Conversando con Carlo Lucarelli

Ci siamo seduti a parlare di romanzi gialli, "rompiscatole", televisione e politica italiana con il noto scrittore di noir e conduttore TV. Questa la nostra conversazione, quasi integrale...

Carlo Lucarelli è uno scrittore di gialli, un giornalista, ed un conduttore TV conosciuto al grande pubblico per il programma RAI "Blu notte/Blu Notte- Misteri Italiani.”
Lo abbiamo intervistato durante la kermesse letteraria “Libri Come”, organizzata dalla Fondazione Musica per Roma all'Istituto Italiano di Cultura di New York.

Lucarelli racconta il passato ed il presente del nostro paese. Dietro ogni suo libro, ogni sua puntata, c'è, per sua stessa ammissione, la frase che potrebbe dire un bambino che torna a casa da scuola “non potete immaginare cosa ha fatto la maestra oggi...”. E' una formula semplice ma profondamente suggestiva.

Per un americano che non ti conosce: chi sei?

Sono uno scrittore italiano soprattutto di storie del mistero che cerca di raccontare le contraddizioni dell’Italia di oggi e di ieri; lo faccio soprattutto con i romanzi ma anche in televisione e attraverso il cinema.
 

Sei molto di più. Per esempio hai anche scritto fumetti...

Quando scrivi succede che incontri stimoli, sfide, cose che ti interessano; mi è capitato di fare fumetti, di scriverne sceneggiature e sono anche diventato un personaggio in una striscia. C’è un fumetto in Italia che si chiama Cornelio dove il protagonista ha la mia faccia e la mia fisicità. Ho fatto anche radio e lì mi è capitato di raccontare storie che hanno a che fare con il crimine e con la musica.

Durante il tuo intervento a “Libri Come” hai definito la tua attività come quella di un rompiscatole. Quanto è difficile fare il rompiscatole in un paese come l’Italia?

E'difficile da un certo punto in poi. Quasi tutti si atteggiano a rompiscatole, è raro trovare uno scrittore che dica "io scrivo per confermare quello che c’è", sono tutti contro qualcosa.

Diventa più impegnativo da un certo punto in poi, quando veramente riesci a passare quel piccolo segno. E lo si oltrepassa raccontando cose nuove che non si sanno. Questo però è difficile in Italia perché in realtà si sa quasi tutto. Le indagini, la magistratura, la polizia, gli storici, i giornalisti sono arrivati a raccontare un sacco di cose.

E'un luogo comune dire “non sappiamo niente”. Sappiamo tante cose. Se però ne scopri una nuova allora è pericoloso. La differenza si vede quando riesci a creare delle emozioni. E' facile fare un elenco di fatti ma se riesci a dire delle cose in modo tale che chi ti ascolta non se lo dimentica più, ecco che allora sei un rompiscatole.

C'è poi un altro modo. Quando hai un legame così vicino, così stretto con un territorio, con l’argomento di cui parli da diventare simbolo del tuo “rompiscatolismo”. Saviano è un buon esempio. E' uno scrittore del sud, un napoletano che a Casal di Principe, in mezzo ai camorristi, ha scritto un libro importante, ed è riuscito ad avere un grande seguito. Così si diventa uno di quelli che riesce ad essere ascoltato. Io spero di essere tra coloro che raccontano le cose creando emozioni e facendo si che chi mi ascolta non se le dimentichi più.


E ci sono modi per delegittimare il lavoro di quelli come te …

Assolutamente sì. Innanzitutto la prima delegittimazione è quella della politica. Tutte le volte che parlo di storia italiana, di storia della mafia, tutte le volte che devo nominarla per forza, perché quella è la storia (per esempio quando parlo di Andreotti) devo premettere che non sto facendo politica.

Non dovrei averne bisogno, se parlo di Garibaldi non sto facendo politica, sto raccontando dei fatti storici. "Andreotti viene inquisito, processato"; dovresti poter dire questo. Però io devo premettere "scusate, adesso nominerò un uomo", però non è che lo dico perché io sono comunista e ce l'ho con la Democrazia Cristiana, o perché sono di sinistra e non di destra. 

Lo dico perché la stessa cosa vale se devo nominare Berlusconi. Non perché me la prenda con Berlusconi ma perché oggettivamente è successo questo o quello. Io cerco di evitare qualunque cosa possa ricondurre ad un'area politica, qualunque cosa possa mettere lo spettatore in guardia. Ovviamente è difficile perché parli di argomenti che alla fine sono politici.

Questa è la prima delegittimazione. Un’altra è quella dei soldi, parli di un certo argomento però pubblichi per la Mondadori, per Einaudi, che sono riconducibili alla proprietà di Berlusconi, allora sei un venduto.

Poi ci sono le delegittimazioni più forti, quelle dell’Italia dei dossier. Magari salta fuori che tu hai combinato chissà che cosa, che magari in verità non hai mai fatto; l’importante è che arrivi sul giornale, dura un attimo, in un titolo che non ti scrollerai mai di dosso.

 


Ieri durante il tuo intervenuto all'Istituto hai detto che per recuperare l’anima luminosa di un Paese bisogna conoscerne anche il passato oscuro. E' possibile in un Paese come il nostro?
È' possibile fino ad un certo punto. Se io scrivo un libro, come uno che ho appena pubblicato (L’Ottava Vibrazione), ambientato in Eritrea ai tempi del colonialismo, ecco che ci si domanda subito, sta parlando bene o sta parlando male? Sto parlando e basta.

E' chiaro che un'avventura coloniale come quella ha i suoi lati negativi ma secondo me fare i conti con il passato vuol dire sempre fare del bene ad un paese. Significa alleggerirsi e potersi dedicare finalmente solo alle cose belle. Una delle accuse che ci muovono è, per esempio, quella di parlare di mafia. Ma se parli di mafia, fai del bene o del male all’Italia? Io so che ovunque vado, siccome la mafia è un mito potente e conosciuto in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, ci sarà sempre qualcuno che mi domanderà se me ne occupo.

La mafia esiste ed esiste anche un entusiasmo nei confronti della mafia. Questo però mi permette di parlare dell'antimafia, di Falcone, di Borsellino, di Saviano. Altrimenti di questa gente chi ne parlerebbe mai? Oggi sono andato a Little Italy, mi sono seduto in un bar, subito abbiamo iniziato a parlare con dei tizi molto simpatici di mafia e mi hanno anche regalato un libro sulla mafia. Fa parte integrante della nostra cultura, non te la puoi dimenticare, allora usiamola. Se tu sfrutti, che è tipico del narratore, l’interesse per un argomento, puoi arrivare dove ti pare; puoi utilizzarlo per raccontare anche il resto. Questo vuol dire pulire la metà oscura per arrivare alla metà chiara.

Ma con una televisione come quella italiana che tende a santificare tutto il santificabile, soprattutto nelle fiction, come si fa?

La TV dovrebbe avere coraggio invece taglia tutto con l’accetta e difficilmente può affrontare argomenti contraddittori. Per esempio, una fiction su Fioravanti e Mambro (due terroristi di estrema destra accusati di una serie di omicidi infinita tra cui anche la strage della stazione di Bologna), che stata proposto un po' di tempo fa, non la puoi fare perché in televisione puoi fare solo storie di santi e allora dovresti santificare anche questi due.

Il cinema forse è capace di raccontare la contraddizione, la TV in Italia in questo momento non ci riesce. E poi, come ho detto, hanno sempre tutti paura di andare a parlare di cose che alla fine non sai se politicamente vanno bene o non vanno bene.

Ci sono delle fiction, per esempio Il Commissario De Luca, una produzione tratta dai miei libri, che sono state in fermo a lungo perché il personaggio era un ex fascista. Per un certo periodo va bene e si può fare, per un altro periodo no. Insomma devi sempre aspettare il momento giusto.


Parlando di TV, Il Fatto Quotidiano riportava che c'è un episodio di Blu Notte – Misteri d'Italia sulle stragi del 92’ e '93, sulla trattativa tra la mafia e lo stato, che potrebbe non andare in onda. Sei caduto anche tu sotto l’accetta  della RAI?

Andremo in onda, per adesso sembra di sì almeno. Secondo me succede che ogni tanto c’è qualcuno che ha l'idea di colpire alcuni programmi, quei programmi non sono i miei per fortuna, per quel motivo che vi dicevo prima dei rompiscatole. 

Ci sono i rompiscatole che riconosci subito, come Santoro e la Gabanelli; quelli fanno inchieste, scoprono le cose nuove, le urlano forte ed è inevitabile che saltino agli occhi di tutti.

Noi invece parliamo piano, non perché siamo meglio o peggio, perché usiamo un’altra strategia, un altro stile. Quando abbiamo fatto la puntata del G8 di Genova, per esempio, la mia intenzione era di farla ascoltare alle mamme di quelli che erano stati lì. Non m'interessava parlare a quelli che già sapevano cos’era successo. I poliziotti, i ragazzi, loro c’erano. Io volevo parlare alle mamme.

E questo non lo puoi fare se urli, devi farlo piano; parli in maniera molto pacata, poi vedono il sangue e la gente si rende conto. Credo che ci siamo riusciti senza che nessuno si accorga troppo di noi.

Le mannaie non sono mai per noi direttamente sono sempre per qualcun’altro. Capita però che  essendo menate alla cieca -come l’ultima circolare che diceva “per mandare un programma in onda dobbiamo averne un riassunto dettagliato” - ecco che pigliano anche noi, e noi siamo stati i primi ad incappare in questa situazione. Ci hanno chiesto il riassunto di quello che facciamo. Mentre per altri programmi è impossibile, come per quelli di Santoro, perché sono talk show, perché non lo sai, perché seguono l’attualità, per noi è possibilissimo. Io ho già fatte le mie puntate quindi abbiamo raccontato quello che abbiamo messo insieme e nessuno ha detto niente. Dunque faremo questa puntata. Ciancimino e Spatuzza. Parleremo di mafia, politica e di servizi segreti. Dovremmo andare in onda a Dicembre.
 


In questi ultimi dieci anni, hai raccontato di vicende che hanno influito sul costume del paese, dal delitto Montesi, al mostro di Firenze, passando poi per la P2, le Brigate Rosse, le stragi di Ustica, di Bologna...in un paese come il nostro, dove c’è una pericolosa tendenza all’amnesia, ti senti ultimo baluardo della nostra memoria storica?
Ultimo baluardo no, ma uno che cerca di fare queste cose, e che ci riesce pure, sì. Quando abbiamo cominciato raccontavamo i casi di cronaca, i delitti privati. Abbiamo smesso proprio prima del delitto di Cogne, secondo me mentre in Italia esplodeva questa moda. Siamo passati ai casi più complicati con l’idea che faremo un anno e poi ci chiuderanno tanto non ci guarderà nessuno, nessuno sa di cosa parliamo.

Lo facciamo così per dovere civile perché dopo aver raccontato tanti delitti raccontare Piazza Fontana è necessario, è un delitto anche quello. Devo dire che siamo riusciti a farlo abbastanza bene; la gente ha cominciato a seguirci da subito. La prima email è stata di un tizio che da come scriveva capivi che era giovane “bel fetentone questo Sindona dove posso trovare qualcosa su di lui?”. Da allora mi capita che un bel po' di gente mi ferma dicendomi “ho visto quella puntata, è interessante, ho approfondito, ho letto”. Allora non dico che siamo l’ultimo baluardo, però siamo costruttori di memoria.

Quanto, come e quando la televisione ha cominciato ad influenzare il tuo modo di scrivere? Se l’ha fatto…

Qualcosa ha fatto, non più di tanto però. In TV lavoro esattamente come quando scrivo i libri; butto giù il mio testo, lo imparo a memoria, e lo scrivo come scriverei un racconto per la pagina. Non so farlo in altro modo. Il mezzo televisivo influenza un po' il linguaggio perché lo semplifica. So che, per esempio, non posso usare certe figure retoriche perché troppo lunghe.  Nei libri invece non credo di essere influenzato dalla TV.

Parliamo dei tuoi rapporti con i personaggi d’attualità. Vogliamo ricordare il caso “Sarah” che sta imperversando in questi giorni. Cosa pensi di questa storia che ormai ha assunto degli aspetti inquietanti dal punto di vista della comunicazione...
Abbiamo assistito ad un'escalation continua. Abbiamo cominciato quindici anni fa con una specie di snaturamento nel raccontare la cronaca nera che non parte tanto dal fatto, ma da quello che puoi raccontare subito. Quando c’è un omicidio accade che ai giallisti come me arrivi una telefonata del giornalista di turno che chiede una dichiarazione. La cosa buffa è che vuole commenti sull’omicidio che è avvenuto due ore prima, di cui tu non sai niente, lo sa lui perché ha letto l’Ansa.  Quando tu gli dici "non ne so niente", lui ti dice "te lo racconto io". E spesso la domanda che ti viene fatta è “secondo te chi è stato?” Ma non è una domanda che puoi fare. Non è quella la notizia! 

Non è possibile che il giorno dopo l’omicidio di Sarah, una giornalista vada sul divano assieme alla figlia dello zio e le chieda “come ti senti?” Che notizia è questa? Cosa te ne frega? Non solo, ma non ti dice neanche come si sente perché piange dall’inizio alla fine.

Questo da parte dei giornalisti è aberrante. Poi a qualcuno può anche succedere un incidente, come a Federica Sciarelli, che si ritrova nel programma Chi l’ha visto con la notizia in diretta. Lei forse ha lasciato correre un pò troppo, ma altri al suo posto avrebbero continuato anche oltre. 

Ma in questi vent’anni anche i telespettatori e i lettori si sono involuti; una volta avevi la povera gente assediata dai giornalisti vampiri adesso ci sono questi che hanno una disinvoltura mai vista. Durante il caso di Cogne, per esempio, per un certo periodo sembrava che la Franzoni non avesse una famiglia che la tutelava, ma un ufficio stampa.
Nel caso di Sarah, la madre della cugina fa un’intervista in cui dice “adesso arriveranno ad arrestare anche me.” Queste sembrano professioniste della comunicazione. Mi aspetto un tale atteggaimento dal politico o dal mafioso inquisito. Non da una signora che vive in un piccolo paese in Puglia.


Esaminiamo in breve le responsabilità…

In primis è colpa del giornalismo perché se non crei questi mostri, i mostri non esistono in natura. Nei programmi che parlano di un caso di cronaca, per esempio di una ragazza che è stata ammazzata, i discorsi dovrebbero essere soprattutto sulle ore di decomposizione, le impronte digitali, il DNA. Invece vedi questi show con della gente che dialoga con gli stessi toni di trasmissioni più leggere come Amici oppure Uomini & Donne; litigano nella stessa maniera. Persone che dicono “io l'ho guardata la cugina, secondo me è un’egocentrica perché quando va in TV si pettina”.  Sono cose che si direbbero di un’attrice. La posizione più seria è non partecipare a questi programmi; se ci vai sei massacrato da questo tipo di domande.


Torniamo alla scrittura e al tuo lavoro di scrittore di gialli. Che situazione c’è in Italia?

Anche lì alti e bassi ovviamente. Il giallo si è affermato con tutte le sue sfumature ed è diventato di moda; naturalmente di moda significa che c’è un sacco di gente che non avrebbe voglia di scrivere gialli o non se li sentirebbe dentro ma lo fa perché vendono.

Quindi ci sono un sacco di cose che non servono a niente. Se sono scritte bene fanno il loro dovere, se sono scritte male sono zavorre. Contemporaneamente ci sono parecchi giovani scrittori che stanno iniziando a scrivere degli anni Settanta/Ottanta, che per loro è storia perché hanno venticinque o trent’anni.  Vanno a prendere come sfondo per un romanzo giallo Piazza Fontana oppure Bologna e lo riescono a fare perché sono più distaccati. Poi si sta creando una scuola del giallo meridionale. Una volta avevi pochi napoletani, e quasi nessun siciliano. Ora invece ci sono tanti giovani scrittori che si mettono a raccontare storie criminali ambientate in quelle realtà geografiche. C'è un continuo cross-over di generi, per cui molti di questi sono indefinibili come scrittori di giallo, però ti scrivono una storia che ti parla di metà oscura ambientata lì.
 

Che impatto ha avuto il fenomeno
Saviano sui giovani? Ce ne sono altri come lui?

Sul pubblico ha sicuramente avuto un impatto positivo, e questa è la cosa importante secondo me. C’è gente che gli urla “sei un eroe”, magari questo indispettisce altri: però non importa, siamo in guerra e secondo me la guerra ha bisogno di eroi. Lui è l’eroe. Poi ce ne sono tanti ai quali per fortuna non succede quello che è successo a lui perché non hanno quella fisicità lì, e non stanno in quel posto. E anche perché credo che qualcuno abbia capito che è meglio non creare altri Saviano. Comunque di scrittori, di giovani reporter, di giovani rompiscatole è pieno. Il problema è che non hanno lo sbocco di Saviano, qualcuno viene lanciato come l’anti Saviano, ed è una sciocchezza ovviamente, però molti di questi non riescono ad emergere perché non vengono pubblicati.
 

 Il Fatto Quotidiano ha pubblicato in prima pagina le foto con i nomi di dodici giornalisti...

Anche quello è un aspetto che non è conosciuto, cioè l’aspetto dei minacciati.

Saviano ha la sua scorta, come fanno gli altri?

Io ne conosco qualcuno e ne conosco anche altri che sono sulle terre liberate dalla mafia. Chi sta sul luogo fa una vita molto diversa dalla nostra. Questi sono giornalisti che vengono minacciati con gatti morti lasciati davanti casa, con proiettili, a cui bruciano la macchina, che vengono picchiati. Siamo cioè ad un passo dalla sparizione, come Siani per esempio. 

Parliamo di robe che se succedessero a me avrei già la scorta. La cosa che colpisce è che sono in questa situazione non perché hanno denunciato i casalesi, ma molto probabilmente perché hanno scritto di un assessore che sembra abbia concesso una licenza per fare una cosa in maniera un po' sporca. Perché in Italia sei più in pericolo se scopri una cosa piccola piuttosto che una cosa grande. Per una cosa grande partono le delegittimazioni di cui parlavamo prima, se tu invece scrivi la cosina piccola e rompi le scatole allora quello è un altro discorso, lì rischi davvero.

Santoro ha fatto vedere in televisione ad Annozero questi eroi dei giorni nostri, Il Fatto Quotidiano lo fa. Queste sarebbero cose da raccontare tutti i giorni perché parli di una situazione che è assurda e gravissima.


Ci lasci una nota ottimista..

Primo, credo che quando nessuno dirà più "sono stato minacciato", allora dovremo iniziare a preoccuparci. Vorrà dire che non c'è più nessuno che sta scrivendo e scoprendo cose nuove. Questa è una battaglia. Finché ci sono i soldati che combattono, e se combattono bene, la battaglia si può anche vincere.

Secondo me noi abbiamo il dovere di essere ottimisti altrimenti sei morto, non hai alternative. E poi non è che noi in Italia siamo speciali. Parliamo di criminalità organizzata, ma ci sono un sacco di paesi così che sopravvivono come noi; quindi non siamo l'ultimo gradino.

Vi confesso, io comunque sono ottimista. Proprio perché l’Italia è l’Italia e certe cose non possono durare. Nel nostro Paese da  prima che nascesse la Repubblica - quando doveva nascere il Regno d’Italia - c’è un po' di gente che vorrebbe che le cose andassero in un modo. Poi però in Italia si vota e la democrazia prende un’altra piega. E qualcuno si muove per riportare l’Italia dove vorrebbe.

E' in questa dinamica elastica che si aprono delle crepe, per cui è impossibile che tutto rimanga uguale, anche perché il resto del mondo cambia. Allora se tu sei il vecchio proprietario che ha una certa idea del mondo, visto che il mondo sta cambiando, il giovane proprietario arriverà al posto tuo e ti farà fuori.  In questo farti fuori si creano dei solchi.

E' impossibile che in Italia tutte le televisioni restino di proprietà di una persona sola perché c’è un sacco di gente, magari altrettanto potente, e da un certo punto di vista politico altrettanto negativa, che però non lo può più permettere; così si spaccherà questo sistema.

La nota positiva è che se siamo pronti ci infiliamo nelle crepe e per un altro po' si riesce ad evitare che ritorni questo sistema.

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