Articles by: Emanuela Medoro

  • Lino Banfi come Nonno Libero
    Opinioni

    Fiction e Unesco

    Il protagonista della nota fiction “Un medico in famiglia”, una serie iniziata una ventina di anni fa e ancora riproposta da canali della televisione pubblica, è nonno Libero Martini, interpretato da Lino Banfi. Nonno Libero è un ferroviere in pensione, con molti ricordi e orgoglio per il vissuto, e l’attore Lino Banfi è credibile e simpatico nel ruolo di questo personaggio. Mai e poi mai, quando la serie veniva ancora trasmessa su canale 1, dunque parecchi anni fa, gli spettatori avrebbero potuto pensare che Lino Banfi/nonno Libero potesse un giorno diventare rappresentante dell’Italia all’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura). Siamo di fronte a un salto stupefacente, incomprensibile con la semplice ragione, quella del buon senso che ci aiuta a vivere. Impensabile una qualunque relazione di qualsivoglia tipo, fra l’UNESCO e Lino Banfi, mondi estranei e lontanissimi fra di loro.

    Per tentare di capire bisogna muovere zone mentali insolite ed entrare in territori nuovi e sconosciuti, per esempio quello dello slogan “uno vale uno”, adatto solo a contare le schede anonime deposte dai cittadini nelle urne elettorali, ma del tutto insensato, sa di follia pura, se applicato alla vita di tutti i giorni. Questo slogan di fatto punisce la cultura, i titoli di studio, le lauree, le specializzazioni, i master e i dottorati, il merito e l’esperienza professionale, relegandole nel mondo dello spregevolissimo radical chick. So quello che dico, su facebook ho avuto una risposta irriferibile in merito ad un mio eventuale diploma di liceo classico. Se sto male mi faccio curare da un medico, non dal primo uno che passa per strada, parimenti se devo riparare un tubo dell’acqua che perde mi rivolgo all’idraulico, non all’avvocato.

    C’è un altro slogan su cui vorrei fare una piccola osservazione, “Prima gli Italiani”, detto da uno che ama esibire simboli della religione cattolica. Sebbene poco praticante, ricordo benissimo che ci è stato detto che siamo figli di Dio, senza distinzioni, tutti, per cui quello slogan mi pare una bestemmia.

    Questo insieme di idee oggi maggioritario semina violenza, visibile anche nel linguaggio orribile diffuso nei social, e odio per il diverso. Ignora il fatto semplicissimo che raccogliamo quello che seminiamo, per cui temo veramente che in futuro prossimo possano esserci tanti morti italiani oltre a danni gravi e irreparabili al nostro patrimonio storico e artistico.   

    Tralasciando queste riflessioni sul diffuso trionfo dell’ignoranza e della violenza, trovo consolanti i discorsi del Presidente della Repubblica   Sergio Mattarella, altamente politici, profondamente consapevoli della polis, ovvero della società e della sua complessità, contrastano al meglio lo sperdimento dei tempi.

    La colonna cui appoggiarsi per trovare un rifugio sicuro sono due suoi illuminanti discorsi, quello di fine anno e quello più recente in memoria della Shoah. In ambedue percepiamo qualcosa al di sopra della sua cultura giuridica e politica, si sentono vibrare i sentimenti di una profonda consapevolezza dei valori della democrazia rappresentativa, intessuta di rispetto per le istituzioni della repubblica e per le persone che ne abitano il territorio. Tutte, indipendentemente dalla provenienza. Avvertiamo altresì un profondo senso dell’unità dell’Europa che, necessaria nel mondo globalizzato di oggi, è irresponsabilmente negata in nome di una fuorviante e malintesa idea di sovranità nazionale.

    Quando vedo uomini, donne e bambini messi per strada, con crudeltà scacciati da un posto dove erano accolti, quando vedo gente lasciata galleggiare su un barcone in mezzo al mare per giorni e giorni, quando sento parlare di morti annegati nel Mar Mediterraneo senza una parola di pietà, quasi fosse la normalità dei nostri giorni, quando sento di torture e violenze nei lager della Libia, allora penso che l’unico riparo dalla diffusa e folle violenza che ci circonda sia il Presidente Sergio Mattarella.

    Ho visto i volti di politici attuali, i cui nomi taccio per amor di patria, mentre il Presidente pronunciava il discorso in memoria della Shoah, impassibili e inespressivi fissavano il vuoto. A conclusione di queste brevi note, esprimo un augurio all’attore Lino Banfi, gli auguro di avere un briciolo di cultura e intelligenza, sufficiente a rinunciare all’ incarico di cui sopra, per il bene suo e dell’Italia. Presumendo che chi di dovere sia in grado di scegliere la persona adatta.

     

  • Fatti e Storie

    Natale a L'Aquila

    Ecco un bell’albero argenteo alla destra della facciata della basilica, poi, l’Emiciclo illuminato in oro e il carro di Babbo Natale trainato da renne, più in là, nella villa comunale creano un effetto scenico non comune. Tante belle stelline dorate ci accompagnano fino a piazza Duomo, dove spicca un enorme globo luminoso rosa/lilla, affiancato da una casetta/pacco dono, e un albero di Natale fatto di sfere trasparenti d’oro e d’argento. Più su, sotto una volta di tante bande colorate oscillanti al vento, ecco il carro dorato di Cenerentola trainato da cavalli bianchi. Poi, rami di fiori multicolori, pupazzetti, orsacchiotti   e cascate luminose, anche all’incrocio verso Corso Umberto da un lato e verso piazza San Bernardino, dall’altro. A Piazza Castello, gran finale: una stella cometa di luce argentea segna con la sua coda ad arco l’ingresso alla passeggiata intorno al forte spagnolo.

    Una bella novità, tanta gente in giro, bambini e adulti, selfie in circolazione sui social. Finalmente a dieci anni dal terremoto, un sogno, una volontà di rinascita, in occasione del Natale. Protagonisti di questa festa di luci e colori, i bambini, tanti, il futuro della città, con occhi attenti e sorridenti guardano le installazioni luminose.

    Protagonisti ancora, i bambini, i nati nel 2009 e 2010, con palloncini neri e verdi hanno affollato Piazza Duomo il giorno 6 dicembre, quando alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si riaprì la chiesa delle Anime Sante, luogo simbolo della distruzione della città del 1703 e del 2009.  Ancora, un paio di giorni fa, tanti bambini hanno affollato il Palazzetto dei Nobili per “La magica casa di Babbo Natale”, laboratori e proiezioni di cartoni animati e cortometraggi a cura de La Lanterna Magica e dalle mamme per l’Aquila.

    Ben vengano tutte queste belle manifestazioni di luce e di speranza per la città che rinasce dopo il trauma del sisma. Tuttavia, essendo di cultura cattolica, anche se poco praticante, non posso non pensare al presepio originale, quello fatto per la prima volta da San Francesco a Greccio. In piazza Duomo, accanto alle luci sfolgoranti, in un angolo discreto, un piccolo recinto con un presepe, il presepe di Giovannino, fatto di pietre, con una capanna illuminata e personaggi piccoli e umili: il solo accenno alla nostra tradizione, che celebra e ricorda la nascita del bambino salvatore del mondo, in una grotta al freddo e al gelo, riscaldato dal bue e dall’asinello, come si diceva nella poesia di Natale che imparavamo a memoria alle scuole elementari. Un sentito ringraziamento a Giovannino che lo ha pensato e realizzato.

    Curiosa di mondi lontani dal mio, non dimentico un’immagine vista sui social: un deserto di terra e sassi, al centro un bambino piccolissimo messo dentro una scatola di cartone su un pò di stracci fissa il nulla con occhioni neri, sbarrati, accanto solo la madre, accovacciata in terra, mangia un panino. Niente padre, niente bue e asinello, niente stella cometa a indicare la via della salvezza. Anche questo è il mio presepio, quest’anno, a simbolo e memoria di centinaia di immigrati, uomini, donne e bambini, messi per strada, d’inverno, dalle politiche attuali. Penso con sgomento alle conseguenze che un fatto del genere potrà avere in futuro nel pensiero e nelle azioni dei tanti lasciati senza tetto e senza cibo.  A Roma, capitale della cristianità, il dolore e la vergogna per la cancellazione delle idee di uguaglianza e fraterna, accogliente solidarietà.

     
  • Gourmet

    NIKO ROMITO, le radici antiche del futuro

    Due anni fa lessi il libro "Dieci lezioni di cucina" di Niko Romito e notai che lui riusciva in un’impresa difficilissima: collegare il passato arcaico, contadino e pastorale dell’Abruzzo al mondo presente, quello benestante ed elegante, e a proiettarlo nel futuro. Ad esempio, leggendo il libro, trovai la parola mesticanza usato per un piatto di verdure a me ignoto, ma la parola mi suscitò l’immagine di una fila di contadine al centro della piazza del mercato dell’Aquila, prima del sisma, con sacchi di erbette miste, profumate di vento e di prati. E gli elogi per i nostri legumi! I fagioli bianchi di Paganica, le lenticchie di Santo Stefano e i ceci di Navelli, strepitosi, ma sconosciuti oltre i confini della regione. Ripeto gli aggettivi usati dall’autore, “strepitosi e sconosciuti”, augurandomi che una eventuale produzione per la diffusione dei legumi abruzzesi oltre i ristretti confini regionali non ne peggiori la qualità.

    Oggi, finalmente mi è riuscito di visitare il bar ristorante “Spazio”, di Niko Romito a Roma, Piazza Verdi, zona Parioli, dove operano i diplomati della sua scuola di Castel di Sangro che offrono al pubblico una versione semplificata ma fedele della sua cucina. Appena entrata ho avvertito, nella confusione delle voci all’ora più affollata del pasto di mezzogiorno, un insolito tintinnio di piatti, poi arrivata la portata ordinata, mi accorgo di avere un piatto metallico, smaltato di bianco con un bordino blu.  Per i giovani è una trovata avveniristica per limitare l’uso della dannosissima plastica. Ricordo loro, però, che prima della diffusione di questa si usavano piatti e scodelle metalliche, smaltati di bianco e di blu. Un brillante caso di futuro con radici antiche.

    Altra scoperta memorabile, densa di ricordi, il Pane e Ragù, elencato nel menù e richiesto. Sono arrivate due fette non sottili di un pane dalla crosta croccante e mollica leggera e spugnosa, coperte da un ragù che, morbido e cremoso, manteneva intatto il colore e il profumo dei pomodori crudi. E poi, dopo aver mangiato cannelloni di magro, alla fine osservo che il piatto era pulito. Che differenza con lo stesso primo consumato a casa o in ristoranti più tradizionali. Elegantemente semplice, si può dire per “Spazio” parafrasando il titolo dell’articolo dell’Espresso che per l’apertura del nuovo ristorante di Niko Romito all’hotel Bulgari di Milano titola “Lussuosamente semplice”. 

     Nel libro di Niko Romito notai anche una notevole attenzione alla salute nell’alimentazione: “…Non c’è una goccia d’olio in tutta la preparazione (pag 57) … Con la sola eccezione del limone candito non c’è un grammo di zucchero in tutto il piatto (pag 95) …rispettando l’uomo, un boccone dopo l’altro (pag.96)”.

     Secondo questa mia limitata esperienza, Niko Romito riesce veramente a rispettare la salute del consumatore. Un bell’impegno per il suo futuro: diffondere per quanto possibile l’idea che un piatto può essere buono senza essere dannoso per la salute.  Troppo spesso ho sentito dire: se il cibo non fa male, non è buono. Sarebbe socialmente utile se l’uso di alimenti buoni e salutari diventasse patrimonio culturale di tanti, famiglie, ristoranti e trattorie, e non solo per gente particolarmente salutista.

    Ultimo, ma non meno importante, per due portate il conto pagato alla cassa non fu più alto di quello pagato in tanti ristoranti che usano sale, zuccheri e grassi animali e vegetali in quantità industriale.

  • Una fiaccolata per commemorare le vittime del terremoto del 6 aprile. 309 vittime
    Opinioni

    6 aprile 2018. L'Aquila, nove anni dopo

    Nove anni dopo il bicchiere è mezzo pieno, si vede nei servizi fotografici dei media nazionali, e lo confermo con la mia esperienza personale. Salendo da Porta Napoli verso la Fontana Luminosa i fabbricati del lato destro sono tutti rimessi a posto, non così quelli a sinistra, i portici sono ancora fermi alla messa in sicurezza dell’immediato dopo sisma. Nei pochi metri in cui ambedue i lati sono a posto si respira aria di normalità, negozi e studi professionali in piena attività, gente in movimento.

    Ma troppi fabbricati restaurati e rimessi a nuovo sono purtroppo ancora vuoti. La scena offerta da palazzi secolari dall’aspetto oggi nuovissimo, contigui a cantieri con le gru in movimento, è invero singolare anche per chi ne ha esperienza quotidiana. Si ha l’impressione di uno spazio cittadino in divenire, incompiuto, direi informe, dove tutto deve ancora succedere in un futuro dalle dimensioni ignote. Ricordo che un politico in auge all’epoca del sisma, dopo avere sorvolato la città subito dopo il catastrofico evento, disse che per rifarla ci sarebbero voluti almeno trent’anni. Se dopo nove anni la metà è rimessa a nuovo, possiamo essere ottimisti sui tempi a venire.

    Sorgono attività nuove negli spazi lasciati vuoti da commercianti che o sono andati in pensione o si sono definitivamente trasferiti nei tanti locali sorti in periferia, con il vantaggio certo di ampi e sicuri spazi di parcheggio che dilatano lo spazio della città a dimensioni del tutto imprevedibili prima del sisma. Fra le novità dell’antico centro storico spiccano bar, pub, pizzerie, enoteche, bistrot e ristoranti, aperti a tutte le ore. Da notare che anche a L’Aquila i cuochi oggi si chiamano chef, e appare evidente un generale miglioramento dei servizi di ristorazione, trainato dalla presenza di Niko Romito, il geniale chef pluristellato Michelin, che originò il suo percorso professionale in zona Castel di Sangro, provincia dell’Aquila.

    Parlando del dopo-sisma a L’Aquila, segnalo con molto piacere, un libro che ho scoperto per una bella recensione di Donatella di Pietrantonio: Gli Ottanta di Campo-rammaglia, di Valerio Valentini.

    Giovanissimo, ancora nei suoi vent’anni V. Valentini ha pubblicato con la casa editrice Laterza un resoconto del sisma e degli eventi successivi che hanno avuto luogo a Campo-rammaglia, nome finora mai sentito di una frazione della zona di Sassa, a pochi chilometri dell’Aquila. La narrazione intreccia il presente e il passato. L’improvviso sconquasso delle mura e del gruppo che le abitava da secoli, la disagiata sopravvivenza sotto le tende e la forzata convivenza fra famiglie sfollate si fondono con i ricordi degli anni della formazione culturale del protagonista, vissuti tra tradizioni paesane, feste del patrono, vita di circolo, e licei di città. Il narratore rivolge all’intreccio dei rapporti degli abitanti del paese uno sguardo arguto, sempre positivo e affettuosamente partecipe; narra, rielabora e commenta con una brillante proprietà di linguaggio, che mescola in modo sapiente la lingua nazionale al dialetto. Devo a questo libro qualche sorriso, suscitato nel ritrovare frasi dialettali aquilane, usatissime e colorite, consegnate alla solidità e durata di un libro pubblicato da una casa editrice a diffusione nazionale.

     

  • Laura Benedetti
    Arte e Cultura

    NOTE DI LETTURA. Secondo Piano di Laura Benedetti

    Nel romanzo Secondo Piano, Pacini Editore, 2017, la scrittrice Laura Benedetti, nata e cresciuta a L’Aquila, da anni ordinaria di Lingua e Letteratura Italiana alla Georgetown University di Washington, conferma la solida e sicura vena di narratrice, già dimostrata nel suo primo romanzo, Un paese di carta.

    L’autrice costruisce una trama narrativa fatta di esperienza, immaginazione e problematiche attualissime. Rivolge uno sguardo disincantato, pieno di sottile ironia al mondo accademico americano, vede gli aspetti più meschini dell’applicazione pratica dell’idea, quasi un mito, di meritocrazia, e quelli tragici, a tratti anche comici, della scelta degli argomenti dei corsi di lingua e cultura italiana da parte dei docenti per attrarre studenti. Studenti sono spesso definiti clienti dalla dirigenza, termine quasi sorprendente per noi, ma denso di prospettive per la didattica e la valutazione del profitto.

    Due gare segnano il filo del discorso, una partita di tennis fra i due protagonisti, Ralph e Fede, e gli indovinelli o giochi di parole che Marco rivolge al padre Fede. Apre la vicenda la partita di tennis, descritta a lungo con precisa competenza tecnica delle regole del gioco e delle traiettorie della pallina, metafora del rapporto dialettico fra i due protagonisti.

    A movimentare la situazione, la morte improvvisa, all’interno dei locali dell’università, di un professore anziano con cinquant’anni di servizio. Questo avvenimento sembra spostare la narrazione verso una indagine di polizia sulle cause della morte, in realtà l’indagine si sposta all’interno della mente e dei sentimenti del suo più stretto collaboratore, amico e discepolo.  E così la storia si muove agilmente fra passato e presente e vengono fuori le nostalgie per il paese natio tipiche degli emigrati, ma anche le delusioni e le difficoltà proprie dello studioso umanista nel mondo degli scienziati e degli economisti, sempre più sperso in profonda e deprimente solitudine in un mondo troppo diverso dal suo.         

    Ogni giorno più difficile la lotta per l’esistenza stessa dei corsi di Lingua e Letteratura Italiana, lingua neolatina parlata in una provincia di 60 milioni di persone, non considerando l’uso dei dialetti, con una cultura fatta di medioevo e rinascimento. Oggi solo calcio (n. b. il romanzo è stato scritto prima della recente disfatta con la Svezia), vino, pizza e moda sarebbero argomenti in grado di portare un numero di clienti necessario alla sopravvivenza dei corsi e al rinnovo delle nomine di alcuni emigrati italiani sottopagati e poco considerati.

    Fra i tanti e stimolanti aspetti del romanzo, mi soffermo su uno in particolare. Il romanzo è scritto in italiano, non inglese. Peccato, la narrativa di Laura Benedetti sarebbe interessante anche per i lettori americani. Mi interessa una frase in particolare: “…lui per contratto era costretto ad occuparsi di cose moderne. I concetti ce li aveva chiari ma non era abituato a illustrarli in pubblico, e in inglese”. (pag. 104).

    “…E in inglese.” Riporto questa frase che sintetizza l’esperienza di bilinguismo di una persona nata, cresciuta ed istruita in Italia, che ha frequentato il liceo e l’università in Italia, e si trasferisce in età matura negli USA, dove lavora in ambiente americano, fra gente istruita. Ebbene, con quella frase l’autrice evidenzia la difficoltà di esprimere concetti complessi in una lingua non nativa, anche se praticata nella vita quotidiana. Non basta parlare la lingua in famiglia e con gli amici, la padronanza della lingua cresce e si arricchisce della cultura.

    E qui emergono anche i limiti della traducibilità di questo testo creativo, intelligente, colto espresso in una lingua italiana scorrevole, piacevolissima alla lettura. Tradotto così come è un americano non capirebbe mai tutti i riferimenti letterari del testo. “Sena mi fé…” etc. La citazione dantesca è un solido riferimento culturale per un italiano colto, ma che significa per uno che non ha mai sentito parlare di Dante? Stesso discorso nel primo libro della Benedetti, dove una maestra italiana da poco emigrata negli Usa, ricordava sempre il congiuntivo, i suoi significati e la coniugazione dei verbi in italiano, colonne della sua vita di emigrata.

    Concludo queste note di lettura con la citazione di due passi particolarmente significativi.

    Ralph cita una frase di Dante trovata per caso su Google, la reazione di Fede la dice lunga sulla psicologia dei cervelli in fuga dall’Italia.

    “Fu la citazione a far perdere le staffe a Fede. Perché va bene essere disprezzati, sottopagati, messi alla berlina, però sentire le proprie cose più care banalizzate, anzi prostituite così, lo mandò su tutte le furie…la sua romanità travolgeva la diga eretta da decenni di educazione e buone maniere anglosassoni.”

    Ricordo anche un punto di vista critico sul mondo della cultura americana, stimolante perché di grande attualità anche nella nostra sponda dell’oceano:

    “Rendetevi conto di che cosa sarà un mondo affidato esclusivamente ai tecnocrati, agli esperti del business…State creando un popolo di servi nel mondo della democrazia occidentale. Lo sai che cos’è la democrazia senza l’istruzione, Ralph? Un gigante cieco che si agita e tira randellate al vento. È demagogia pura, è l’anticamera del fascismo…”

    Intelligenza lucida e acuta, brillanti abilità narrative. Laura Benedetti un bel talento aquilano all’estero di cui essere orgogliosi.

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    Laura Benedetti insegna letteratura italiana alla Georgetown University (Washington, DC, USA). Tra i suoi lavori figurano La sconfitta di Diana. Un percorso per la «Gerusalemme liberata», la traduzione inglese di Esortazioni alle donne e agli altri di Lucrezia Marinella e The Tigress in the Snow. Motherhood and Literature in Twentieth-Century Italy, vincitore del Premio Flaiano per l’Italianistica. Nel 2015 ha pubblicato per Pacini il suo primo, apprezzatissimo romanzo, Un paese di carta.​

     

  • Arte e Cultura

    Memorie d'Abruzzo

    Nero è il cuore del papavero, il nuovo libro di Patrizia Tocci, è anche il titolo di uno dei 40 capitoli che formano l’intera opera, un insieme di argomenti di vita familiare degli anni ‘60 e ricordi intimi che incomincia con Non sprecare, Le cose, Il mare, L’Ape regina… e termina con I sentieri interrotti, Stagioni, Finale.

    Il filo che lega insieme i capitoli è il dolore per la perdita del padre, avvenuta dopo il sisma del 2009 che distrusse la città de L'Aquila, per cui a tratti il sentimento lacerante del dolore unisce la perdita dell’uno e dell’altra. Il padre dell’autrice era un contadino, che sapeva tutto del suo paese, natura, flora, fauna, trascorrere delle stagioni, dotato di saggezza e sapienza antiche, ricevute dagli antenati e trasmesse oralmente alle figlie. La madre, accanto a lui, appare di meno nella narrazione dell’autrice, ma si capisce benissimo la sua funzione di vigile e amorosa custode della casa.

    Sono memorie d’Abruzzo, paesaggi, fiori, piante, animali, trascorrere delle stagioni, oggetti di casa richiamati in vita dalla memoria. Si tratta di una cultura che, trasmessa oralmente in ambito familiare, si fa scrittura. Una scrittura che rielabora e descrive minutamente con pazienza, amore, tenacia. La lettura di questo testo riaccende nel lettore la memoria di oggetti del vivere quotidiano, atmosfere domestiche, lavori manuali artigianali. L’arte di accendere il fuoco nel caminetto, le sedie impagliate, gli asciugamani ruvidi di lino, il gesto con cui il padre usava la vanga, il passaggio dei vestitini delle bambine dalla grande alla piccola, setacciare la farina con uno strumento rotondo, pulire le lenticchie e i legumi, il pacchetto delle sigarette nazionali, il suono della fisarmonica, l’odore della mentuccia, ecco alcuni dei vivacissimi particolari che popolano le pagine di Patrizia.

    L’autrice trova un modo suo personale per esprimere ricordi e dolore per la perdita del padre in un linguaggio lirico, raffinato, colto, assai articolato. Ed è questa prosa ricca e coinvolgente, a tratti intensamente emotiva, che dà ai brani una dimensione più ampia del diario personale. La narrazione diventa una memoria collettiva, una sorta di diario di quelli che hanno vissuto l’esperienza della perdita di una persona cara e ricordano un’epoca della vita, lontana e oggi sparita per sempre.

    Per concludere una piccola nota personale. Ho notato che l’autrice si rivolge al padre chiamandolo "pa", "papà", che io, di parecchio più anziana di lei, chiamavo babbo. Questa parola oggi sembrava del tutto sparita dall’uso dell’italiano, fino a tempi recentissimi, quando è stata resuscitata dalla fluviale parlantina fiorentina di un noto personaggio politico che cita “il mi babbo”.

    Per maggiori informazioni sul libro >>>

  • Una scena tratta dal film con Micaela Ramazzotti ed Elio Germano
    Fatti e Storie

    Ancora un'opera su Napoli

    I protagonisti e l’intreccio

    Il film mette in relazione due famiglie della borghesia, vicine di casa.  Un cortile, spazio di separazione dei due appartamenti, diventa luogo di incontro, di dialogo, di conoscenza, di ricordi, esplorazione e rielaborazione del passato e del presente.  Un ingegnere del nord capita a Napoli per motivi di lavoro, sua moglie è una donna sorridente, spontanea, aperta e comunicativa, hanno due bambini.  Ambedue si incontrano con un vecchio avvocato napoletano che vive solo, “la mia famiglia sono io”. I figli ed il nipote, poco presenti nel suo quotidiano. Ormai in pensione, è ancora ben noto in città. Per lui le parole avvocato e onestà non vanno insieme, ha esercitato il suo potere per far arricchire tanta gente con dichiarazioni false di invalidità e malattie inesistenti.  “A Napoli ci può vivere solo chi ci è nato”, dice l’ingegnere del nord, “Ed io modestamente ci nacqui”, risponde l’avvocato.  Il momento clou della trama è la tragedia del tutto inattesa, che improvvisamente distrugge la famiglia dell’ingegnere, apparentemente normalissima. La trama si svolge intorno ai sentimenti dei protagonisti, soprattutto quelli dell’avvocato solitario e di poche parole, poche ma efficacissime, figlie di una cultura praticata a lungo e di una saggezza antica. Attraverso un’esperienza per lui nuova, quella della dolorosa solidarietà con la sventurata famiglia dei vicini, ritrova l’affetto e il rapporto con la figlia. “La felicità, una casa a cui tornare.”    

    L’ambiente

    Sebbene questo film rappresenti la Napoli borghese dei professionisti, che vivono in appartamenti spaziosi e assai ben arredati, le immagini esterne della città fanno venire in mente il rione popolare della quadrilogia di Elena Ferrante evidenziando così che ci sono delle caratteristiche della città ovunque presenti. Le strade, un multicolore miscuglio di gente, macchine e motorini, una piazza con un monumento, una porta di pietra grigia, un vicolo dalle mura scrostate, sporche di umido e di polvere antica, ma anche ornate da disegni figurativi o scarabocchi astratti, dai colori vivaci. Nel finale compaiono edifici nuovissimi, il palazzo di giustizia su un vasto piazzale, intorno svettano grattacieli dalle luminose mura esterne rivestite di cristalli grigi. Sembrerebbe New York, se non fossero anche qui segni e disegni multicolori sulle mura e ragazzini urlanti dietro un pallone. Collegano la Napoli vecchia e cadente ma sempre viva del passato con quella del presente e del futuro.  Un film bellissimo, da vedere e rivedere, per commuoversi e meditare.

  • Opinioni

    La legge dell'alternanza: chi ha vinto e chi ha perso

    Ha vinto, sia pure in modo anomalo, la legge dell’alternanza, una legge non scritta, ma molto forte, secondo cui i due partiti principali, il repubblicano e il democratico si alternano alla Casa Bianca. In modo anomalo, perché nella Convention repubblicana di Cleveland, Donald Trump non ebbe l’appoggio ufficiale del partito che lui ha scalato dall’esterno durante le primarie, trascinato da una fortissima ondata di simpatia popolare. Per la stessa ondata, oggi lui ha la maggioranza sia al congresso che al senato, e diviene dunque onnipotente, può tutto. Per questo si parla di Trumpismo, un soggetto politico originale, sorprendente e per ora sconosciuto, alternativo ai due partiti storici e tradizionali.

    Donald Trump ha voltato pagina, ha scritto una pagina di storia nuova, mettendo nel dimenticatoio il paesaggio politico tradizionale del ventesimo secolo, già pesantemente toccato in Europa dal recente Brexit. Hanno vinto gli scontenti, tutti quelli bianchi o di colore che protestano, la classe media bianca impoverita dai cambiamenti radicali del mondo del lavoro, gli impauriti dalle novità della emigrazione degli ispanici e dei musulmani. Ha vinto perché li ha fatti sognare in grande, promettendo di creare fabbriche e posti di lavoro, alzare mura di difesa e scacciare gli intrusi, cioè i poveracci del resto del mondo che aspirano alla loro briciola di sogno americano. Nordamericano.

    Sconfitta Hillary Rodham Clinton: voleva, fortissimamente essere la prima donna nella sala ovale della Casa Bianca. Sebbene sconfitta durante le primarie del 2008 da Barack Obama, sette anni dopo, nell’aprile del 2015, con largo anticipo rispetto all’ inizio delle votazioni primarie, si mise di nuovo in gara, con un comizio di apertura piuttosto deludente. Moglie di Bill Clinton, 8 anni alla Casa Bianca come First Lady, senatrice per lo stato di New York e ministro degli esteri durante il primo periodo Obama, chiude oggi tristemente la sua carriera politica. A questo punto come donna, scrivo che non mi è mai piaciuto il fatto che sia entrata in politica usando il cognome del marito. Bill era solo Clinton, ma lei non è mai stata solo Hillary Rodham. Nella sconfitta non c’entra che è donna, c’entra invece il fatto che lei rappresenta l’élite di Washington, l’arroganza dei poteri economici e finanziari, che dovunque nel mondo creano proteste.

    Sconfitta la sua comunicazione. Non si può votare una persona solo perché donna. La frase più ripetuta durante la sua campagna: “Sei con me? Se sei con me versa un dollaro”, mi è sembrata petulante e meschina. A parte la indiscussa preparazione giuridica e politica e le strabilianti capacità dialettiche, non mi è giunto (potrei sbagliare) un pensiero originale, suo personale, o uno slogan efficace, che portasse avanti i programmi e le idee del suo predecessore, adattandoli ai tempi nuovi e capaci di scuotere e trascinare i sentimenti e le speranze delle masse dei probabili votanti.

    Sconfitti i maggiori organi di stampa americana, e tutti quelli che avevano dichiarato esplicitamente il sostegno alla Clinton, ritenendo D. Trump caratterialmente inadatto alle funzioni di presidente. A questo punto cito una frase di Barack Obama: “Mettereste questa valigetta nelle mani di quest’uomo?” parlando della valigetta contente le chiavi del sistema nucleare. Ed insieme a questi, sconfitti ed inutili i dibattiti televisivi, in cui lei risultava certamente la più preparata in politica interna ed estera, e la più capace di reggere il filo logico di un discorso senza divagazioni inutili.

    Sconfitto anche uno dei punti chiave dell’etica pubblica americana: la chiarezza nei rapporti con il fisco. Sebbene sollecitato da più parti, D. Trump non ha mai pubblicato la sua dichiarazione dei redditi, come a suo tempo fece B. Obama e come ha fatto H. Clinton. Recentemente è uscito fuori che non paga le tasse da vent’anni per un vecchio credito d’imposta. Geniale, secondo Rudolf Giuliani, ma criticatissimo da Bernie Sanders. Questione di punti di vista.

    Nel suo discorso iniziale il nuovo presidente si è sforzato di chiudere crepe e superare differenze sforzandosi di riunire e superare divergenze e contrapposizioni. Staremo a vedere, questa novità storica ci darà tantissimo materiale per scrivere. Per ora non ci resta che dire, con un po’ di ottimismo americano alla Rossella O’Hara. “Domani è un altro giorno.”

  • Donald Trump e Hillary Clinton
    Opinioni

    Dibattito appassionante

    Pure io, sconosciuta frequentatrice del web, posso dare con sicurezza del bugiardo a Donald Trump. La stampa nazionale riporta che Hillary ha dichiarato: “Trump mi ha appena criticato per essermi preparata per questo dibattito…” Si è preparato pure lui per il dibattito tenuto a Hofstra il 26 settembre. Da un paio di settimane ricevo tantissime email per il Donald, fra l’altro quelle del figlio che ripetutamente proponeva articolati sondaggi di opinione sui temi del dibattito, le risposte dovevano servire per orientare la performance del candidato, cioè per prepararsi all’incontro.

    Ben preparato, D. Trump ha attaccato il Presidente Obama e Hillary sull’economia e si è proposto come uomo di legge ed ordine, per abbassare le tasse e creare posti di lavoro, come fece Reagan. Oggi ricevo lettere circolari in cui si loda la performance di Donald Trump come una bella e chiara vittoria degli americani che vogliono l’America ancora grande, dopo la umiliante presidenza Obama. Ma, navigando sulla rete trovo anche opinioni decisamente contrarie, che definiscono gli interventi di Trump caotici e confusi.

    Durante il dibattito deve avergli creato una po’ di disagio il fatto che la controparte fosse donna, e con un cervello straordinario. Preparatissima su tutto, dotata di eccezionali capacità di ragionamento, memoria di ferro e straordinarie abilità dialettiche, Hillary ha collegato gli argomenti volgendoli a proprio favore. Ha smontato il mito dell’imprenditore di successo ricordando le sue sei bancarotte, e gli ha rivolto domande sulle tasse, cattivissime. “Hai in odio le tasse perché non le paghi? Forse perché non sei così ricco? Forse perché non puoi dichiarare i tuoi affari? Forse perché non le hai mai pagate?” Da notare che lo ha attaccato anche sulla sua esplicita misoginia, e si è dichiarata contro la eccessiva diffusione delle armi, argomento sensibilissimo per gli americani.

    Ed ora, lettere da ambo le parti chiedono al pubblico e ai votanti chi ha vinto il dibattito. Come donna penso ad Hillary. I sondaggi di opinione, come al solito poco attendibili, la danno poco sopra a Trump, o alla pari. Certamente si dovrà impegnare per trascinare le folle alle urne, e perciò dovrà riaccendere i sentimenti di tutti quelli che, bianchi o neri, votarono per la prima volta in vita loro spinti dall’entusiasmo per Barack Obama. Ed oggi dovrà portare alle urne quelli che percepiscono come un pericolo il Donald della legge e dell’ordine. Dovrà imparare anche lei a toccare le corde dei sentimenti più intimi e forti di tanta gente che ha bisogno di sperare in una vita migliore, in salari minimi più alti, in scuole e istruzione a costi non proibitivi, in assistenza sanitaria per tutti. Insomma deve riuscire anche lei a sussurrare con voce commossa qualcosa di simile al mitico “I feel your pain”, dell’illustre consorte. 

  • Arte e Cultura

    L'Aquila. Il significato della ricostruzione

    Il verbo ricostruire è definito su un buon dizionario della lingua italiana come segue: 1. Costruire di nuovo, 2. Riprodurre un fatto o una vicenda servendosi degli elementi noti, 3.Ricondurre un testo all’origine cercando di integrarne le lacune e di correggerne le alterazioni. Per il sostantivo ricostruzione il dizionario aggiunge: l’insieme delle iniziative economiche, politiche e sociali volte a riparare i danni causati da una guerra.

    E tutto questo mi aspettavo che i cittadini aquilani potessero fare subito dopo i funerali delle 309 vittime del sisma, celebrati il Venerdì Santo dell’anno 2009. Ma le cose andarono diversamente.

    La città fu svuotata, il centro diventò zona rossa, cioè impenetrabile, e non potei partecipare ai funerali delle vittime. Come tanti aquilani sfollata lungo la costa, fui scoraggiata dal tornare in città. Nella tarda primavera ed al principio dell’estate si incominciò a parlare, addirittura, del G8, da tenersi all’Aquila, anziché in Sardegna, come stabilito prima del sisma. Una decisione sorprendente e spiazzante cui seguì un lungo periodo di preparativi per questo avvenimento che, totalmente estraneo alla tragedia immane che stavamo vivendo, distraeva risorse ed energie e ritardava l’inizio dei lavori di ricostruzione.

    La necessità immediata di dare alloggio ai 50.000 cittadini rimasti privi di abitazione fu l’occasione per costruire in fretta e furia le così dette New Towns, aggregati di abitazioni sparsi come un anello tutt’intorno al territorio della città, prefabbricati accatastati su piastre di cemento ancorate a terra per mezzo di colonnine/palafitte, anch’esse di cemento. Le New Towns fornirono 4.500 alloggi (cito i numeri a memoria), ad esse si aggiunsero villaggi di casette di legno, ad esempio quello di Onna.

    La realizzazione di queste case bastò per diffondere la notizia che la ricostruzione della città era compiuta perché tutti gli aquilani avevano un alloggio. Allora il tutto passò fra aspre polemiche e accese discussioni. Ancora sento come una ferita aperta le parole inutili, aspre e divisive di tifoserie esasperate in un momento in cui l’unità sarebbe stata necessaria.
    Ma a che punto sta la vera ricostruzione del centro storico della città, ora, fine agosto 2016? Entrando dal casello autostradale de L’Aquila Ovest, percorrendo le vie di accesso alla città ampliate e migliorate dopo il sisma, si vede una selva di gru svettanti in alto a indicare cantieri all’opera.

    Le palazzine più recenti della periferia sono state ristrutturate o abbattute e ricostruite, e si sono ripopolate. Ben diversa la situazione della parte più antica del centro, dove ancora si possono trovare cumuli di macerie abbandonate.  Dopo il sisma di Amatrice, sento dire che il centro è di nuovo pericoloso. La scossa può aver danneggiato le tante, troppe, messe in sicurezza ancora in piedi, pali di legno, intrecci di sbarre di ferro e legacci che tengono insieme colonne, fabbricati e antiche mura. Chiusi ancora alcuni vicoletti e piazzette laterali, solo da un paio di anni incominciamo a rivedere i fabbricati dell’asse centrale della città. Poco abitati o vuoti. Troppo a lungo sono stati lontani gli abitanti sradicati improvvisamente dalle loro case, numerosi cartelli affittasi/vendesi cercano nuovi proprietari. Inoltre la possibilità di vendere al comune la propria casa al valore ante sisma, e di comprare altrove ha contribuito a svuotare il centro.

    E’ bello vedere cartelli che indicano nuove attività in centro.  Cito con piacere un’insegna che ho visto proprio oggi su un palazzo restaurato lungo il corso stretto vicino alla Fontana Luminosa. Al primo piano quattro finestre riportano un nome ed un lavoro: Liutaio, Violin Maker. Bellissimo, auguriamoci che arrivino tanti altri artigiani/artisti come il liutaio.

    Ho riportato i miei ricordi personali per esprimere profonda partecipazione al dolore per le perdite di vite umane ed anche qualche speranza per i terremotati di Amatrice e dintorni. Mi auguro che i   politici tutti, centrali e locali, insieme ai cittadini si mettano d’accordo sui modi e i contenuti del processo di ricostruzione evitando divisioni e opposte tifoserie. Inoltre auspico che i politici non perdano tempo in pagliacciate inutili, non spendano soldi per un provvisorio/definitivo.

    Soprattutto, vorrei che i soldi, sia quelli pubblici che quelli provenienti da donazioni private, siano spesi onestamente per riportare città e borghi alle strutture e forme originali, ovviamente nei limiti del possibile. Nel 2016 non si potrà più ricostruire in pietra e mattoni come fecero gli antichi, ma almeno si badi a non devastare con interventi discordanti la antica fisionomia dei centri abitati, di una bellezza discreta, armoniosamente inseriti nell’ ambiente naturale.
    Ultima notizia trovata su Facebook: Allarme proveniente dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: “attesi in Italia terremoti 30 volte più forti.”  Che fare?

       

      

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