contrapposti da violenza disumana, prepotenza del terrore, presunzione di verità di fede assolute, guerre sante che nulla hanno a che vedere con la santità di Dio. Parigi e i suoi caduti, i nostri caduti. Napoli non può che sentirli suoi, non sono lontani, non sono stranieri e non perché il genere umano è stato offeso e ogni uomo di buona volontà li piange, ma perché nelle vene di Napoli e Parigi scorre lo stesso sangue. Un'antica leggenda vuole che le due città siano da sempre legate da un fiume sotterraneo, e che leggenda sia, ma non nasce da pura invenzione.

 

Arte, cultura, poesia, fantasia, teatro, lingua, vedono le due capitali legate da fili di parole condivise e da lotte per la libertà che di sicuro più ragione e consenso hanno avuto a Parigi ma che di martiri ne ha sacrificati anche a Napoli. La stessa maschera di Pulcinella, icona formidabile per dire Napoli, non è forestiera a Parigi, tanto che nei vicoli di Montmartre ha saputo miscelare le lingue di due popoli che diversi per stile si rassomigliano per il tratto gentile, per il carattere sognante.


Tutta la notte tra venerdì e sabato ho seguito l'orrore di Parigi, mi sembrava un modo forse infantile di vegliare con chi era colpito, di essere parte attiva e non spettatore del suo dolore. Un pensiero mi ha fasciato, provocato, ostinatamente costretto oltre il desiderio di vendetta che già qualche giornale chiedeva a grandi titoli: "E ora guerra sia!". Ma al nemico di oggi succede quello di domani se la causa che ha generato la rottura del dialogo non viene rimossa.


Il mondo è afflitto dal terrorismo e nessuno si può sentire sicuro quando una guerra non dichiarata mina nel quotidiano la tranquillità della gente. Niente di più vigliacco è l'aggressione che arriva dalle tenebre, da nemici invisibili che seminano morte innocente per la sola strategia del terrore. E per la pace universale è giusto combattere il terrorismo come avere il coraggio di denunciare quelle perniciose forme di altro terrorismo che non sembrano essere ugualmente aggredite: la fame che uccide, l'ingiustizia che da secoli si perpetra contro uomini che hanno la sola colpa di vivere in un'altra parte del pianeta dove conviene lasciare che si possa offendere la libertà e lo sviluppo.

Ieri mattina, passando davanti all'istituto Grenoble, il luogo più famoso di alta cultura francese per i napoletani e centro di ricerche per i francesi che si interessano all'Italia del sud, ho visto che era superprotetto da blindati e da forze dell'ordine. Non ho potuto che ripetere a me stesso, quasi come se fosse preghiera, quello che il premier israeliano Yitshak Rabin aveva scritto in un biglietto che aveva in mano, nel giorno in cui a Tel Aviv fu ucciso in un raduno pacifista, un biglietto pronto per essere letto nel discorso che non ebbe termine: "Che il sole sorga, che il mattino splenda. Le preghiere più pure non ci riporteranno indietro. Nessuno ci riporterà indietro dal profondo pozzo dell'oscurità. Non la gioia della vittoria, né i canti di gloria. Così, cantate una canzone di pace. Non sussurrate una preghiera. Meglio cantare una canzone di pace. Con un grande urlo!". Niente è più vigliacco del nemico invisibile che semina il terrore in una notte di vita normale



 


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