Articles by: Michaela De marco

  • "Yalla Italia". La parola ai ‘Nuovi Italiani’. Comunicare la distanza, la vicinanza


    Imane Barmaki. Il suo cognome è persiano, il suo nome è arabo. “Geograficamente sono marocchina, culturalmente sono italiana e storicamente sono francofona. Sono un puzzle di identità che si compongono in maniera armoniosa senza alcun problema”. È nata in Marocco e si è trasferita in Italia quando aveva 13 anni. “Appartengo a quella che viene definita la seconda generazione di immigrati”, si definisce così perché solo sulla carta è ‘extracomunitaria’ e non italiana, ma ritiene che questo fatto possa anche essere positivo: “Giacché vivo a cavallo di due culture e ciò mi ha insegnato che non esiste un solo modo di vedere la realtà”.


    Imane sogna di ottenere un giorno la cittadinanza italiana, la cui richiesta è stata inoltrata già quasi due anni fa: “Semplicemente perché é importante avere anche questo riconoscimento. Inoltre con la cittadinanza non mi ritroverei a dover rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno. Rinnovare quest’ultimo ha effetti negativi sulla mia identità perché sottolinea il fatto che non sono Italiana, cosa non vera. La mia collega di Yalla, Sumaya, una volta scrisse: ‘Che l’Italia lo voglia o no, noi siamo i suoi figli”.


    Imane fa parte dello staff di Yalla Italia, il nuovo inserto mensile di “Vita No Profit” (http://beta.vita.it/), dedicato alla realtà dell’integrazione dei musulmani in Italia. Le chiediamo di parlarci di questa nuova realtà editoriale che non solo in Italia, ma anche all’estero, ha già riscosso tanto successo.

    Chi siete? Come si struttura il progetto?


    Siamo giovani di seconda generazione con tanta voglia di esprimersi. Ci siamo messi a scrivere con il preciso obbiettivo di rompere gli stereotipi. Siamo un po’ esasperati dai luoghi comuni, e per questo vogliamo dare un contributo positivo piuttosto che assumere il ruolo di vittima. Siamo persone con identità culturali multiple e stratificate di cui presentiamo semplicemente le sfumature e le complessità con tanta naturalezza. Yalla italia è un blog cartaceo, uno spazio concreto dove noi, seconde generazioni di immigrati, abbiamo la possibilità di scrivere liberamente i nostri punti di vista circa l'argomento che ogni mese concordiamo. É una finestra originale che si apre verso il mondo sconosciuto dei ‘nuovi italiani’: quelli che hanno radici lontane, dal Maghreb al Kashmir. È un ponte virtuale fra la sfera dell'immigrazione dei nostri genitori e quella della società civile italiana, che passa attraverso un’integrazione che non si traduce in “assimilazione”, bensì in “condivisione” di alcuni aspetti comuni e “valorizzazione” di certi altri aspetti delle nostre culture d’origine. Insomma, un punto d'incontro fra tradizione e modernità, fra tensione verso l'Europa del futuro e ritorno alle origini. Personalmente ho aderito a questo progetto perché vorrei che fosse riconosciuta l'esistenza di un'immigrazione lontana dalla clandestinità e dal pericolo costante.

    Come e' nato il progetto? Da chi è partita l'idea? Da quale esigenze emerge questo progetto?


    La redazione iniziale di Yalla era composta soprattutto da studenti universitari e da altri giovani che hanno partecipato al “Programma di Integrazione” lanciato nelle scuole di Milano. Secondo i dati forniti dal Comune due anni fa, Milano ospita 23 mila giovani musulmani. L’obiettivo della rivista è dunque quello di offrire un’opportunità per parlare di quegli aspetti dell’immigrazione che vengono comunemente ignorati, o che difficilmente vengono trattati dai principali media italiani, proprio grazie alle voci delle persone coinvolte in questo processo.

    Secondo te come viene comunicato l'argomento "Medio Oriente" o, più in generale, l’argomento "Mondo Arabo" in Italia?


    Proprio dopo gli attacchi a Gaza, venerdì 9 gennaio, nella redazione di Vita si è tenuto un incontro che ha aperto nei nostri cuori uno spiraglio di speranza. Attorno allo stesso tavolo s'erano riunite le ragazze musulmane di Yalla Italia e due esponenti dell'Ugei, l'Unione dei Giovani Ebrei Italiani, per discutere sulle ricadute di quello che stava accadendo a Gaza. Personalmente non sono stata presente per cause di forza maggiore, ma i miei colleghi mi hanno riferito che é stato difficile non farsi trascinare dalle emozioni, dal dolore, dalla rivendicazione dei diritti della propria gente. Ma i ragazzi presenti volevano sottrarsi al diktat della guerra, e nell'incontro hanno immediatamente colto l'occasione per rompere l'assedio. Il solo starci era un tirarsi fuori da quella logica senza sbocchi. Anche se magari a Gaza avevi perso un amico o un parente. Anche se il giorno prima qualcuno in piazza aveva bruciato la tua bandiera. Poi, una volta gli uni di fronte agli altri, ci si è accorti che si parlava la stessa lingua e che si desiderava in primo luogo la stessa cosa. Le differenze restavano, anche profonde. I punti di vista erano distanti. Ma anche il solo vedersi e il solo parlarsi, ha reso le nostre differenze e le nostre distanze tutt’altro che “invincibili”. L'altro non era più un nemico. Tant'è che da tutti è arrivata la stessa richiesta: che non finisca qui, che si vada avanti. Abbiamo voluto partire da noi stessi, e quindi dalle relazioni con gli altri, per far spazio alla pace. Questo non significa affatto rinunciare ai propri punti di vista e alla propria storia: partire da se stessi significa non censurare nulla di sé. Per questo ci si batte per il diritto di ciascuno, anche diverso da noi, affinché esca allo scoperto per raccontarsi, senza che la violenza soffochi la differenza.

    Quali sono le difficoltà che quotidianamente incontrate nel corso della vostra attività?


    Le difficoltà ci sono e ci saranno sempre. La cosa più importante é che diventino un fattore positivo per andare avanti mantenendo una certa qualità. Non siamo dei giornalisti professionisti, e forse è proprio per questo che l’iniziativa ha riscosso tanto successo. Quello che noi vogliamo è presentare la “normalità” di tutti giorni, ma, purtroppo, in Italia la “normalità” non fa notizia.


    Finora quali sono state le reazioni del pubblico?



    Si sono dimostrate estremamente positive sia in Italia che all’estero. Ci siamo trovati sulla cover del sito di informazione più frequentato di tutto il mondo, quello di “The New Times”, sul quale é stato pubblicato un servizio sul “fenomeno Yalla Italia”, con la firma di Elisabetta Povoledo e dal titolo: “Italian Magazine Tries to Narrow Gap With Muslims”. A marzo l'edizione europea del grande quotidiano americano Herald Tribune ha dedicato un grosso servizio a Yalla Italia. Anche Aljazeera dovrebbe dedicarci un servizio prossimamente. La cosa che personalmente mi stupisce è perché riceviamo tanta attenzione dalla stampa estera e non da quella nazionale.




    (Da:  Incontro Mediterraneo, www.incontromediterraneomagazine.ilcannocchiale.it)


  • Life & People

    "Whether Italy Likes It or Not, We Are Its Children." An Interview with Imane Barmaki of 'Yalla Italia'


    Imane Barmaki was born in Morocco and moved to Italy when she was 13 years old. “I belong to what is called the second generation of immigrants.” She defines it in this way because on paper she is a “foreigner” (a non-EU citizen) and not Italian, but believes that this fact can also be positive: “Since I live straddling two cultures, this has taught me that there isn’t only one way to see reality.”


    Imane dreams of one day obtaining Italian citizenship, who submitted her request nearly two years ago: “Simply because it is important to have this identification. In addition, with citizenship I would not have to renew my residence permit every year. Renewing it last time had a negative effect on my identity because it underscores the fact that I am not Italian, which is not true. My colleague from Yalla, Sumaya, once wrote: ‘Whether Italy likes it or not, we are its children.’”


    Imane is on the staff of Yalla Italia (Let's Go, Italy), a new monthly insert in “Vita Non Profit” (http://beta.vita.it/) that focuses on Muslim integration in Italy. We asked her to talk about this new editorial initiative that has proved to be very successful not only in Italy but also abroad.

    Tell me about yourself. How have you structured your project?


    We are the second generation of Muslims in Italy with a great desire to express ourselves. We started writing with the specific goal of fighting stereotypes. We are a bit fed up with clichés and so we want to make a positive contribution rather than play the role of victim. We are people with multiple, layered cultural identities, and we simply present these nuances and complexities in a straightforward way. Yalla Italia is a blog on paper, a concrete space where we, the second generation of immigrants, have the opportunity to write freely about our point of views on a monthly theme that we decide. It is a new window that opens onto the unknown world of ‘new Italians’: those who have distant roots, from the Maghreb to Kashmir. It is a virtual bridge between the spheres of migration of our parents and Italian society, which crosses into integration and which cannot be translated as ‘assimilation,’ but rather ‘sharing’ some common features and ‘validating’ other aspects of our cultures of origin. In short, it’s a meeting point between tradition and modernity, between the tension of the Europe of the future and a return to our roots. I personally joined this project because I wish that immigration, from being illegal and in constant danger, was understood and acknowledged.

    How did this project come about? Who initiated the idea? From what need did this project emerge?

    Yalla’s initial editorial board was comprised mainly of university students and other young people who participated in the “Integration Program” launched in Milan’s schools. According to statistics provided by the City Council two years ago, Milan is host to 23,000 young Muslims. The aim of the magazine, therefore, is to provide an opportunity to discuss those aspects of immigration that are commonly ignored or are reluctantly covered by mainstream Italian media, thanks to the voices of those people involved in this process.

    In your opinion how is the issue of the “Middle East” or more generally, the “Arab World” presented in Italy?


    Just after the attacks in Gaza on Friday, January 9, the editors of Vita held a meeting that let a ray of hope into our hearts. Around the same table sat the Muslim young women of Yalla Italia and two members of UGEI (Union of Young Italian Jews) to discuss the implications of what was happening in Gaza. I was not personally present due to force majeure, but my colleagues told me that it was difficult not to get carried away by the emotions and sorrow, by the vindication of the rights of its own people. The young men were present because they wanted to escape the diktat of war and during the meeting they immediately took the opportunity to break the siege. The act of remaining there was a way of going beyond that logic that has no way out. Even if you had had lost a friend or relative in Gaza. Even if the day before someone had burned your flag in the town square. Then, once we came face to face, we realized that we spoke the same language and that we want the same thing in the first place. Differences remained, even profound ones. The points of view were far apart. But just seeing and talking to each other has made our differences and our distances far from “insurmountable.” The other was no longer an enemy. So much so that we had the same request: that it does not end here, that we go forward. We wanted to begin with ourselves and then move to the relationships with others to make room for peace. This does not mean giving up our points of view and our history; beginning with oneself means not censoring anything. That is why we are fighting for the rights of everyone, even those different from us, so that we can talk about ourselves out in the open, without the violence that suffocates the differences.

    What difficulties have you encountered over the course of your daily activities?


    There are problems and there always will be. The most important thing is that they become a positive force going forward while maintaining a certain quality. We are not professional journalists, and perhaps that’s why the initiative has been so successful. What we want to present is the “normalcy” of everyday life, but unfortunately “normalcy” is not news in Italy.

    What kind of response have you received so far?


    It has proved to be very positive both in Italy and abroad. We found ourselves on the cover of the most popular news site in the world, The New York Times, which published an article on the “phenomenon” of Yalla Italia by Elisabetta Povoledo entitled: “Italian Magazine Tries To Narrow Gap With Muslims.” In March, the global edition of The International Herald Tribune printed a big article on Yalla Italia. Even Al Jazeera will publish an article very soon. The thing that amazes me personally is why we’ve received so much attention from the foreign press and not from our own country.


    The Italian version of this article was published in "Incontro Mediterraneo"
    (Translated by Giulia Prestia)


  • Il Cairo. Il "pacchetto sicurezza" di Alfano visto dagli arabi



    "Il governo ci sta strozzando!" è una frase che si sente spesso tra le strade del Cairo. Doppio, triplo lavoro, sfruttamento del lavoro minorile e corruzione sono tutti espedienti a cui ricorre la maggior parte degli egiziani, che vivono in abitazioni degrdate e aggrappolate a ridosso dei quartieri più ricchi.

    Secondo le stime del governo, il tasso di disoccupazione quest'anno è del 9%. Ma c’è chi parla di 22 o addirittura 30%. Dodici milioni di persone, dinanzi ai prezzi degli affitti, hanno deciso di andare a vivere nelle tombe. Sono circa 5 milioni i giovani egiziani che vorrebbero sposarsi ma non possono. Molti si recano a lavorare in Israele altri si avventurano per il Mar Mediterraneo inseguendo i miraggi europei.

    "Qui non c'è alcuna possibilità, per i giovani partire appare l'unica soluzione, i salari sono davvero insufficienti, ammesso che ci sia un lavoro. Non hanno fiducia nel loro paese, è evidente che il governo non è in grado di affrontare questa situazione", spiega Muhammad, un giovane studente d'ingegneria. "Sposare una straniera è un'altra soluzione", suggerisce Ahmad, assistente universitario con uno stipendio mensile di ottocento lire egiziane (circa cento euro): "Così che si possa acquisire il diritto di partire".

     

    Cosa ne pensi degli (illegali) "viaggi della speranza"?

     

    La povertà in Egitto attraverso lo splendido obiettivo di Miki Alcalde

    "Quelli che li organizzano sono inqualificabili, quelli che li fanno invece sono pazzi. In questi viaggi in gommone ci sono poche possibilità di sopravvivenza. Ma soprattutto: è illegale!", dichiara uno studente di venticinque anni, ancora all’università, e mi spiega: "Dietro questi viaggi c'è un giro d'affari vergognoso che si concentra soprattutto al Cairo, dove si 'stipulano i contratti'. Ma i gommoni e le barche partono di notte dalla costa nord. Molti preferiscono partire dalla Libia, poiché la polizia, si sa, è meno attenta di quella egiziana. Molti aspettano il capodanno o le altre feste perché ci sono meno controlli".

    Arabi è un imprenditore, ha sposato un'italiana ma è rimasto al Cairo, con lei gestisce un'importante azienda di reclutamento. Arabi si sofferma sulle 'figure professionali' coinvolte in questi viaggi: "Quelli che li organizzano non sempre sono individui singoli, ma si muovono all'interno di vere e proprie organizzazioni criminali". La speranza è, oltretutto, piuttosto cara: "Dalle venti alle trentamila mila lire egiziane (tre/quattromila euro). Una parte del denaro viene versata prima del viaggio e un'altra alla fine, se si è giunti a destinazione sani e salvi". Se si considera che gli stipendi generalmente si aggirano sulle quattro/ottocento lire al mese (cinquanta/cento euro), ci si rende facilmente conto dell'assurdità di questi prezzi. Ma sono comunque più sostenibili di quelli dei viaggi 'legali': "Ci sono due vie legali per arrivare in Italia: con un visto turistico o un visto per lavoro", spiega un imprenditore egiziano che lavora con aziende italiane ed è stato in Italia almeno otto volte:

    "Per un visto turistico, e ancor più per un visto di lavoro il prezzo è molto alto, per questo si preferisce l'avventura nel Mediterraneo". Arrivare vivi non è semplice: "Un mio amico, che adesso lavora in una pizzeria a Milano, è arrivato in Italia con questi gommoni. Sono partiti da Alessandria, i gommoni erano tre e su ognuno c'erano trecento persone. Due dei gommoni sono ovviamente affondati e seicento persone sono morte, l'altro è arrivato sulle coste italiane, ma con solo trentasei persone. Le altre si sono dovute buttare in mare perché altrimenti il gommone affondava". Con quale criterio si decide chi deve morire e chi invece proseguirà il viaggio?: "Con un sorteggio". Tuttavia, al momento di salire, molti non pensano a chi è morto, ma a chi, alla fine, ce l'ha fatta: "Mio zio ha vissuto un anno a Milano, è tornato e si è aperto due negozi!", o ancora: "C'è un paese a sud di Cairo. È un complesso di villette. Ci vivono egiziani che si mantengono con le rimesse dei famigliari espatriati".

    Il governo egiziano sta facendo sforzi enormi per arginare questo fenomeno, sia per non danneggiare le sue buone relazioni con l'Italia, sia per l'indecenza di queste morti, delle quali si sente comunque responsabile.

     

    E il nuovo pacchetto sicurezza proposto dal governo italiano?

     

    Il nuovo pacchetto sicurezza prevede un'ammenda da 5 a 10 mila euro, inoltre verrà istituito un processo davanti a un giudice di pace che lo espellerà per direttissima. I CPT (Centri di Permanenza Temporanea) diventeranno CIE (Centri di Identificazione e Espulsione): "Un paese deve occuparsi in primis dei suoi cittadini, deve proteggerli. Se a un immigrato non lo minacci con le cattive non cede. Queste persone scappano dalla fame, misure troppo soft non le spaventano, ne le convincono a non partire. L'Egitto ha innumerevoli possibilità, perché non trovano il modo di farle fruttare?", si chiede un imprenditore.


    Un ragazzo che studia l'italiano, con la speranza di frequentare l'università di Perugia, commenta: "Lo condivido, è duro, ma deve esserlo! La crisi economica generale ha accresciuto il desiderio di scappare e, di conseguenza, questi flussi migratori. Se l'Italia dovesse aprire le porte, allora l'Egitto intero si riverserebbe nel 'bel paese', e qui rimarrebbero solo la Sfinge, le piramidi, i turisti e gli orientalisti", e spiega: "E poi, l'Italia non è in grado di sostenere la sua popolazione, non riesce a reggere anche gli immigrati, stessa cosa dicasi per gli altri paesi europei. Inoltre”, aggiunge: “queste leggi dure dissuaderanno gli ossessionati dall'intraprendere quei viaggi pericolosi e manderanno a picco gli interessi di quelli che li organizzano".

    Una voce isolata. È uno studente della facoltà di legge che mai vedrà l’Europa o l’America: "Un italiano può restare in Egitto tanti anni e ha un'enorme libertà di movimento. Io, solo perchè sono egiziano e sono povero, ho difficoltà di visto e non posso andare in molti paesi. L'Egitto per noi è una prigione... Io voglio andare negli States o in Europa, sono curioso. Ma solo i ricchi possono permetterselo. Questo è ingiusto. E poi, cos’è questa storia delle ‘ronde’? I cittadini non hanno i requisiti né la preparazione per agire in questo ambito. La caccia all'uomo non si può accettare".

     

    Michaela De Marco vive al Cairo ed è una giornalista di Incontro Mediterraneo Magazine (www.incontromediterraneomagazine.ilcannocchiale.it)