Accarezziamo di amore...

Gennaro Matino (March 07, 2017)
Poter morire, saper morire, voler morire. Giusto, non giusto, favorevole, contrario, la morte, estrema serietà, si lascia profanare dall'indecenza delle parole di fumo. Chi può farsi maestro del dolore altrui? Chi può essere arbitro del suo destino? Non ci si abitua mai al dolore di chi soffre, anche se ogni giorno ne fai esperienza, anche se per "mestiere" tanti ne accompagni a morire e con tanti passeggi sul confine dell'assurdo: "Vorrei morire con dignità".

Non è la prima volta che sento tale lucida richiesta, non mi sorprende, non mi scandalizza, capisco chi fa i conti con una sofferenza insopportabile che sembra svestire d'umano la sua storia e pensa che anticipare la sua morte sia l'unica via d'uscita per non svendere l'onore. Morire con dignità, questa la richiesta, che oggi ad alcuni sembra ancor di più necessario dover gridare, dopo che i media hanno raccontato l'esperienza di Dj Fabo, non la sola di dolore immenso, dolore immenso forse lasciato troppo solo. Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere, prima che la sofferenza della fine lo distrugga al punto da farlo vergognare di essere uomo. Per molti autorevoli commentatori è inaccettabile lo spettacolo della sofferenza del condannato a morte.

È una ferocia non liberare dallo strazio chi potendo chiederebbe di essere soppresso. Nel suicidio consapevole, ha scritto qualcuno, responsabilmente esercitato c'è una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di essere padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare. Così la morte come rimedio al dolore arriva ad essere concepita quasi come eroismo, e chi sceglie di "partire" prima, un eroe popolare, un'icona da prendere ad esempio: l'eutanasia, fine alla sofferenza, anticipo di morte, si trasforma in un'antica e resuscitata virtù. Comprendo le motivazioni, sono certo che chi le ponga abbia a cuore solo la compassione.

Legittimo ritenerlo. Tuttavia è legittimo anche ritenere, fuori dal clamore del potere mediatico, che fa dell'eccezione sistema, mentre troppo silenzio cala invece sulla quotidianità di chi vive il dolore anche estremo con dignità, che possa esserci un eroismo contrario.

Un eroismo molto più diffuso, vissuto come offerta di sé e che, non solo la mia fede, ma la mia stessa dignità di uomo, spinge a considerare un'esaltante esperienza di vita benché il dolore: il morire quando la morte, che arriva a suo tempo, abbia avuto il tempo di fare il suo mestiere. La morte fa parte della vita, come è parte della vita la sofferenza.

Sono contrario a ogni accanimento terapeutico che prolunghi un'esasperata sopravvivenza. Lo spettacolo del dolore è spettacolo a cui mi costringe il quotidiano e che certo mi provoca e pone domande anche alla mia fede: "Fino a quando? Perché la sofferenza dell'innocente? ". Prego perché le sofferenze di chi sta morendo finiscano presto, spero che la medicina abbia strumenti per spegnere il dolore. Tuttavia ritengo che la fine della vita è pur sempre vita, ritmata dalle stagioni e dagli avvenimenti di ogni giorno e che questo segmento di vita non è tempo superfluo, è un bene concesso, un'esperienza comunque umana. Non giustifico il dolore, lo combatto, ma eroismo non può essere negare la sofferenza togliendosi la vita. Rischioso allargarne il concetto, come il dover stabilire quale sia il limite della vergogna, lo spazio concesso alla libertà del morire per garantire la propria dignità. Una mamma che ha perso il figlio qualche giorno fa mi ha confidato: "Vorrei farla finita, il dolore è insopportabile ".

Ha torto? Ma c'è di più: a ben leggere l'eutanasia e l'accanimento terapeutico sono facce della stessa medaglia. Solo chi davvero è contro il potere assoluto della medicina, e non crede che la scienza abbia una risposta a tutti i problemi, ha anche l'umiltà di governare le contraddizioni della sofferenza.

Solo chi conosce la vita, e impara ad accettarla nella sua verità, fa i conti con il dolore e la morte. La presunzione di resistere alla morte quando è arrivata l'ora o di anticiparla quando ci sembra troppo in ritardo sono di uguale natura. Il delirio di onnipotenza non permette all'uomo di accettare la natura e inchinarsi di fronte all'evidenza della morte. Provare a resistere all'inevitabile è eroico o temerario? Fuggire dallo strazio della morte è coraggio o vigliaccheria? Fino alla sua morte il morente resta un uomo e da uomo dovrà attraversare quel baratro inevitabile che agli spettatori sprovveduti del suo dolore apparirà come il baratro della vergogna. Ma lo è davvero? Per il momento sarebbe più giusto accarezzare di amore chi ci chiede di essere soppresso forse solo per non dare fastidio, solo per non darci l'angoscia di pensare alla morte.

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