L'Italia, nel Mediterraneo. Un cambio di rotta?
Dario Cristiani: Rispetto alla politica estera italiana nel Mediterraneo, Berlusconi ha da sempre sottolineato la “discontinuità” della sua azione con una certa impostazione classica della politica estera italiana, che vedeva nel sostegno al mondo arabo uno dei suoi assi portanti. Pensa sia solo retorica oppure le scelte concrete di Berlusconi nel corso dei suoi anni al governo fanno pensare a un vero cambio di rotta?
Riccardo Fabiani: È davvero difficile individuare degli elementi di netta discontinuità nella politica mediterranea del precedente e dell’attuale governo. Certo, è innegabile che il governo Berlusconi sia ideologicamente e retoricamente più vicino ad Israele, ad esempio, dell’esecutivo guidato da Prodi. Ma non credo sia possibile parlare di una politica estera filo-israeliana, se si eccettua qualche pressione esercitata a livello comunitario quando si tratta di adottare una linea comune nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Piuttosto, una discontinuità interessante nella “pratica” mi sembra che possa essere individuata nella scelta di Berlusconi di porre l’accento sulla necessità di sviluppare delle relazioni privilegiate con pochi interlocutori-chiave dell’area, principalmente Israele, la Turchia di Erdogan, anche se il tema dell’immigrazione e la presenza della Lega potrebbero portare ad un indebolimento di questo rapporto, e la Libia di Gheddafi. Mentre il governo Prodi puntava ad una politica estera di natura economica, con visite ufficiali nei Paesi del Mediterraneo e l’obiettivo implicito di fare di questa regione un’area di delocalizzazione privilegiata per le imprese italiane, Berlusconi sembra puntare a sviluppare rapporti forti con i principali attori della regione per poter giocare un ruolo economico e politico nell’area. In questo senso, è significativo che pochi giorni dopo il giuramento del governo, il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, abbia annunciato che il Presidente del Consiglio avrebbe visitato Tripoli il prima possibile.
Con un gesto alquanto insolito rispetto alle felpate consuetudini diplomatiche, il figlio del leader libico Muammar Gheddafi, Saif El Islam, avvertì l’Italia rispetto a possibili conseguenze qualora Berlusconi avesse nominato il leghista Calderoli come ministro. Cosa intravede dietro questa polemica e che scenari delinea rispetto ai rapporti tra Italia e Libia?
Le minacce libiche fanno parte di uno schema ormai collaudato di incentivi e disincentivi per attirare l’attenzione dell’ex madrepatria da parte di Tripoli. Da sempre, per poter alzare la posta in gioco e acquistare centralità, la Libia fa degli annunci stupefacenti salvo poi ritrattarli qualche giorno dopo. Certo è che i Gheddafi hanno intuito quale sarà la priorità del prossimo governo italiano, ovvero il controllo dei flussi migratori e l’importanza degli approvvigionamenti energetici, e qual è l’anello debole della coalizione, cioè la Lega Nord. L’annuncio di Frattini mira, come consuetudine italiana, a dimostrare a Tripoli che Roma ha recepito il messaggio. Fra qualche mese sentiremo parlare di nuovi accordi sull’immigrazione e sull’energia e forse dell’eterna questione del risarcimento per l’occupazione coloniale. Chissà che la special relationship fra due personaggi istrionici come Berlusconi e Gheddafi non riesca a trovare una soluzione definitiva a questo contenzioso. In ogni caso, non prevedo rotture ma solo continuità in quello che definirei il solito gioco delle parti italo-libico.
L’Algeria è un partner fondamentale per i bisogni energetici dell’Italia. Che tipo di valutazione dà delle scelte operate dall’Italia nell’area maghrebina rispetto a questo particolare aspetto?
Nonostante la probabilità di un cartello energetico regionale formato da Russia, Algeria e Libia sia piuttosto alta e nonostante il nostro Paese sia il più dipendente in Europa dalle forniture di gas di questi Stati, l’Italia, come tutti gli stati membri dell’Unione Europea, sta procedendo autonomamente su questo punto. La politica dell’ENI ricalca delle modalità simili a quelle seguite da altri colossi energetici europei: stabilire una relazione strategica con i propri fornitori, Gazprom, la compagnia libica NOC e l’algerina Sonatrach, contando sul fatto che in caso di aumento dei prezzi verremo trattati diversamente proprio grazie al nostro ruolo centrale nello scacchiere energetico europeo. In effetti, ENI è riuscita finora a conquistare un ruolo di primo piano nella partnership con Gazprom e Libia e di recente ha ceduto proprio alcune concessioni in quest’ultimo Paese al gigante russo per rafforzare questo rapporto. Resta il fatto che sono sempre più allarmanti la nostra dipendenza da questi Stati, la nostra mancanza di alternative energetiche e lo scarso impegno di ENI e del governo in progetti come il gasdotto Nabucco, che mira a rifornire l’Europa senza passare per la Russia.
Negli ultimi anni vi è stato un aumento dell’attenzione economica dell’Italia verso questi paesi, sebbene, nonostante la retorica, l’Italia sia un paese economicamente proteso verso nord. Cosa può dirci rispetto ai rapporti economici dell’Italia con i paesi del Maghreb?
Come ho già accennato, il governo Prodi in particolare si è impegnato per favorire la delocalizzazione delle nostre piccole e medie imprese nel Nord Africa, soprattutto in Tunisia dove la nostra presenza è più forte e le condizioni per gli investitori stranieri sono migliori. Ci sono senza dubbio delle complementarità economiche con questi Paesi e dei vantaggi da sfruttare oltre a gas e petrolio. Ad esempio, i nostri rapporti commerciali con l’Egitto hanno fatti notevoli progressi, si pensi solo all’acquisto di Bank of Alexandria da parte di SanPaolo-Intesa o al precedente take-over di Wind in Italia da parte del gruppo egiziano Orascom. Tuttavia, è innegabile che a parte alcuni governi-modello come Tunisi e Il Cairo, negli altri Stati del Nord Africa l’apertura economica continua ad essere incerta, il sistema educativo lascia a desiderare e le infrastrutture mancano. Non è sorprendente insomma che le nostre imprese siano presenti solo in alcuni Paesi e preferiscano guardare altrove.
Il Maghreb è una delle aree dove la presenza di gruppi terroristici legati a particolari correnti dell’Islam radicale è più forte. L’Italia corre dei rischi rispetto a questa presenza geograficamente così “prossima”?
L’espansione regionale di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico è un dato inconfutabile ormai e la sua presenza in Europa è assodata, potendo contare sulle pre-esistenti reti di immigrati maghrebini legati all’ex gruppo terroristico GSPC, come anche riportato dai nostri servizi segreti nell’ultima relazione semestrale al Parlamento. Periodicamente leggiamo di operazioni preventive contro queste cellule terroristiche ed è notizia di pochi giorni fa una maxi-retata in Belgio contro dei gruppi vicini al Al-Qaeda nel Maghreb Islamico. I rischi per l’Italia sono alti, anche se le nostre forze di sicurezza si sono finora dimostrate abbastanza rapide ed efficaci nel prevenire ogni progetto di attentato. Inoltre, il terrorismo in Nord Africa continua ad essere incentrato ampiamente su obiettivi di carattere nazionale, mentre le cellule europee svolgono più che altro un ruolo di raccolta fondi. Ciò detto, non possiamo dimenticare che per ragioni geografiche e di immigrazione, il nostro Paese continua ad essere vulnerabile.
Riccardo Fabiani è analista politico per il Nord Africa ad Exclusive Analysis e collabora come free lance con diversi centri studi internazionali. Laureato all’Università di Roma Tre, ha ottenuto il suo MPhil in Relazioni Internazionali dall’Università di Cambridge. Tra i suoi settori principali di interesse vi sono l’Africa del Nord ed il Mediterraneo, la storia della Guerra Fredda e la politica estera italiana.
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