Articles by: Mario Setta

  • Opinioni

    Anche l’utopia muore e rinasce

    L’utopia è come l’araba fenice. Un uccello che viveva cinquecento anni, moriva e rinasceva dalle sue stesse ceneri. Anche l’utopia muore e rinasce. Senza di essa, gli uomini resterebbero fermi. Come nella descrizione che ne fa Eduardo Galeano: “Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi; lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. Quindi, a che serve l’utopia? Serve a questo: a camminare”.

    D’altronde, l’ideatore della parola “Utopia”, Thomas More, applica il neologismo ad un’isola immaginaria: “Mi vergogno quasi di ignorare in qual mare sia l’isola di cui ho esposto tante cose”. Non esistendo, Thomas More si lancia a galoppo della fantasia. Il libro di More, come quello del suo amico Erasmo da Rotterdam sull’educazione del principe cristiano, voleva essere una risposta alle idee espresse qualche anno prima nel “Principe” da Niccolò Machiavelli. Se per quest’ultimo, il nocciolo della politica è “la verità effettuale”, prescindendo dalla morale, per More ed Erasmo il comportamento etico deve stare al vertice: onestà, giustizia, coerenza sono princìpi imprescindibili.

    La politica dipende dalla morale. Una teoria che Norberto Bobbio definiva “monismo rigido”. Thomas More, con quel suo accentuato humour tipicamente inglese, sembra divertirsi nel descrivere la vita nell’isola di Utopia. Ma c’è un problema che gli sta particolarmente a cuore: la comunione dei beni. “È sicuro che far sparire del tutto la miseria non è possibile; ma ben la si potrebbe alleviare un pochino, bisogna ammetterlo. Evidentemente si potrebbe stabilire che nessuno possegga al di là di una determinata quantità di terra, e fissare per legge la ricchezza in denaro di ciascuno”.

    Non pensava certamente che si dovessero adoperare i metodi che in seguito userà Stalin, massacrando i piccoli proprietari terrieri russi, i kulaki. Cinque milioni di morti. Per Thomas More erano ben diversi i metodi. Una specie di economia keynesiana ante litteram. Un “Welfare State” tra iniziativa privata e intervento statale, tra diritti dell’individuo ed esigenze della società. Oggi, il liberismo della new-economy ha prodotto in pochissimo tempo l’accentramento in poche mani del capitale mondiale. “Sembrava che il nuovo sistema economico - ha scritto Joseph Stiglitz - avrebbe portato i Paesi poveri ad una prosperità senza precedenti. Senza precedenti, invece, è stata la povertà in cui sono sprofondati”.

    Secondo il più famoso e più seguito storico ebreo, Yuval Noah Harari, che ha studiato Storia a Oxford e insegna all’Università di Gerusalemme, la storia segue una direzione, un’inesorabile tendenza all’unità. Come se il cammino ultramillenario dell’Homo Sapiens si ripetesse nelle varie fasi temporali. Il rapporto tra specie umana ed economia globale crescerà ancora, ma aumenterà il numero delle persone che saranno nella fame e nel bisogno. Ha quindi un gran valore la questione del reddito minimo universale, perché è «inconcepibile che le 100 persone più ricche del mondo possiedano più del patrimonio complessivo di 4 miliardi di persone povere. Possiamo non amare il capitalismo – afferma Harari – ma non possiamo vivere senza di esso».

    Oggi, la povertà, non riguarda solo i Paesi poveri. Riguarda anche i cosiddetti Paesi ricchi. I poveri in tali Paesi aumentano in progressione geometrica. La ricchezza viene accumulata nelle mani di pochi. Che diventano straricchi. Mai come oggi è drammaticamente lacerante quel grido del papa Paolo VI nella “Populorum Progressio”: “I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”.

    La disoccupazione galoppante, con l’avvento delle nuove tecnologie informatiche, riduce al lastrico numerose famiglie. L’analisi di Jeremy Rifkin, contenuta in un famoso best seller dal titolo “La fine del lavoro”, di vari anni fa, appare profetica. Rifkin proponeva un “salario sociale”, un  “reddito minimo garantito”, come augurabile da Harari, e come sembra volersi realizzare parzialmente in Italia con la proposta del “reddito di cittadinanza”, a fronte di numerose riserve sia di carattere economico e sia di ordine socio-psicologico, come quelle sollevate dal Comitato Scientifico delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, secondo cui “sarebbe enorme il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva, ma anche parassitaria nei confronti dello Stato”.

    Nel terzo libro del “Capitale”, Marx scrive: “Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità… Al di là del regno della necessità comincia […] il vero regno della libertà…”. Ecco, l’utopia marxista, rimasta solo a parole: “Ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”. Un fallimento, anche se le stesse parole si trovano nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli, che descrivono la prima comunità cristiana come comunità di cuori e di beni (4.32-35)

    Oggi le macchine sostituiscono il lavoro degli uomini e l’informatica con l’algoritmo riesce a controllare la vita, i sentimenti e perfino i pensieri degli uomini. Eric Fromm, anni fa, ha lanciato una proposta-shock: garantire a tutti i cittadini un salario-base, perché, in tal modo, ognuno sceglierebbe di lavorare liberamente, con creatività e con piacere, presupponendo come postulato che “lavorare” è una dimensione vitale dell’uomo.

    Forse per questo, come ricorda Yuval Noah Harari nel suo ultimo libro: “21 Lezioni per il XXI secolo”, anche Mark Zuckeberg, il 16 febbraio 2017, ha lanciato un manifesto sulla necessità di costruire una comunità globale, ricorrendo all’uso di Facebook, con oltre due miliardi di utenti. Ma se la filosofia aziendale di Facebook è quella di stimolare la gente a passare sempre più tempo online rischia di deformare intelligenze e coscienze. Mentre sarebbe opportuno incoraggiare le persone a connettersi quando necessario e per un tempo limitato alle reali esigenze. Uomini e macchine non possono non essere strettamente collegati, perché non si potrebbe sopravvivere se non connessi alla rete. L’uomo, quindi, dovrà appellarsi all’intelligenza in quanto capacità di risolvere i problemi e alla coscienza in quanto capacità di provare sentimenti.

     

  • Statua della Libertà
    Opinioni

    Questa è l'America!

    Mi ha dato lo spunto di questa riflessione la recente missione di Goffredo Palmerini negli Stati Uniti. Il nostro infaticabile ambasciatore d’Abruzzo nel mondo ha il merito, con le assidue notizie e con i suoi racconti di viaggio in quel Paese, di metterne in luce - tra l’altro - pregi e difetti, ma soprattutto i valori fondanti di quella grande democrazia. Anche riguardo la capacità di accogliere ed integrare progressivamente gli emigrati italiani - che ora si contano in quasi 18 milioni -, affrancandosi man mano dal demone del pregiudizio e della discriminazione, quello stesso che per diversi decenni, dall’inizio del fenomeno migratorio, ha infettato la società americana contro i nostri connazionali e non solo. Ma veniamo ora alla riflessione.

     

    Chissà se, parafrasando il titolo di un libro di Benedetto Croce che si riferiva ai cristiani, si può ancora condividere l’affermazione: “non possiamo non dirci americani”. Nonostante l’attuale presidente Trump. Per quel che è stata l’America e quel che è chiamata ad essere ancora per il futuro. Nonostante i vari e molti presidenti che non sempre hanno tenuto alto l’ideale politico dei padri fondatori. Perché l’aspetto più efficace del modello istituzionale statunitense consiste nella “provvisorietà” delle cariche, dal momento che un presidente non lo sarà mai a vita. Finito il mandato, rientra nell’anonimato. Come se il potere si autonegasse. Si evita quindi che un leader possa diventare un “duce”.

     

    D’altronde, nella Dichiarazione di indipendenza, redatta da Jefferson e approvata a Filadelfia il 4 luglio 1776, si afferma: “Quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni […] mette in piena evidenza il disegno di ridurre un popolo alla soggezione di un dispotismo assoluto, esso ha il diritto e il dovere di abbattere un simile governo e di provvedere con nuove garanzie alla propria sicurezza futura”. Parole così rivoluzionarie espresse in termini giuridici e apodittici non si trovano in altre Costituzioni, anche se, purtroppo, la Costituzione del 1787 non risolse la questione della tratta dei negri, catturati e ingabbiati come bestie e spediti nelle fattorie degli Stati del Sud. 

     

    Alexis De Tocqueville, nell’opera “La democrazia in America”, scritta dopo un suo soggiorno negli USA, affermava: “Le due razze sono legate l’una all’altra, senza tuttavia confondersi ed è per esse altrettanto difficile separarsi completamente o unirsi”. E ci fu la “guerra civile”. Gettysburg, in Pennsylvania, è oggi il monumento storico in cui, nel 1863, fu combattuta la battaglia decisiva durante la guerra di secessione. Non fu direttamente una guerra di liberazione dei negri, anche se, in seguito, nel 1865, fu approvato il XIII emendamento che aboliva la schiavitù in tutti gli Stati dell’Unione. Ma proprio a Gettysburg, il 19 novembre 1863, Lincoln aveva tenuto un discorso, che ancor oggi resta un insegnamento per ogni nazione che vuole essere democratica: “government of the people, by the people, and for the people”. Il programma di Lincoln era sostanzialmente moderato, ma non fu sufficiente per salvargli la vita. Fu assassinato da un sudista a colpi di pistola.

     

    Cento anni dopo, un altro assassinio scosse l’America: quello di John F. Kennedy. Anch’egli aveva cercato di realizzare un programma politico di rinnovamento, definito “nuova frontiera”, con l’intento di attuare una democrazia compiuta, superando le divisioni sociali e razziali. Un tentativo morto sul nascere. Visitando Berlino, allora la città-carcere cinta dal muro della vergogna, Kennedy aveva pronunciato la famosa frase in tedesco: “ich bin ein berliner” (io sono un berlinese), volendo così affermare come la politica americana fosse in difesa della libertà dei popoli. La frase, divenuta celebre, fu pronunciata il 26 giugno 1963, durante il discorso tenuto a Rudolph Wilde Platz, di fronte al Municipio di Schöneberg, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino.

     

    Un dato storico indiscusso è il contributo determinante degli Stati Uniti nelle due guerre mondiali, per la salvaguardia della democrazia. Senza la partecipazione di quel grande Paese e le centinaia di migliaia dei suoi morti, l’Europa e il mondo sarebbero stati sotto la dominazione dei “totalitarismi”. Purtroppo, e spesso, nell’ambito di alcuni Stati dell’Unione, la libertà appare come una chimera; basti pensare al problema della pena di morte. E sulla discriminazione razziale, di cui si è scritto e dibattuto moltissimo, le soluzioni restano ancora un palliativo. Il sogno di Martin Luther King, l’uomo che s’era battuto energicamente per far riconoscere i diritti civili alle popolazioni di colore, è svanito sotto i colpi d’un sicario che l’ha assassinato nell’aprile del 1968.

     

    Alcuni anni fa, in visita tra gli Amish, una comunità di stampo religioso senza elettricità e con uno stile di vita fermo ai tempi della colonizzazione, parlando con un amico nero sono stato colpito da queste sue considerazioni: “Noi siamo oriundi africani. Ma ora siamo americani. Ci sentiamo americani. Gli Amish hanno una loro privacy: vivono in una riserva. Ma noi non vogliamo riserve. Non vogliamo ghetti. Noi siamo americani neri, come ci sono americani bianchi. Abbiamo dato sudore e sangue per questa nazione, che amiamo e dalla quale vogliamo essere amati e rispettati”.

     

    Nel romanzo “Vita” di Melania Mazzucco, in cui si racconta il dramma degli emigrati italiani in America, si giunge a questa conclusione: “Se gli avessero chiesto cos’è la libertà, che aveva tanto cercato, adesso avrebbe saputo cosa rispondere: non provare vergogna di se stessi. È questa l’unica vera e autentica libertà”. Una grande lezione americana.

     

  • Fatti e Storie

    Venerdì Santo, in Abruzzo e nelle regioni del Sud Italia

     

    Venerdì Santo, in Abruzzo e nelle regioni del Sud Italia, è la processione del Cristo morto. In ogni paese, in ogni frazione, tra luminarie e canti, passano le statue di Cristo e di Maria. E si canta, quasi dappertutto, il Miserere, parola latina che significa: “Perdonami, abbi pietà”. Un salmo, che fa parte del libro dei Salmi dell’Antico Testamento. È il numero 50. Ne è autore il re Davide, che implora perdono a Dio, per aver commesso una colpa gravissima. Si era, infatti, invaghito di una donna, Betsabea, moglie di Uria, hittita. L’aveva messa incinta, ma aveva cercato di sfuggire alle sue responsabilità, architettando l’artificio di far tornare dalla guerra il marito, perché giacesse con la moglie, addossandogli la responsabilità della gravidanza. Ma Uria, tornato, non entrerà in casa, nemmeno dopo che Davide ha disposto di farlo ubriacare. Non giacerà con Betsabea, col pensiero rivolto ai suoi commilitoni in battaglia. Di fronte al fallimento dello stratagemma, il re Davide ordina a Ioab, il comandante, di porre Uria in prima fila, nel combattimento. E mentre Uria muore sul campo di battaglia, Ioab manda un messaggero a Davide per dargli la notizia: “Anche il tuo servo Uria l’Hittita è morto”. Così Davide ha campo libero di prendersi in casa Betsabea.

     

    Ma… un profeta, Nathan, lo affronta e lo accusa dell’azione criminosa, ricorrendo ad un apologo: “Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero… Il ricco aveva tutto, il povero aveva solo una pecorella piccina che egli aveva comprato e allevato…. Il ricco portò via la pecora del povero e lo mandò a morire”. Quando Davide, pieno di rabbia, chiede chi fosse quel ricco, Nathan risponde: “Tu sei quell’uomo! Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti”. E Davide risponde a Nathan: “Ho peccato contro il Signore!” Quel rimprovero e quello smascheramento inducono Davide a pentirsi e a scrivere il Miserere. Il bambino che la moglie di Uria aveva partorito si ammala e muore. Davide si unisce di nuovo con Betsabea e nasce Salomone. Una storia raccontata nella Bibbia, Antico Testamento, Secondo libro di Samuele, capitoli 11 e 12.

     

    Se l’uomo è la storia, e se la storia è maestra di vita, questo episodio dovrebbe indurre a riflettere, a rendere conto davanti alla propria coscienza e davanti agli altri dei nostri comportamenti. Davide lo fece. Lo potrebbe fare, oggi, qualche altro “ricco” e “potente”? La cronaca, in questi ultimi giorni, a livello mondiale, diffonde il grido delle numerose donne violentate e stuprate da personaggi ricchi e potenti, evidenziando come la lezione di Nathan a Davide è stata e resta ignorata. Sembra che si sia aperto il vaso di Pandora delle violenze sessuali e dell'abuso di potere, con il caso di Harvey Weinstein e dei tanti registi cinematografici, accusati di molestie e stupri. Una vicenda brutale e disumana che non riesce a trovare una soluzione equa e dignitosa. Ma, lo dovrebbe comunque, in nome di una autentica dignità della persona umana. Purtroppo, l’idea del “Miserere”, del pentimento per le colpe commesse, resta un’idea. Non una prassi.

     

    I riti religiosi, con i sentimenti di pace e di serenità che producono, dovrebbero promuovere uno spirito di conversione (metànoia) e avere funzione di promozione umana. Si racconta che il grande scrittore francese Paul Claudel, entrando nella cattedrale di Nȏtre Dame a Parigi, ascoltasse il canto del Magnificat, restandone turbato, interiormente sconvolto. Il grande sociologo della religione Emile Durkheim, nel libro “Le forme elementari della vita religiosa”, sostiene che i riti fanno unire la collettività, e spesso le normali regole vengono infrante, rafforzando il legame di solidarietà. I riti collegano il presente al passato, il singolo alla collettività. Un rito è efficace quando produce stati mentali collettivi derivanti dal fatto che un gruppo è coeso al suo interno e periodicamente si riafferma. Non esiste società che non voglia ogni tanto rinsaldare i sentimenti collettivi e rivisitarli in certi periodi.

     

    Annabella Rossi, antropologa, nel famoso libro “Le feste dei poveri” cerca di raccontare, di fotografare il comportamento dei fedeli, più che analizzarli. Ma è solo attraverso l’analisi e la discussione che la festa assume valore formativo. In questo caso, la processione del Venerdì Santo diventa momento di aggregazione, elemento emotivo che accomuna cittadini di diverse concezioni socio-politiche e perfino religiose, per ritrovare il senso comune dell’essere uomini.

     

    Ma è anche l’istituzione che è tenuta al “mea culpa”, per scarsa o nulla evangelizzazione. La Chiesa di oggi, con l’aria di rinnovamento che si respira, può guardare con speranza alle tradizioni del passato, traendone ispirazione, rinnovandole interiormente e proiettandole verso un futuro in grado di affermare i valori più autentici della persona umana. Dal rito tradizionale si può e si dovrebbe passare ad una visione al futuro del messaggio e del contenuto rituale. Una riflessione ed una predicazione che diventano annuncio (kerigma) e testimonianza di vita in grado di coinvolgere le coscienze verso la trascendenza.  

     

     

  • Fatti e Storie

    PAPA FRANCESCO DA PADRE PIO - Un crocevia tra passato e futuro

    Sabato 17 marzo 2018, Papa Francesco arriva a San Giovanni Rotondo, il famoso santuario dedicato a Padre Pio da Pietrelcina. A cento anni dalla stigmatizzazione e 50 anni dalla morte.  Era nato il 25 maggio 1887. A sedici anni entrava nel convento dei frati minori cappuccini a Morcone. Nel 1910 veniva ordinato sacerdote. Muore il 23 settembre 1968. Un uomo, un caso. Intorno a padre Pio è nata una celebrità che non tende a diminuire. Lui stesso diceva: “Farò più rumore da morto che da vivo”.

    Anche il pellegrinaggio di Papa Francesco a San Giovanni Rotondo ed a Pietrelcina, il paese natale, non farà che aumentare l’afflusso dei pellegrini e l’incremento della devozione verso padre Pio, canonizzato da Giovanni Paolo II. L’influenza che ha avuto e continua ad avere Padre Pio sul popolo, in Italia e all’estero, richiederebbe una attenta riflessione. Un personaggio assolutamente strano, singolare, irripetibile. Ma pur sempre un uomo. Non animale, né dio.  Forse un uomo con un imprinting speciale, che dominava tutto il suo essere. 

    Padre Agostino Gemelli, psicologo e francescano anche lui, lo aveva dichiarato “psicopatico, autolesionista, imbroglione”. Un giudizio certamente personale, rispettabile, ma non coglieva l’essenza della persona Francesco Forgione, come era stato chiamato nel battesimo. L’istituzione ecclesiastica, proprio in forza della fama e dell’enorme attrattiva che proveniva dal frate di San Giovanni Rotondo, aveva fatto ricorso ad ogni indagine, comminandogli perfino la “sospensione a divinis” per un periodo di tempo. Tutto inutile. Il modo di agire, lo stile spiritual-religioso di Padre Pio restava immutabile. Una scontrosità che terrorizzava, minacciando condanne divine. Personalmente ho un ricordo lucidissimo. All’età di diciotto anni, dopo la maturità classica, mi recai a San Giovanni Rotondo e mi misi in fila per confessarmi. Solo qualche minuto, inginocchiato davanti al padre e subito allontanato, senza assoluzione. Un “vai” che mi risuona anche adesso nella mente. Era il suo strano modo di trattare i penitenti, dividendoli forse in simpatici e antipatici, buoni e cattivi. Il miracolo della preveggenza! 

    Paolo VI ha parlato di “clientela mondiale” per il taumaturgo di San Giovanni Rotondo, ma l’analisi più vera e profonda è stata stilata da Sergio Luzzatto, che ha descritto minuziosamente la vita e posto in risalto il contesto storico del personaggio. Una voce di consenso al fascismo. Mai nessun grido di rivolta contro le ingiustizie sociali e politiche. Sempre e solo il rifugio o la fuga nella preghiera. Lo stile di vita proposto da padre Pio non è che un inchinarsi al destino, l’accettazione delle situazioni concrete confidando nell’aiuto divino. Aveva una tale identificazione con il potere divino da fare azioni quasi fossero oltre-umane. Miracolose. 

    Perfino le stimmate, fenomeno fisico, non sono che espressioni di forza divina. Qualcosa di innato e non ancora scientificamente spiegabile. Tutto il clima instaurato intorno alla persona di padre Pio è stato e resta un clima extra-umano (profumi, bilocazione, preveggenza, ecc.). Il miracolo per stupire. Ben lontano dal concetto di miracolo, come descritto nel Vangelo. Cristo non emanava profumi, non aveva bilocazioni, non era un preveggente. Era semplicemente un uomo, il Figlio dell’Uomo, come si definiva. Non fondava il suo messaggio sui miracoli, che anzi riprovava: “se non vedete segni e miracoli, non credete” (Gv. 4.48), ma sulla fede. Yuval Noah Harari, nel libro “Sapiens, da animali a déi” (2017, cinque milioni di copie in tutto il mondo e tradotto in più di trenta lingue), presentando la storia dell’umanità, arriva a scrivere: “Noi studiamo la storia non per conoscere il futuro, ma per ampliare i nostri orizzonti… e che abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante immaginiamo”. 

    Nel trend di una continua evoluzione della natura e dell’uomo, non può che esserci maggiore e più attenta apertura mentale, confrontandosi con le teorie “futuristiche” annunciate, con prove scientificamente valide, da Harari nell’altro suo libro, “Homo Deus, breve storia del futuro”, che prefigura un futuro dell’Uomo non tanto “Deus”, ma più facilmente “Nullus”, l’uomo annullato e sostituito da “Google, Facebook e altri algoritmi che diventeranno oracoli onniscienti e potranno evolvere in protagonisti attivi e in definitiva sovrani”. Probabilmente il futuro annunciato da Harari è semplicemente chimerico, ma tecnicamente possibile con gli sviluppi così travolgenti dell’informatica, Se la scienza biologica, oggi, tende a considerare l’uomo un algoritmo, restano i grandi interrogativi di fronte ai quali la scienza tace. “La scoperta scientifica più importante - scrive sempre Harari – è la scoperta dell’ignoranza”. Si resta sempre ignoranti di fronte all’inconoscibile. È lo stesso autore che termina il suo libro affermando: “Tutti gli scenari delineati dovrebbero essere compresi come possibilità, piuttosto che come profezie… e di pensare al nostro futuro in maniera assai più creativa”.  

    Alle posizioni di Harari fa da pendant il pensiero di Teilhard de Chardin, paleontologo e teologo, che scrive: “L’uomo è attualmente in piena espansione…una ultraominizzazione in corso…”. Forse ci troviamo di fronte ad una duplice visione dell’uomo e del mondo (weltanschauung): quella ottimistica delineata sia da Harari che da De Chardin e quella pessimistica, di stampo medievale, di cui padre Pio è l’emblema. L’istituzione ecclesiastica e non solo, ma l’umanità intera, ha davanti a sé un crocevia: realizzare le capacità umane alla luce della razionalità e dei segni positivi insiti nell’umanità dagli inizi dei tempi, o tornare ai miti d’un passato, segnato da una concezione pessimistica dell’uomo, condannato dal peccato originale. Un passato che chiama in causa il demonio come incarnazione del male e che padre Pio combatteva definendolo “il cosaccio”, ma che in realtà resta il vero stigma lasciato alla natura umana. Natura che si evolve da miliardi di anni verso la sua piena realizzazione positiva, che Teilhard de Chardin definiva il “Punto Omega”, identificandolo con Cristo. Una natura che lentamente, ma inesorabilmente va verso l’identificazione con Dio: “Io ho detto: voi siete dèi”. (Salmo 82,6)