Alla scoperta delle parole. Fatti (affetti, confetti, difetti, infetti, perfetti, ...)
Affetti, confetti e difetti sono chiaramente dei sostantivi, cioè sono parole che, per l’ordinario, possono sostenere un articolo davanti – gli affetti, i confetti, i difetti – e, per loro costituzione, hanno una forma per il singolare e una per il plurale (quella che si chiama “opposizione” e viene rappresentata graficamente: affetto/affetti). Le altre due (insieme anche ad affetto) sembrerebbero degli aggettivi, cioè: parole che oltre ad avere la opposizione singolare/plurale, hanno anche quella maschile/femminile: parole quindi che si accompagnano (e perciò accordandosi) ai nomi [es.: Le cose perfette. Le cose infette. ].
Ma se poi le andiamo ad esaminare, noteremo anche che qualcuna di queste ultime è in grado di reggere un complemento [Esempio: “affetto da una malattia”; “infetto da contagio”], perciò dobbiamo riconoscere che esse sono piuttosto dei Participi perfetti (lupus in fabula!). Come tali, quindi, anche se nella lingua parlata non esiste il verbo da cui provengano, o non lo conosciamo, esse sono pur sempre elementi di un verbo (o almeno, come tali le utilizziamo).
Ricapitoliamo. In maniera sintetica ed essenziale le parole in esame dovrebbero significare, rispettivamente :
Affetto (1) (sost.) = sentimento dell’animo come “amore”, “attaccamento”.
Affetto (2) (part.) = “preso da ...”, “attaccato da ...”, “contagiato da ...”.
Confetto (sost.) = prodotto dolciario.
Difetto (sost.) = sinonimo di imperfezione, mancanza.
Infetto (part.) = “contaminato”.
Perfetto (agg,) = “senza alcun difetto”.
Fin adesso, limitandomi alla lingua italiana, ho parlato di significato delle parole e di categorie grammaticali e loro modalità di uso. Comunque, resta una lezione di semantica. Ora, se consideriamo che queste parole sono la forma italiana di altrettanti “participi perfetti” di verbi latini, potremo risalire al loro significato originario (quello più antico), e così la lezione si trasforma in lezione di semantica storica.
Le corrispondenti parole della lingua di Roma, cioè i participi perfetti dei verbi latini (di cui quelle italiane sono l’evoluzione moderna), sono:
“ad-fectus, adfecta, adfectum” (come a scuola, vengono indicate le tre forme dell’aggettivo: una per il maschile, una per il femminile, una per il neutro), participio perfetto, dal verbo adficio/adficere;
“con-fectus, -a, -um” dal verbo conficio/conficere;
“de-fectus, -a, -um” dal verbo deficio/deficere;
“in-fectus, -a, -um” dal verbo inficio/inficere;
“per-fectus, -a, -um” dal verbo perficio/perficere;
A bene osservare questi participi perfetti, a nessuno dovrebbe sfuggire che essi, dopo il prefisso che è variabile, hanno tutti, in comune, come elemento strutturale, la radice “fect”. O che il prefisso, nella maggior parte dei casi, è una preposizione. Quindi ....
Allora ve lo dico io: i verbi afficere (ad+facere), conficere (cum+facere), deficere (de+facere), inficere (in+facere), perficere (per+facere) sono verbi composti del verbo facio/facere [paradigma: facio; feci; factum; fàcere; è così che a scuola si riconoscono – e si chiamano – i verbi latini], che in italiano si traduce con “fare”.
Così come vi dico anche che: fàcere, unavolta divenuto – grazie al suffisso – un verbo composto, trasforma il suono della vocale da “a” in “i” (fàcere/conficere). E la stessa cosa capita a factum, che però la trasforma in “e” (factum/infectum). Perciò abbiamo adficere/adfectum; conficere/confectum (da cum+factus); deficere/defectum; inficere/infectum; perficere/perfectum. Questo fenomeno si chiama mutazione vocalica, o apofonia, o umlaut: cioè la vocale cambia colore a seconda di dove si trova.
Praticamente – possiamo dirlo adesso! – alla base del significato di tutte le parole che stiamo esaminando in questo articolo c’è sempre l’idea del fare, leggermente modificata dalla presenza della preposizione come prefisso: ad+facere = fare presso ..., o fare verso ... (opprimere, attaccare); cum+facere = fare con ... (mettere insieme); de+facere = fare da ... (allontanamento: perciò mancare); in+facere = fare in ... (portar dentro qualcosa che rende vano il fare); per+facere = fare per ... (fare completamente: portare a termine).
A questo punto non ci resta che fare le nostre deduzioni e tirare la conclusione. E vedremo così che la nostra lingua, almeno per quanto riguarda queste parole, diviene sempre più trasparente.
Prima però dovremmo sottoscrivere un patto di alleanza, tra voi, lettori destinatari del messaggio, e me, emittente, con l’obbligo delle due parti, di consultare un dizionario italiano e un dizionario latino per controllare di persona se tutto quanto da me raccontato sia vero e corrisponda al dato di fatto, base di partenza della discussione.
Allora vi renderete conto che consultare il vocabolario non serve solo a conoscere ciò che non si sa, ma anche a rendere più comprensibile quello che già si sa. E’ questa la differenza tra lingua opaca e lingua trasparente.
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