Nemo Propheta in Patria. Marco Albonetti, storia di un sassofonista emigrante

Marina Melchionda (May 19, 2009)
Abbiamo incontrato Marco Albonetti in uno dei teatri più prestigiosi del mondo, il Carnegie Hall, dove ha presentato "Astor Place", il suo ultimo lavoro, un tributo a Astor Piazzolla. Ci ha parlato della sua storia, quella di un sassofonista di talento costretto ad espatriare per vivere della sua passione. La sua esperienza è comune a tanti suoi colleghi che in Italia "non trovano spazio". Ve la raccontiamo per questo: per dare, almeno noi, un giusto tributo al loro lavoro, impegno e talento


Nemo propheta in patria. In un antico proverbio, la storia di Marco Albonetti. La storia di un musicista di talento che deve lasciare l'Italia per avere la possibilità di coltivare la sua passione e farsi conoscere dal grande pubblico. La raccontiamo non perchè è un caso unico, raro, al contrario. Il suo percorso lo avvicina a molti suoi colleghi, cantanti, artisti, musicisti, cui successo all'estero non è preceduto nè trova seguito in quello italiano, perchè come dicono spesso "in Italia non c'è spazio". Spazio per cosa? Perchè i nostri talenti sono costretti ad "esportarsi", a fuggire? Cerchiamo di capirlo attraverso Marco, attraverso la sua storia di uomo e di artista.

Ce l'ha raccontata lui stesso, quando lo abbiamo incontrato lo scorso marzo a New York. Era in città, in quel periodo, per presentare il suo ultimo lavoro, "Astor Place", un sax e un pianoforte per far rivivere le "Four Seasons in Buenos Airos" di Astor Piazzolla.

Eravamo anche noi al Carnegie Hall quella sera. Non lo conoscevamo fino a quel momento, ma ci chiedevamo "cosa avesse" questo musicista per "meritare" una cornice come quella, un teatro famoso a Manhattan e senza dubbio il sogno di molti suoi colleghi. Insieme a noi, un pubblico folto, misto, giovani, intellettuali, businessmen ed anziani signori e signore che di quel teatro hanno fatto un punto di incontro. Seduta accanto a noi, una giovane donna orientale in pelliccia, elegante, affascinante nel suo sguardo assorto sul palco. Nelle file davanti un allegro settantenne pronto ad alzarsi ed applaudire ogni qualvolta la musica si interrompeva, lasciando al nostro sassofonista e alla pianista Vicky Schaetzinger un attimo di respiro tra un pezzo e l'altro. 

Una performance durata quasi due ore per un pubblico, al termine della quale Marxo ha ricevuto dal pubblico in sala una standing ovation accalorata, di diversi minuti. Riaccese le luci in teatro, molti aspettavano impaziente che uscisse dalle quinte per incontrarlo e complimentarsi con lui a tu per tu. Noi eravamo tra questi, e lo abbiamo avvicinato. Vestito di scuro, aspetto distinto, ci accoglie sorridendo quando ci presentiamo e gli chiediamo un'intervista: vogliamo che ci racconti della sua storia, della sua musica, della sua passione per Piazzolla.

"Tutte le volte che suono negli Stati Uniti trovo sempre un pubblico molto caloroso, veramente incredibile. Per me il Carnegie Hall è quasi un luogo sacro, e sentire quei lunghi applausi già dalla prima composizione mi ha dato tanta energia, pura emozione". Inizia così la nostra chiacchierata al telefono, con l'entusiasmo che lo lega ancora a quella sera appena trascorsa. Ma non appena gli chiediamo del suo Paese, dell'Italia, la sua voce diventa più pacata, è quella di un artista deluso, stanco di una realtà che non l'ha cercato e in cui non si ritrova.

Stanco di dover fuggire, di emigrare, per lavorare e "mangiare":  "ho la mia attività da solista quasi tutta all’estero, parlo del 95%". Quando gliene chiediamo il motivo, lui quasi tentenna all'inizio. Forse parlare in certi termini del suo Paese gli risulta ancora difficile, ma poi si fa coraggio e comincia a raccontare, quasi uno sfogo: "Mah, non lo so. So solo che da quando sono venuto negli Stati Uniti ho visto la mia vita migliorare di anno in anno. Esiste un sistema meritocratico qui. Io facevo le audizioni, le vincevo e andavo avanti. Non ho mai trovato situazioni dove in cui ci fosse qualcuno davanti a me che non fosse bravo. Negli Stati Uniti l’italiano è comunque ben visto come artista, ed è una cosa che noi italiani ci portiamo dietro più o meno in tutto il mondo. E ci giochiamo anche un pò. Questo grazie soprattutto a chi ha fatto la storia italiana, i nostri grandi musicisti del passato che hanno trovato nel nostro stesso Paese un'occasione di fama internazionale. Attualmente, invece, soprattutto negli ultimi anni, tutti gli artisti, i ricercatori, insomma tutta la gente in gamba italiana, non vivono in Italia."

Anche il concerto al Carnegie, come ci racconta Marco, è stato frutto di uno sforzo personale che ha trovato solo nel centro studi di Stony Brook il supporto necessario: " Il mio spettacolo è stato organizzato, presentato e sponsorizzato dal Centro Studi della State University of New York at Stony Brook, da Gino e Carolyn Balducci, con la mia visione dall’Italia. Viaggio e albergo sono stati pagati dalla Stony Brook. ( avevamo chiesto aiuto all Istituto di Cultura per questo ma a causa di tagli del buget superiori al 20%, come mi hanno spiegato, non sono riusciti a fare molto). Ringrazio Gino e Caroline per il loro straordinario lavoro di networking".

Quando comincia a raccontarci del suo lavoro, degli incarichi che ha in Italia e quelli, prestigiosi, che ricopre all'estero, il ritmo della conversazione diventa più incalzante, il suo è un discorso di chi vuole far scoprire l'Italia della musica a chi non la vive: "Pensa che ad oggi faccio attività in Cina a Taiwan, ed in alcune città del Sud America e in Russia. Ho lavorato anche al conservatorio di Berlino e di San Pietroburgo, attualmente sono commissario esterno nei programmi di dottorato presso la Sibelius Academy di Helsinki, che è la più moderna d’Europa. Faccio tutta questa serie di cose in giro per il mondo, mentre in Italia sono legato ad un conservatorio del sud d'Italia dove mi fanno insegnare in delle aule senza riscaldamento, con la muffa nei muri, trattato a pesci in faccia. In un ambiente milmcome quello italiano purtroppo c’è questa mentalità non dico di razzismo, ma del tipo ‘Sei giovane, stai zitto’, che ti costringe ad ingoiare il rospo e andare avanti".

Ma perchè non provi almeno a cambiare conservatorio in Italia per trovarne uno in cui potrai stare meglio? gli chiediamo. "Il problema è che il sistema di trasferimento non è meritocratico. Ho provato a fare domanda, ma è praticamente impossibile, perchè tu puoi trasferirti o per anzianità di servizio, oppure ti trasferiscono se per dire hai famiglia o figli, è tutto un gioco di punteggi che non ha niente a che fare con la tua attività artistica. Un altro motivo è che tra i sassofonisti italiani sono l’unico che ha il master e il dottorato negli Stati Uniti, che in Italia non è riconosciuto. Ma se persino un’università come la Sibelius Academy, che ha un programma tra i più moderni d’Europa, mi invita a essere commissario riconoscendomi i miri titoli, perchè Italia questo nob succede? (...) Purtroppo ritrovo anche in molti miei colleghi la mia storia. Conosco molti italiani arrivati negli Stati Uniti partendo dal nulla, con un sogno e una gran voglia di fare, ed alcuni di questi, i più bravi, riescono veramente ad ottenere grandi cose. Però poi non possono portare la loro esperienza in Italia, perchè ti tagliano le gambe".


Tutto questo, racconta Marco, per un solo motivo, una sola passione: il sax. Una passione che diventa talento, studio, e lo porta fin qui e ancora avanti.

Il suo amore per questo strumento nasce in giovanissima età, quando era bambino e andava a scuola dalle suore:  "Il collegio che frequentavo si chiamava Santa Umiltà di Faenza. La mia maestra suonava il pianoforte e organizzava sempre una piccolo orchestrina all’interno della classe. Un giorno venne a trovarci un maestro, che per fare una donazione lasciò alla scuola un sassofono e una tromba. Fu chiesto a tutti noi se ci sarebbe piaciuto suonare uno di quegli strumenti, e io ho alzato subito la mano per il sassofono. È stata una cosa assolutamente istintiva, perchè ero attratto dalla forma dello strumento, questa forma a pipa. Poi naturalmente è iniziato a piacermi tantissimo anche il suono, forse perchè è lo strumento che si avvicina di più alla voce umana, uno strumento molto versatile, si adatta al classico al jazz, al tango, alla musica pop."



Ancora bambino, a 9 anni Marco suona per Papa Wojtyla, un'esibizione che lo segna particolarmente e gli dà la spinta per andare avanti, e a iscriversi dapprima ad una scuola di musica di Faenza e poi a fare un’audizione per entrare nel conservatorio di Pesaro. " Da lì ho preso il diploma, poi, avendo avuto sempre questo sogno di venire negli Stati Uniti, a 23 anni sono partito mantenendo la cattedra anche in Italia. Il mio amore per l'America lo coltivavo da anni, da quando facevo lezione con il mio maestro nella piccola scuola di musica che frequentavo da bambino.  Mi fece imparare una melodia, poi mi portò in una classe dove c’era lezione di clarinetto e mi fece suonare…fu lì che il maestro mi disse 'ricorda che se vuoi diventare bravo, devi andare a studiare in America'. Una cosa che mi ha colpito tanto, e con queste parole in mente son partito, senza sapere l’inglese, e ho conseguito il Master of Music Degree alla  Bowling Green State University in Ohio. Da lì poi ho imparato l’inglese, ho fatto le audizioni per entrare nel programma di Master e sempre con le stesse audizioni sono diventato assistente. Due  anni dopo la fine del Master, volendo rimanere negli Stati Uniti, visto che l’unica soluzione era rimanere continuando come studente, mi sono iscritto sempre facendo le audizioni al programma di dottorato, che ho conseguito alla Michigan State University".

Con i suoi numerosi titoli, Marco è tornato infine in Italia, dove ha sperato ma non ottenuto il meritato riconoscimento. Nel corso degli anni è riuscito però a conquistare due traguardi, di cui parla con orgoglio. Il primo è la sua collaborazione con Milva, considerata la più grande interprete di Astor Piazzolla a livello internazionale. Con lei quest'anno è in tour per il Paese con ‘Variante di Lunenburg’, una produzione del Teatro di Gorizia.

Il secondo è un impegno che porta avanti da ormai dieci anni, che lo vede direttore artistico del Festival Internazionale del Sassofono di Faenza, la città dove vive: " Si tiene ogni anno a luglio. E' un lavoro a 360 gradi, e vi partecipano maestri specializzati in musica di ogni genere, dal contemporanea, al jazz, all'etnico. Ne ho già diretto 10 edizioni, questa è l’undicesima. Le affianco di solito  ad una sorta di seminario, che dura una settimana, dove giovani studenti (prevalentemente stranieri) fanno lezione per 7/8 ore al giorno. Diversi tra quelli che hanno partecipato ai nostri programmi negli scorsi anni si sono fatti onore poi vincendo concorsi in tutto il mondo. Adesso addirittura ricoprono ruoli di docenza, in università e conservatori esteri: sono molto fiero di loro.   Quest’anno , visto tutti i tagli in finanziamenti pubblici che abbiamo avuto, ho deciso di dedicare a loro l'intero evento richiamandoli a suonare in Italia. Saranno bellissime serate di concerto". 

 

Marco è dunque un maestro, un esempio per molti dei suoi colleghi più giovani, ma anche un'artista che cresce. Il suo nuovo album, "Astor Place", è un omaggio al musicista argentino che gli ha ispirato la tesi di dottorato. Sulle note della sua musica è arrivato a Buenos Airos, dove infine ha conosciuto la pianista Vicky Schaetzinger, sua partner in questo progetto: "L'ho conosciuta nel periodo in cui ero a Buenos Aires per fare le mie ricerche sul tango. Andai ad un concerto di Milva, Vicky suonava con lei e mi piacque molto. A distanza di sei mesi venni contattato da Cristina Muti, la moglie del maestro, per programmare una serata al Ravenna Festival, che lei dirige, ed è anche molto vicino al posto in cui vivo. L’idea era quella di fare un programma dedicato alle musiche delle americhe, quindi con compositori del nord America e del sud America.  Decisi di suonare anche ‘Le Quattro Stagioni’ di Piazzolla, che avevo orchestrato per sax soprano, pianoforte e orchestra d’archi; a quel punto mi serviva un pianista che potesse dare la giusta spinta musicale, lo sprint, tutte le varie percussioni che servono, e percio decisi di chiamare Vicky".

Quest'anno finalmente il Carnegie Hall, dove Marco e Vicky hanno presentato per la prima volta il loro album. Sono partiti da New York non  a caso, perchè è questa la città a cui hanno dedicato il loro "Astor Place":  "Diciamo che questo titolo viene fuori un po’ da un gioco di parole. L’idea è ‘Spazio Astor’ che tradotto in inglese è Astor Place. La cosa buffa è che Astor place, come si può notare anche dalla copertina del cd, rappresenta un segnale stradale di una via, di una fermata della metropolitana di New York, che si trova nella Lower East Manhattan. Dalle singole ricerche fatte su Piazzolla, è venuto fuori che lui ha vissuto a Buenos Aires per i primi anni della sua vita, ma che poi in realtà ha vissuto anche a New York, Roma e Parigi. Era a New York quando era bambino, viveva tra la nona e l’ottava strada, casualmente vicino Astor Place, una piazza presumibilmente dedicata ad un architetto che portava il suo stesso nome. Abbiamo voluto vivere questo gioco di parole, riportare questi intrecci del destino nel nostro ultimo lavoro, il nostro tributo a un musicista che ci ha già portato tanta fortuna".

Auguriamo sicuramente a Marco la stessa e maggiore fortuna che l'ha portato ad arrivare fin qui, a suonare sui palchi più importanti d'America, del Giappone, di Europa, del mondo. Assistendo ad una sua esibizione, abbiamo avuto modo di appassionarci al suo talento, la sua freschezza, la sua originalità. Ad oggi, crediamo gli resti solo un sogno, un obiettivo per il momento mancato: avere il giusto riconoscimento dalla sua Italia, dal Paese da cui si è visto costretto ad andare via più volte, ma da cui è sempre ritornato. In bocca al lupo, Marco. Continueremo a seguirti.



 

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