Articles by: Luigi Casale

  • L'altra Italia

    Storia e viaggio nelle parole. L'anno bisestile



    Parliamo del numero dei giorni dell’anno. Essi sono 365. Ma, 366 ogni 4 anni. Sono i cosiddetti anni bisestili. Proprio come questo 2016. Noi sappiamo che l'anno solare è il tempo che impiega la terra per compiere la sua orbita intorno al sole. Cioè, il tempo per ritornare alla stesso punto di partenza. E poiché essa gira anche su se stessa, il periodo di tempo dell'anno solare è formato dall'alternanza di giorno e notte. Perciò un anno intero, lo possiamo misurare, o "contare", con il numero dei giorni (cioè: quante volte la terra gira su se stessa). Tutto è relativo! Allora possiamo dire che la terra, per percorrere la sua orbita intorno al sole, impiega 365 giorni (cioè 365 giri su se stessa) . 


     
    Però - ecco l'inghippo - succede che dopo 365 giri che essa fa a guisa di trottola mentre gira intorno al sole, alla fine non arriva esattamente al "punto di partenza". Ma rimane ancora un pezzettino (l'ultimo tratto di orbita per raggiungere il punto di partenza), equivalente a un po’ meno di sei ore: cioè circa un quarto di giorno. Quindi l'anno solare è "lungo", o meglio "dura" 365 giorni e "quasi" 6 ore. 


     
    Fino al tempo di Cesare, di questo spezzone di "quasi" 6 ore nessuno ci faceva caso. E così, a distanza di anni si notava che le stagioni si spostavano, arrivavano sempre prima. I diversi popoli antichi avevano trovato il loro modo per correggere questa discrepanza. I Romani in particolare correggevano questa sfasatura mediante alcuni decreti (estemporanei) emanati dai sacerdoti preposti a questo compito: essi ogni tanto inserivano nell’anno dei mesi intercalari, ridando ordine al susseguirsi delle stagioni. Così probabilmente gli altri popoli. 


     
    La riforma di Giulio Cesare – che, data l’estensione dell’Imperium Romanorum, coinvolse una vasta area del mondo conosciuto – stabilì, allora, che ogni quattro anni nel mese di febbraio, dopo il 24° giorno (che si chiamava “sextus ante Kalendas martias”, cioè: “sesto giorno prima del 1° marzo”, sestultimo di febbraio) si inserisse un giorno in più (il bis-sextus: cioè il "sestultimo" per la seconda volta). Questo perché dopo quattro orbite intere che la terra compie intorno al sole, la somma dei (quattro) pezzettini – un po’ meno di sei ore – corrisponde quasi alla durata di una giornata. E poiché il 24 febbraio, secondo il modo di chiamare i giorni che avevano i Romani, era detto “sesto giorno [diem sextum] prima delle Calende di marzo”, il secondo “diem sextum” fu detto “bis-sextum”. Da ciò l’aggettivo bisestile che andò a denominare l’anno che conteneva questo giorno aggiunto. Oggi che chiamiamo i giorni diversamente, negli anni bisestili invece  di ripetere il 24 febbraio, aggiungiamo la giornata del 29.


     

    Però con il provvedimento di Cesare il punto di partenza dell'orbita solare della terra veniva superato (anche se solo di un poco, in quanto il pezzettino che mancava era - come ho detto - meno di sei ore). Perciò restava comunque un inconveniente, per quanto piccolo: alla distanza sarebbe stato - ancora - necessario sottrarre (questa volta) qualche giorno, per mettere l‘anno alla pari e far coincidere così (di nuovo) le stagioni. A correggere questa (piccola) sfasatura intervenne la riforma del Papa Gregorio XIII (nel XVI sec.). Si decise infatti che in occasione di determinati anni bisestili (quelli centenari) non si aggiungesse la giornata in più. 

     
    E allora per recuperare tutta la eccedenza accumulatasi negli anni già trascorsi dal tempo di Cesare a quello di Gregorio, fu necessario eliminare dal calendario 11 giorni. Così in quell’anno 1582, anno della riforma "gregoriana" del calendario, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. In seguito solo gradualmente la riforma fu accettata in tutta Europa. 
     


  • L'altra Italia

    L'anno bisestile



    Parliamo del numero dei giorni dell’anno. Essi sono 365. Ma, 366 ogni 4 anni. Sono i cosiddetti anni bisestili. Proprio come questo 2016. Noi sappiamo che l'anno solare è il tempo che impiega la terra per compiere la sua orbita intorno al sole. Cioè, il tempo per ritornare alla stesso punto di partenza. E poiché essa gira anche su se stessa, il periodo di tempo dell'anno solare è formato dall'alternanza di giorno e notte. Perciò un anno intero, lo possiamo misurare, o "contare", con il numero dei giorni (cioè: quante volte la terra gira su se stessa). Tutto è relativo! Allora possiamo dire che la terra, per percorrere la sua orbita intorno al sole, impiega 365 giorni (cioè 365 giri su se stessa) . 


     
    Però - ecco l'inghippo - succede che dopo 365 giri che essa fa a guisa di trottola mentre gira intorno al sole, alla fine non arriva esattamente al "punto di partenza". Ma rimane ancora un pezzettino (l'ultimo tratto di orbita per raggiungere il punto di partenza), equivalente a un po’ meno di sei ore: cioè circa un quarto di giorno. Quindi l'anno solare è "lungo", o meglio "dura" 365 giorni e "quasi" 6 ore. 
    Fino al tempo di Cesare, di questo spezzone di "quasi" 6 ore nessuno ci faceva caso. E così, a distanza di anni si notava che le stagioni si spostavano, arrivavano sempre prima. I diversi popoli antichi avevano trovato il loro modo per correggere questa discrepanza. I Romani in particolare correggevano questa sfasatura mediante alcuni decreti (estemporanei) emanati dai sacerdoti preposti a questo compito: essi ogni tanto inserivano nell’anno dei mesi intercalari, ridando ordine al susseguirsi delle stagioni. Così probabilmente gli altri popoli. 


     
    La riforma di Giulio Cesare – che, data l’estensione dell’Imperium Romanorum, coinvolse una vasta area del mondo conosciuto – stabilì, allora, che ogni quattro anni nel mese di febbraio, dopo il 24° giorno (che si chiamava “sextus ante Kalendas martias”, cioè: “sesto giorno prima del 1° marzo”, sestultimo di febbraio) si inserisse un giorno in più (il bis-sextus: cioè il "sestultimo" per la seconda volta). Questo perché dopo quattro orbite intere che la terra compie intorno al sole, la somma dei (quattro) pezzettini – un po’ meno di sei ore – corrisponde quasi alla durata di una giornata. E poiché il 24 febbraio, secondo il modo di chiamare i giorni che avevano i Romani, era detto “sesto giorno [diem sextum] prima delle Calende di marzo”, il secondo “diem sextum” fu detto “bis-sextum”. Da ciò l’aggettivo bisestile che andò a denominare l’anno che conteneva questo giorno aggiunto. Oggi che chiamiamo i giorni diversamente, negli anni bisestili invece  di ripetere il 24 febbraio, aggiungiamo la giornata del 29.


     

    Però con il provvedimento di Cesare il punto di partenza dell'orbita solare della terra veniva superato (anche se solo di un poco, in quanto il pezzettino che mancava era - come ho detto - meno di sei ore). Perciò restava comunque un inconveniente, per quanto piccolo: alla distanza sarebbe stato - ancora - necessario sottrarre (questa volta) qualche giorno, per mettere l‘anno alla pari e far coincidere così (di nuovo) le stagioni. A correggere questa (piccola) sfasatura intervenne la riforma del Papa Gregorio XIII (nel XVI sec.). Si decise infatti che in occasione di determinati anni bisestili (quelli centenari) non si aggiungesse la giornata in più. 

     
    E allora per recuperare tutta la eccedenza accumulatasi negli anni già trascorsi dal tempo di Cesare a quello di Gregorio, fu necessario eliminare dal calendario 11 giorni. Così in quell’anno 1582, anno della riforma "gregoriana" del calendario, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. In seguito solo gradualmente la riforma fu accettata in tutta Europa. 
     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Epifania


    Befana Epifania: sembra un bel nome. Completo di prenome e di cognome. Anche se evidentemente esotico, appare ancora molto verosimile. Le due parole sono, in effetti, il nome della festa che si celebra, secondo la tradizione cristiana, il 6 gennaio. Esse sono, infatti, sinonimi. Il primo, Befana, è una trasformazione popolare generata per banalizzazione semantica favorita dall’assonanza fonetica; il secondo – voce aulica, molto fedele all’originale – è il termine greco (ellenistico) per indicare la “manifestazione della divinità”. 



    Il verbo “epiphàino”, nella lingua greca antica significa “mi mostro”: mi faccio vedere in giro, quindi “compaio e mi presento”. Esso è formato dalla preposizione “epì” + il verbo “phàino”. Per inciso faccio notare che dal verbo “phaino” derivano anche le parole fantasma (qualcosa che si può vedere) e fenomeno (ciò che si rende evidente).   


     
    Ma torniamo ad epifania. Nella tradizionale visione cristiana è il momento della storia in cui Dio si manifesta all’uomo, così come si legge dai Vangeli: la nascita di Gesù e la corsa a Betlemme dei pastori; poi, la visita dei tre saggi dall’Oriente, i quali simboleggiano tre culture e rappresentano la saggezza del mondo allora conosciuto. Secondo la simbologia dell’evento, i doni da essi offerti sono il meglio che si possa offrire al nuovo nato, destinato ad essere Re; così come il Bambino stesso, tra tutti i doni, è il migliore che Dio possa offrire all’uomo: un figlio. Ma nella prospettiva della fede egli è il Figlio stesso di Dio, promessa di redenzione per l’uomo. Ed epifania è anche la costante esperienza personale dell’uomo, ogni qualvolta riesce a riconoscere nella propria vita la presenza del divino.


     
    Sono moltissime le parole ellenistiche (periodo della storia dell’antichità, linguistica e culturale, del mondo mediterraneo) – greche e latine – vive ancor’oggi nel linguaggio religioso cristiano. E solo per restare in questo periodo dell’anno voglio ricordare anche – oltre a natale (latina) ed epifania (greca) – carnevale (latina), quaresima (latina), pentecoste (greca). La loro origine è datata, mentre la loro costante attualità rimanda ad una caratteristica psicolinguistica del lessico religioso: quella di evolversi molto più lentamente del restante lessico comune.



    Ma tra le parole fin qui menzionate, befana e carnevale sono quelle che sulla bocca del popolo hanno avuto una loro particolare evoluzione, sia sul piano fonetico che su quello semantico. Questa banalizzazione le ha rese col tempo la personificazione dell’accumulo dei simboli di cui esse erano caricate. Sicché, oggi, oltre alla data della festa (espressa in questa forma banalizzata) legata al ciclo liturgico della Chiesa, esse indicano anche dei veri personaggi creati dalla fantasia popolare, ben noti alla cultura occidentale, come d’altronde lo stesso Babbo Natale. Tutti nella loro peculiare caratterizzazione, sia somatica che psicologica. 


     
    Vedete, allora, che patrimonio di cultura si condensa nei nomi! E quanta partecipazione di popolo risiede nella storia delle parole!  Fino a riempire pagine e pagine di vera letteratura. Così, come ogni lettore potrà darmi atto sulla base della personale esperienza fatta con queste realtà immaginifiche.  

  • L'altra Italia

    Prosa o poesia? La scelta: quasi una confessione ai lettori


    Di “storie minime” da raccontare, ne avrei abbastanza da poter scrivere un libro, se solo avessi la capacità di organizzare il materiale, programmare il lavoro, crearmi una prospettiva, individuare una finalità, e ricompattare poi le pagine scritte in un blocco unico e unitario.



    Se vado a rileggere, come talvolta faccio, la serie degli articoli che negli anni sono stati pubblicati su quotidiani e riviste, forse, fatto salvo il dato di cronaca, il pretesto estemporaneo e occasionale, che ne ha suscitato la scrittura, mi pare di poter riconoscere come unitario solo quel certo spirito che generalmente anima la mia pagina, a meno che non si voglia ritenere segno di omogeneità la presenza di qualche giudizio ricorrente oppure la costante riflessione sul sociale, sul comportamentale, sull’ideologico: la gnome, che forma la caratteristica del mio stile nella scrittura. Comunque, a parer mio, non sufficiente a farne un’opera unitaria, vista la eccessiva frammentarietà dei numerosi interventi che spesso, proprio perché legati alle circostanze, appaiono frammentati e addirittura ripetitivi.

     
    È diverso, se vado a rileggere invece – come sto facendo in questi ultimi tempi in cui mi muovo alla ricerca di qualcosa di positivo da lasciare agli eredi – siano essi nella discendenza genealogica o in quella più larga degli affetti – i pochi e striminziti versi che fino ad una certa epoca sono andato scrivendo, memore del richiamo del Poeta: “Sol chi non lascia eredità di affetti …”.

     
    Le opere di poesie – si sa – singolarmente presentano una struttura autonoma e di facile definizione, indipendentemente dalla loro lunghezza; e, pur costituendo le mie, ognuna di esse, un momento isolato e per nulla collegato agli altri – della giornata o della vita – mi è più facile riconoscere il filo conduttore che le attraversa e le accomuna in qualche cosa di organico, quasi fossero un’unica composizione formata da tanti capitoli diversi. Sembra strano, ma è più facile per le poesie che non per la prosa descrittiva e narrativa, recuperare al suo interno un principio di unitarietà. Almeno per me.

     
    Il rigore razionale che sempre mi ha accompagnato fin dagli anni della mia giovinezza e poi condizionato in seguito in tutte le manifestazioni della vita, credo che abbia bloccato la mia scrittura – come si dice oggi – creativa. La scrittura cioè dei racconti e della memoria, quella della fiction. Per contro mi sono sempre ritenuto più capace alla stesura di relazioni o verbali; più fedele ad una scrittura argomentativa, propria degli studi analitici e delle descrizioni di fenomeni dinamici, visti nel loro divenire: genesi, cause, fasi, situazioni, tendenze, direzione, obiettivi, finalità, scomparsa o estinzione, tutto quanto sia in movimento nello spazio e nel tempo. Anche fenomeni sociali e politici. Ma anche quelle dinamiche interiori, psicologiche, fisiologiche o patologiche, soggettive – reali o supposte tali – effetto di suggestioni, di deformazione ottica, o altro. E poi la compilazione di schede schematiche di flussi logici o di altre procedure in cui sia centrale una certa conseguenzialità. Quella che si dice, in breve, prosa argomentativa.

     
    Col passare degli anni ho ritenuto che questa attitudine comportamentale fosse dovuta alla pratica del linguaggio burocratico, registro linguistico al quale mi aveva condotto la mia scelta di partecipare a gruppi organizzati fin dalla più giovane età, confermata poi, una volta entrato nel mondo del lavoro, dalla funzione di impiegato di concetto, con cui ero stato assunto. La mania dei documenti: la loro lettura e, a volte, anche la loro stesura fatta di quel tipo di scrittura, detta anche burocratica.

     
    E così mi ritrovo ancor oggi più capace di scrivere una pagina sintetica su un soggetto circoscritto, meglio se a carattere scientifico, pseudo-scientifico o documentario. Del tipo: saggio o monografia.  Anche se negli ultimi tempi questa rigidità mi appare alquanto stemperata da uno stile dialogico e da un registro basso che spesso richiedono un lessico familiare non troppo lontano dallo standard. Mi sembra di essere meno portato, in conclusione, per le grandi e particolareggiate descrizioni. 
    Un secondo limite è costituito dalla mia scarsa inclinazione alla lettura. Parlo della lettura vigile, cosciente, critica. Eppure di storie ne avrei da raccontare, e non solo quelle minime. Un affastellato di immagini nella memoria, di fotografie, di oggetti, di pagine scritte per necessità di vita e di lavoro, o da me o da altri in famiglia che poi le ha raccolte e tramandate. Tanti oggetti domestici, mobili, utensili, indumenti, giocattoli, documenti personali e passaporti fuori uso, arredo e corredo, ornamenti della persona e della casa. Tanti e tanti, moltiplicati ancora per quante sono le persone componenti il nucleo famigliare, quelle ancora vive e presenti in casa e quelle che vi hanno dimorato, compresi i padri, e i padri dei padri; e le altre con cui ognuna di esse è venuta a contatto.

     
    E poi le sensazioni, i sentimenti, gli affetti. Quelli miei e quelli di ognuna di esse. Ma qui si rischia di attraversare un campo minato. Di molte di queste storie, legate a questi oggetti reali o simbolici, oppure riflessi della coscienza di chi meglio di me avrebbe potuto raccontarle, spesso si è addirittura perduto il filo narrativo. Oggetti che non parlano più o, se ancora comunicano, dicono poco. Frammenti. Da quando i custodi diretti di quelle memorie per ragioni storiche ed esistenziali si riducono sempre di numero. O da quando l’assuefazione alla routine o la stessa precarietà della natura umana ne hanno affievolita la forma e l’immagine, divenute intanto anch’esse pura evanescenza nella nebbia dell’oblio.


     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. "Era stato detto..."


     

    “Era stato detto”
     
    Quando l’Europa si andava formando, nella prospettiva geopolitica, come nuova entità statuale(prima i Sei, poi i Dodici, poi a mano a mano tutti gli altri fino a diventare Ventotto), passando per la riunificazione della Germania e fino all’adozione della moneta unica; mentre l’Unione Sovietica si scompaginava e la Jugoslavia si dissolveva; qualcuno l’aveva detto. E non tra i politici e i commentatori di professione. Ma erano alcuni cittadini, particolarmente attenti.


    Avevano sostenuto che sarebbero state abbandonate al loro destino le nazioni in via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia; mentre sarebbero state sostenute – e privilegiate – nel cammino dello sviluppo economico e sociale, traendone maggior vantaggio, quelle dell’Europa orientale e i nuovi Stati usciti dall’ex Unione sovietica; nonché quelli dell’ex Jugoslavia. Tutti fortemente attratti dalla nuova Europa politica.

     
    Sono sicuro che, questo, era stato detto.
    Eppure, non si sarebbe mai immaginata l’odierna apocalittica tragedia del trasferimento verso i paesi dell’Unione europea di enormi masse di emigranti e fuorusciti proprio dai paesi dell’Asia e dell’Africa, spinte dalla disperazione e attratte dal miraggio (e dalla speranza, ma per molti anche un’illusione) di una vita dignitosa e rispettosa da offrire ai propri figli, anche a scapito della propria: unico e sommo bene personale.

     
    Non io l’avevo detto. Io che pure mi compiaccio di giocare con le parole, approfondendone il senso talvolta nascosto.
     
    L’affermazione verbale è un dato di fatto, indica un evento; ma, nello stesso tempo, è un avvenimento essa stessa. Un fatto. 

     
    L’approccio del linguista a questo tipo di fatti è, generalmente, un’analisi grammaticale e semantica. Egli cerca di scoprirne i valori formali, anch’essi aspetti del reale: concetti e idee, espressi nella struttura linguistica. In questo caso si evidenzia che “era” è un imperfetto (infectum = non-fatto): una condizione di non compiutezza dell’essere. Ciò che i filosofi più antichi chiamavano il divenire. Che “stato”, come participio perfetto del verbo essere indica azione compiuta nel passato il cui effetto dura nel presente. È l’essere. Sempre come hanno intuito i filosofi antichi; ed hanno insegnato. Mentre, che “detto”, participio perfetto del verbo dire, dà la pregnanza semantica all’enunciato: ci dice, in effetti, che l’azione di cui si intende dare comunicazione (e approfondimento) è proprio la parola, il linguaggio. Sostanzialmente, il pensiero.
     
    Non so quanto siano importanti queste considerazioni applicate, nella circostanza, al fenomeno migratorio che sta sconvolgendo il mondo (come l’ha già altre volte sconvolto nelle epoche passate). Certamente, se stimolano il linguista ad una forma di responsabilizzazione, possono richiamare tutti, politici e osservatori, ad una grande responsabilità. Quella di prendere coscienza dei processi del divenire e dell’essere; e di intervenire, poi, di conseguenza: cioè razionalmente.
     
    A questo punto sorge la questione morale. Incentrata sulla responsabilità. Quella delle scelte personali e degli interventi politici che, evitando da una parte l’indifferenza e la presunta estraneità, dall’altra lo scoraggiamento e la dichiarata impotenza (con l’alibi della eccezionalità del fenomeno), diano risposta alle questioni che ci interpelllano.
     
    Non sono, i popoli, cattivi.
    Oppure, se lo sono, lo sono nella misura in cui sono cattive le loro classi dirigenti.
     


  • L'altra Italia

    Com’è fatto il verbo essere?



    Sonoerofuisarò esserestato
    Sono tutte voci di uno stesso verbo: del verbo essere della lingua italiana.
    Sonoerofuisarò, sono le prime persone dei “tempi semplici” del modo “indicativo”: sono, è presente; ero, imperfetto;  fui, passato remoto; sarò, futuro semplice. Questi tempi verbali sono definiti semplici perché le loro voci sono formate da una sola parola. Mentre i tempi composti hanno o due o tre parole come, ad esempio: “ero stato”, oppure “ero stato visto”. I tempi semplici sono quelli che nel loro modello di flessione (io …, tu …, egli …; ecc.) contengono solo forme (quelle che si chiamano: voci del verbo) di una sola parola (è questo il vero significato di semplice: costituito da un solo elemento); perciò le possiamo definire “morfologicamente strutturate”. So voci, cioè, che  in un’unica parola – scusate se lo ripeto – contengono tutti gli elementi significativi (radice verbale, caratteristica temporale, desinenza personale). Gli altri sono i tempi composti.
     
    Le voci dei tempi composti, essendo formate col sostegno del verbo ausiliare (essere, avere, e qualche altro verbo copulativo) in unione ad un participio, contengono – evidentemente – più di una parola; nel caso del verbo essere, per restare nell’ambito dell’indicativo: sono stato, ero stato, fui stato, sarò stato sono le prime persone; poi seguono le relative flessioni. Dal punto di vista del significato i tratti semantici sono ricavati dal participio (il significato stesso del verbo + l’idea dell’azione compiuta), mentre le altre indicazioni (tempo e persona) sono ricavabili dalla voce del verbo ausiliare. Queste voci composte si chiamano anche voci perifrastiche e si contrappongono a quelle morfologicamente strutturate.
     
    La perifrasi,  più in generale è quella figura retorica per cui il parlante, in maniera del tutto originale crea una forma espressiva di più parole in sostituzione di una parola della lingua, o esistente, oppure mancante nei modelli analogici (flessioni dominale e verbale). Ma  nella integrazione dei modelli paradigmatici (le flessioni) la perifrasi diventa necessità della lingua ed entra come capito specifico nei trattati di grammatica; perciò si preferisce chiamare perifrastiche (cioè formate da più di una parola) le voci dei tempi composti del verbo. Ma mentre nella coniugazione attiva, da come sono organizzate le rappresentazioni visive degli schemi, la differenza tra tempi semplici e tempi composti è evidente, nella coniugazione passiva, invece, pur mantenendo i tempi lo stesso nome e la stessa classificazione tutte le voci verbali sono esse perifrastiche. Infatti nella lingua italiana il verbo passivo presenta solo voci perifrastiche: cioè, anche nella formazione dei tempi che si continuano a chiamare “semplici” viene usato l’ausiliare “essere”  (oggi per influsso della lingua tedesca anche il verbo venire) in unione col participio passato. Ciononostante continuiamo a chiamarli tempi semplici, per amor di simmetria. Mentre i tempi composti presentano tre parole (Es.: “sono stato visto”).
     
     
     
    Ma torniamo al verbo essere.
    Essere, è l’infinito presente. Stato, il participio passato. Potremmo aggiungervi anche “ente”: strutturalmente è il participio presente. Ma questa forma è usata solamente come nome sostantivo.
    Allora, se essere, sono, ero, sarò, sia, fossi, stato, sono tutte voci del verbo essere, qual è la radice che le accomuna?
    Intanto è evidente che fu- (di fui, fossi, ecc.) e stato hanno diversa derivazione, per cui le radici di essere sono tre: es-, fu-, e sta-.
     
    Voi sapete che la maggior parte dei verbi regolari sono “regolari” perché regolati da un meccanismo automatico di generazione delle sue possibili voci (paradigma). Vale a dire che una volta individuato il tema, (la parte fissa della parola, formata da radice +prefissi e suffissi, e che rimane identica in tutta la flessione), il parlante competente, attraverso un meccanismo generativo [la grammatica innata in ognuno di noi, sulla quale si innesta poi la grammatica storica della lingua che impariamo a praticare], è capace di formare tutte le voci della coniugazione. [Ecco perché la grammatica sta nella testa del parlante competente, e non fuori; anche se essa, a dire il vero, ci viene dal comportamento del gruppo sociale].
     
    In effetti il parlante (o lo studente che si avvicina a una lingua straniera), dopo che ha appreso questo meccanismo, riesce da solo – per analogia – a formare tutte le voci possibili (esistenti nell’uso) dell’intera coniugazione di tutti i verbi regolari, conoscendone il tema.
    L’insieme di tutte le voci (o forme) di una parola, esistenti nella lingua, i linguisti chiamano paradigma. Appunto! Modello, esempio, campione.
    Allora – per dirla diversamente – in pratica il parlante conoscendo un solo verbo regolare, cioè il modello astratto (il paradigma), può generarne tutti gli altri a partire dal loro tema.
    Per i verbi irregolari invece è necessario conoscere tutte le voci anomali (non regolari). Come succede per il verbo essere.
     
    Il verbo essere non solo non è regolare, ma, se osserviamo le voci elencate sopra, non riusciamo, a vista, a riconoscere neppure quale sia la sua radice. Per cui il verbo sfugge ad ogni meccanismo automatico (analogico) di formazione generativa.
    Ma, poiché noi conosciamo bene questo verbo nelle sue forme regolari e in quelle irregolari, e lo usiamo magnificamente, non corriamo il rischio di essere fuorviati da quel meccanismo generativo. Perciò il problema non ce lo poniamo se non in sede di riflessione scientifica. Solo per capire e per conoscere.
     
    Prima di procedere con la discussone, vorrei comunicarvi una cosa che ho sentito dire, che non è di scarso valore. Pare che esistano degli studi di linguistica (non saprei dirvi esattamente se condotti sulla base di statistiche, di modelli psicologici o di principi di antropologia) che dimostrerebbero che la sfera lessicale [la sfera lessicale è l’insieme delle parole che si muovono intorno ad un’area semantica. Per es.: tutte le parole che riguardano “la casa”. Ecc.] che si muove nelle aree semantiche della soggettività (soggettività = tutto ciò che riguarda noi stessi) e della religione (cose intime e personali legate al mistero della vita e alla sua presa di coscienza), ed anche delle religioni storiche (quelle associative che creano comunità di credenti), sia più lenta ad evolversi (a trasformarsi).
     
    Voi sapete – vero? – che, attraverso l’uso, nel tempo le parole si trasformano? E così le lingue?
    Ora quali altre parole, più delle parole “io” e “sono”, possono riguardare la soggettività e il mistero della vita? Non so se questa teoria possa valere come una giustificazione, ma sta di fatto che il verbo essere è un verbo irregolare, fortemente irregolare. E – credo – quasi in tutte le lingue.
    Fatta questa considerazione, proviamo a ripercorrere interamente la coniugazione (le tre persone singolari e le tre persone plurali) di tutti gli altri tempi, e di tutti i modi. Ci accorgeremo di quante anomalie (o diversità rispetto alla regola) ci sono nella sua coniugazione.
     
    Allora come facciamo a risalire ad una radice? Facendoci aiutare dagli esperti.
    A volte queste spiegazioni si possono trovare anche nel libro di grammatica.
    La radice del verbo essere – scusate se mi riferisco al latino, non sarà difficile dedurne poi l’applicazione anche all’italiano – è “ES-”. E vediamo perché. [Vi ricordo che la ricostruzione la stiamo facendo per la lingua latina.]
    Presente: Alla radice es- si aggiungono le desinenze personali (le consonanti finali che indicano la persona) che sono:   -m    -s     -t     -mus    -tis     -nt .
     
    Siccome il tema termina con consonante e le desinenze cominciano anche con consonante, per evitare che, incontrandosi le consonanti tra di loro, si possano produrre suoni che alla fine non farebbero riconoscere le voci generate come appartenenti al verbo “es-sere”, la lingua si è dotata della cosiddetta “vocale tematica”, la quale, intromettendosi tra tema e desinenza evita quei mutamenti fonetici. Questo tipo di vocale è “apofonica”, cioè cambia il suo colore: nel nostro caso la “e” può diventare “o”. Così, per una legge interna allo stesso sistema fonetico, succede che davanti alla desinenza che inizia con “m” o “n” si va a piazzare la “o” ; e davanti alle consonanti “s”   e   “t” si va a piazzare la “e”. Proviamo a coniugare:    
    *es-o-m
    *es-e-s     
    *es-e-t      
    *es-o-mus      
    *es-e-tis       
    *es-o-nt .
     
    Sempre per lo stesso equilibrio interno al sistema fonetico (cioè al modo di pronunciare le parole da parte dei parlati) si creano alcune regole comportamentali che si chiamano “leggi fonetiche”. E’ importante sapere che queste leggi esistono, anche se noi non le conosciamo o non ne conosciamo la causa. Perciò nel caso del presente del verbo latino SUM/ESSE (sono/essere) dobbiamo accettare quello che constatiamo, e cioè che dove c’era la vocale tematica “e” questa sia caduta, e al contrario la “o” si sia mantenuta; così come parimenti accettiamo che dove si è mantenuta la “o” sia caduta invece la “e” iniziale, come per una specie di compensazione.
    Ora vediamo che cosa succede.  
    *es-o-m            (e)som            sum                        sono
    *es-e-s                    es(e)s          es                sei
    *es-e-t                     es(e)t          est                          è
    *es-o-mus              (e)somus                sumus        siamo
    *es-e-tis                  es(e)tis                   estis                         siete
    *es-o-nt            (e)sont                   sunt            sono
     
    Ripetiamo l’operazione con l’imperfetto. Schema: es (radice) + a (caratteristica del tempo; per indicare che è un passato: tempo storico) + desinenze ( m    s     t     mus     tis       nt).
    Poiché qui già c’è una vocale tra il tema e la desinenza, non si aggiunge la vocale tematica.
    *es-a-m                        eram                         *era                            → ero
    *es-a-s                         eras                        *era                        → eri
    *es-a-t                         erat                         era                            → era
    *es-a-mus                           eramus             *eramo             → eravamo
    *es-a-tis                         eratis                        *erate                        → eravate
    *es-a-nt                        erant                        erano             → erano
    Per un fenomeno di trasformazione fonetica, intorno al IV sec. a.C., nella lingua latina si verificò che tutte le “s” in posizione intervocalica si trasformarono in “r”. Questo fenomeno, dal nome della “r” [che nella lingua greca è “ρ” (rho)], si chiamò rotacizzazione. Per cui l’imperfetto del verbo es-se diventa:   
                                              eram     eras      erat      eramus        eratis          erant
    che in italiano diventa:  io era     tu era    egli era       noi eravamo     voi eravate        essi erano.


    A questo punto credo che ognuno possa andare avanti da solo sottoponendo ad analisi anche le altre voci.
    Solo vorrei avvertirvi che “fui” – come abbiamo anticipato sopra – è un tema derivante da altra radice.
    La voce “stato” proviene addirittura da un altro verbo. [Intensivo o iterativo di “es-“]
    Qualche tempo fa, quando l’italiano era più vicino al latino, l’imperfetto si coniugava così:    Io era,     Tu era,       Egli era, ecc., .... (come ho scritto sopra). 
    In effetti si manteneva la “a” del latino in tutta la flessione. Poi per analogia col presente le tre voci omofone si sono distinte differenziandosi .                   
     
    Luigi Casale                    


  • Opinioni

    Il doppio-senso, ovverossia un errore di segmentazione



    Quando mi scrivono, mi dicono: “Caro Luigi” oppure “Caro professore”.
    Caro? Ma quando mai !? A meno che non intendano dire che “costo parecchio”.

     
    Ma voi veramente pensate che la parola “caro” significhi ancora qualcosa, oggi, quando viene usata in apertura di uno scritto, o quando si parla con qualcuno?

     
    O non è piuttosto una formula convenzionale per richiamare (o ingraziarsi) l’attenzione del destinatario prima di attivare una conversazione? Come quando, generalmente, diciamo: “Senti!”

     
    Se è così, essa serve per aprire una comunicazione, o meglio, per stabilire in qualche modo il contatto prima di iniziarla. Rientra, perciò, in quella che si chiama “funzione fàtica della lingua”, secondo la classificazione di Roman Jakobson. Aprire e mantenere aperto il contatto.
    Si tratta perciò di una convenzione. Appunto!

     
    Non è escluso tuttavia che essa venga usata – ma in quanti casi? – con la sua più naturale connotazione affettiva; nelle comunicazioni confidenziali, tra chi veramente si vuole bene.
    Ho conosciuto una persona che probabilmente aveva le stesse mie perplessità nell’accettare l’appellativo di “caro”, quando la apostrofavano. Ma non ne faceva un problema.
    Semplicemente ad ogni “caro” rivoltogli, lui rispondeva con garbo, in maniera calcolata e diretta, quasi con “affettato” affetto:  “Pur caro! Per  me  tu sei  purcàro!”. [Purcaro , nella lingua napoletana è la forma corrispondente all’italiano porcaio. L’equivoco – o il doppio-senso – sta  nell’errore di segmentazione]. 
     
    Ma allora che cos’è un errore di segmentazione?
    Consideriamo un’espressione linguistica, un pezzo di comunicazione, un testo letterario; o come meglio volete chiamarlo? Noi, parlanti di una data lingua, la sperimentiamo essenzialmente come “suono”, in quanto essa viene prodotta dall’apparato di fonazione umana, o riprodotta da strumenti tecnologici in grado di ripetere voce, musica, rumori e suoni; quindi anche la parlata umana. Noi stessi, parlanti competenti (capaci cioè – secondo la sistemazione teorica che di questi fenomeni ci dà Noam Chomsky – di utilizzare nell’uso della lingua le due parti della grammatica che vanno sotto il nome di morfologia e sintassi) siamo in grado di “inventarla” (crearla in maniera originale) e di “esprimerla” (produrla in un contesto comunicativo). Ebbene quella espressione, prima di formularla e portarla all’esterno, il parlante la pensa. Ma – attenzione! – la pensa sempre in forma di “parole”. Cioè immaginando le parole col loro suono e il loro significato.

     
    Una volta definito, questo nostro testo, sia esso nuovo o già esistente nella memoria o nella letteratura, possiamo anche fissarlo nella scrittura, attraverso dei segni grafici che tutti conosciamo. Almeno quelle persone che sanno leggere e scrivere.

     
    Se adesso riflettiamo solo un attimo, ci rendiamo conto che la nostra espressione, nell’atto della sua produzione o riproduzione fonica, appare come una stringa continua di suoni Solo chi conosce quella data lingua (ne è competente, secondo Chomsky) riesce a distinguere, una per una, tutte le parole di quel testo linguistico. Se no essa continua ad essere una serie ininterrotta di suoni continui. Questa è la segmentazione: la capacità di riconoscere tutte le parole all’interno di una stringa continua (qual è in effetti il nostro modo di parlare). Diversa è la scrittura, in cui le parole appaiono opportunamente segmentate.
     
    Forse, all’origine, anche la scrittura dovette apparire non-segmentata.
    Quella stessa persona che a chi lo chiamava “caro”, rispondeva col “pur-caro”, insegnante di latino della nostra giovinezza, quando il latino si insegnava già a partire dalla scuola media, senza tanti preamboli ci metteva di fronte ai problemi della lingua creandoci delle situazioni reali. Per esempio, nel caso specifico, per farci capire che cosa fosse la segmentazione, ci chiedeva di tradurgli la seguente frase, (detta a voce): “Lustramilescarpe!”. La quale nella nostra mente si presentava (segmentata) così: “Lùstrami le scarpe !”. Ma, dato il nostro modesto livello di conoscenza della lingua latina, eravamo costretti a rispondergli che non eravamo in grado di tradurre in latino questa espressione italiana. La risposta – scontata! – evidentemente era attesa dall’insegnante, il quale ci richiamava ad una maggiore attenzione col dirci che la frase era un’espressione latina, e pertanto gliela dovevamo tradurre in lingua italiana. Ma come? Allora si verificava lo scompiglio nella classe; finché il buonuomo non ci scriveva, in maniera corretta, cioè opportunamente segmentata, la frase sulla lavagna: “Lustra, miles, carpe”.

     
    Vi ricordate l’oraziano “Carpe diem !” ? Ebbene le due frasi si corrispondono; e questa volta, al soldato (miles: vocativo) si dava la raccomandazione di “afferrare” (carpe! … imperativo ) i periodi di ferma militare (lustra, [i periodi di 5 anni corrispondente alla ferma di leva]).
    In altre parole, il senso della frase nella sua corretta segmentazione era questo: “O soldato, affronta con serenità e con coraggio la ferma militare, i lustri.
     
    Voglio concludere con una postilla per aggiungere una ulteriore informazione scientifica. La segmentazione del testo orale, che si rende evidente nella scrittura, è la riprova che anche nella ideazione delle argomentazioni pensate con la mente avviene mediante le singole parole, per cui possiamo dire tranquillamente che del codice-lingua “la parola è “unità” di segno. Cioè è l’elemento unitario portatore di un significato circoscritto. Di questo se ne occupa la semantica.


  • Fatti e Storie

    Viaggio nelle parole. GIUSTO


    Alla base della comune radice delle tre parole c’è l’antica voce latina ius,  alla quale facciamo corrispondere il significato che oggi attribuiamo alla parola “diritto”.

    [Voglio segnalare, per inciso, che ancora oggi il termine ius viene usato come voce dotta; o meglio, è termine tecnico del linguaggio specialistico dell’area del diritto. Tuttavia fino ad una cinquantina d’anni fa esso era in uso anche da parte del popolo, nella provincia napoletana, per indicare l’esercizio di un diritto riconosciuto. E pertanto andrebbe indicata come voce dialettale.]

     
    Quindi da ius derivano iustus [ius+ il suffisso aggettivale -tus; “ciò che riguarda il ius”] e iudex [ius+ un suffisso derivato dal verbo dico; “colui che fissa o sancisce il ius”]. Da iustus, poi, viene iustitia:“l'area di azione del ius, o la conseguenza del ius”.

     
    Qualche giorno fa, nel commentare le parole fastus e festus (vedi articolo Feria e festa), siamo risaliti ad un'altra parola monosillabica della più antica lingua latina: “fas” (lecito), spiegandola come principio e fondamento del diritto divino. Ora, in analogia alle considerazioni fatte, potremmo dire che il ius, parallelamente, potrebbe corrispondere al principio del diritto umano; un principio fissato in una formula, esplicitato - e fissato, cioè - nelle relazioni sociali; mentre il fas, in quanto fondato nella religione (o nella coscienza personale), resta tutto interiore e generico rispetto alla sua definizione di contenuto.
    Che il ius sia «il diritto espresso nella sua formulazione resa pubblica», sarebbe confermato inoltre dalla etimologia della parola giuramento (anch'essa all'origine derivata da ius), che gli antichi Romani chiamavano  ius iurandum (come a dire: “la formula che bisogna pronunciare”; il limite della definizione dell'oggetto-ius). (Benveniste)

     
    E con questo spieghiamo che anche giurare contiene la radice latina di ius. 
    Cocludiamo con una breve postilla per spiegare in che modo l'identico referente della parola “ius” in latino, diventa poi il contenuto della parola “diritto” in italiano.

     
    Diritto è dal verbo dirigo/directum/dirigere, composto del verbo rego/rectum/regere (= seguire la linea diritta, quindi: guidare, governare, reggere). Per il resto rimando al mio articolo su rex, già pubblicato in questa stessa rubrica.                                                        
     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Primo pelo




    Oggi si usa un’espressione molto diffusa: “di primo pelo”, per dire “giovane”, “nuovo del mestiere”. L’espressione, infatti, nella pratica comunicativa proprio questo significa; anche se il pelo o la barba incipiente dell’adolescente non c’entrano proprio niente.


    Se quando si parla di “primo pelo” ci si riferisce al “giovane” o al “principiante”, lo è solo per traslato, cioè per via di metafora. Si dice di una cosa ma ci si riferisce ad un’altra. È questa la metafora. Parola sinonimo di traslato.


    [Le due parole sono – esattamente – dei “calchi”, cioè una è la copia dell’altra, dal punto di vista della loro struttura morfo-semantica.


    Traslato viene dal latino (trans + latum; “latum” è il participio del verbo fero [portare] e significa: portato. Traslato, perciò, è portato da una parte all’altra, portato di là. Quindi: trasportato, trasferito.


    Metafora è invece di origine greca (metà + phoréō) e significa la stessa cosa: trasportato. Il significato della parola che si dice, infatti, di una determinata sfera lessicale, è trasportato alla parola che contemporaneamente si pensa e vi si allude di una ben diversa sfera lessicale, proprio come indicato nella definizione di metafora. Il parlante che usa una determinata parola sposta, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, il significato ad un diverso referente che normalmente verrebbe indicato con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). La definizione della metafora, a parte la prolissità del mio parlare e le molte ridondanze, così come l’ho formulata, mi pare chiara e completa, e – spero – sufficientemente comprensibile. Elementi di ulteriore chiarimento ci saranno forniti dall’esame della espressione che stiamo esaminando, quindi dalle argomentazioni che seguiranno.]


    Se il pelo di cui si parla qui fosse veramente il pelo della barba o altra peluria adolescenziale (come si è portati a credere; e come certamente lo è per chi usa la lingua in maniera poco trasparente), il significato di “primo pelo” passando all’adolescente che comincia a sperimentare la comparsa e la crescita della barba, andrebbe a significare ugualmente “giovane” o “giovanile”, e ci troveremmo nella stessa sfera lessicale (quella della gioventù).


    [Ma anche in questo caso potremmo parlare di una “mezza-metafora” in quanto parleremmo del pelo per indicare la persona a cui il pelo appartiene: anche questo tipo di comportamento è un modo di esprimersi “per metafora”. Solo che in questo caso data la vicinanza delle due sfere lessicali, la retorica definisce questo processo come metonimia].


    Però si dà il caso che il nostro “pelo”, quello della espressione da cui siamo partiti e che usiamo abitualmente, non è il pelo anatomico della specie umana (al quale i più sono portati a pensare), il quale, se riferito alla barba, indicherebbe l’individuo maschio adulto. O anche, se riferito ad altro pelo, potrebbe indicare la pubertà e perciò si potrebbe applicare sia al maschio che alla femmina, nella sua fioritura preadolescenziale.


    Il “pelo”, di cui si parla, veramente (e qui entra la semantica storica), è il “pilum” dei Romani, cioè il giavellotto, una specie di lancia corta che faceva parte della dotazione del soldato. È solo un caso che anch’esso sia riferito all’uomo, maschio, adulto. In questo caso – è il caso di dirlo – qui si tratta di un dato di cultura, non di un dato di natura. Perché esso è esclusivo del soldato.


    I Romani chiamavano “primipìlus” il soldato di prima fila, o il comandante di una unità militare, com’era il centurione. Ma non è escluso neppure che con questa espressione si potesse indicare il soldato appena arruolato; “alle prime armi”, si direbbe oggi, come se i Romani avessero detto al “primo giavellotto”. In latino: “primipìlus”. E allora, solo per puro caso le due espressioni, quella antica e quella moderna, quella trasparente e quella ancora opaca per molte persone, coincidono.


    Ma se ci riferiamo a come usa Cesare, o altri autori, la parola “primipìlus” (per il quale essa significa il “centurione del primo manipolo dei triarii”, cioè i veterani con tre lustri di anzianità – e perciò alla ferma, che era anche l’ultima – costui non sarà stato poi così giovane essendo egli il comandante dei più anziani, quindi anziano egli stesso.


    A conclusione di questa nostra conversazione possiamo notare come oggi la recuperata trasparenza della lingua rischia di stravolgere completamente il significato usuale dell’espressione, consolidato da un equivoco. Comunque resta il fatto che è sempre meglio saperle le cose, che non saperle. Conoscere è meglio di non-conoscere.

  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Questa volta partiamo dal vocabolario di latino


    Incapace di definire una mappa completa e articolata di radici lessicali e di probabili etimi da collegare attraverso la ramificazione semantica, continuerò a procedere per campionature. Partendo da gruppi di parole della stessa famiglia. E quale avvio migliore se non cercare le affinità semantiche tra le parole che usiamo più frequentemente, le quali, apparentemente lontane sul piano del significato, mostrano invece nella struttura fonologica una comune origine.


    In questa ricerca ci può essere d’aiuto la pagina del dizionario dove più dense sono le ricorrenze fonetiche che rendono probabile se non evidente questa loro appartenenza. Il criterio, infatti, della organizzazione dei lemmi nel dizionario è quello dell’ordine “alfabetico”, costruito proprio sulla componente fonologica delle parole. Perciò oggi ho scelto di partire da una pagina del vocabolario di latino, in cui si trovano le parole legate al verbo vìgeo/vigère Si tratta di un verbo intransitivo, cioè tale che, per completare il suo significato, non richiede nessun elemento lessicale aggiuntivo (il tradizionale complemento oggetto): basta il soggetto affinché il verbo esaurisca la sua capacità di significare. Vìgeo/vigère significa essenzialmente: aver vigore, essere pieno di vita. Poi, anche, continuare ad aver vigore, continuare ad essere forte, continuare a vivere. Da qui l’area del significato si espande per metafora a tante altre situazioni che il vocabolario, per darne l’ampiezza, documenta con esempi della lingua (le cosiddette espressioni idiomatiche. Nella stessa pagina trovo il verbo vigesco (dove il suffisso –sco modifica l’aspetto del verbo e gli aggiunge la parte di significato che possiamo sintetizzare nelle parole “inizio a ...” oppure “divento ...“ . Quello che si dice aspetto incipiente del verbo, cioè: azione che comincia. Quindi: “prendo vigore”, oppure “riprendo vigore”. Poi trovo l’aggettivo vigil, che significa “in forza” e per traslato “sveglio”, “vigile”. Da vigil si forma un altro verbo: vigilo/vigilare (vegliare). Poi c’è il sostantivo vigor (vigore, forza, energia, forza vitale; con tutte le espansioni originate dalla pratica dell’uso attraverso la metafora).

     
    Vigil (“che è sveglio” o “che tiene sveglio”), vigilare (“vegliare”; ma anche “sorvegliare”), vigilia (“lo stare sveglio”). Notiamo già che il significato originario va trasformandosi verso un diverso contenuto semantico: quello della funzione e dell’attività della guardia. In italiano, infatti abbiamo: il vigile, l’azione del vigilare, e (implicitamente) anche la sorveglianza notturna. Così del vigeo iniziale, nella lingua italiana è rimasto (quasi) solo il participio vigente, cioè “in forza”, “in atto”, “in corso”, o meglio, in vigore, come diciamo generalmente quando parliamo di leggi o di monete. Cioè: che vale ancora.
     
    Vigilia, invece, che come termine tecnico era passato ad indicare la guardia notturna, e, anche, la persona che la faceva (la sentinella), nonché il turno stesso, e la durata in termini di ore del turno di guardia (prima vigilia; seconda vigilia; ecc.), come vocabolo è rimasto identico anche nella lingua italiana; ma con la differenza che, a causa dell’uso che se ne faceva durante le feste importanti (per indicare la veglia dalla sera del giorno precedente fino all’alba della festa) è andato ad indicare: “giorno precedente una solennità”. Come, ad esempio, vigilia di Natale. Da vigilia (veglia) – attraverso il verbo ex-vigilare - si passò al verbo provenzale “ex-velhar”. E da qui il nostro “svegliare”.
     
     
                                                                                         
     
     


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