Articles by: Di samira Leglib

  • CINEMA/ Lucia Grillo: attrice, regista, autrice, trascinata dalla passione per il Cinema


     C'è un piccolo cammeo prezioso tra i film selezionati per il Festival sul Nuovo Cinema Italo-Americano (New Italian American Cinema) che il Calandra Institute della CUNY presenterà dal 24 al 27 Settembre prossimo. "A pena do pana" (2005), cortometraggio scritto e diretto da Lucia Grillo, è una fiaba di tempi non poi così lontani che sulle orme dei maestri del neo-realismo italiano narra la Calabria che ancora vive nel ricordo di chi l'ha lasciata per il nuovo mondo: le terre desolate, la povertà e la fame dei suoi bambini che per un pezzo di pane arrivavano a pagare un alto prezzo. La storia si ispira a una vicenda realmente accaduta da bambina alla mamma della regista. La stessa Lucia Grillo è presente nel corto nella parte di sua nonna (e nel film recita anche Vincent Schiavelli).

    Figura slanciata e lineamenti decisi che appartengono solo a quella particolare bellezza che hanno le donne del nostro Sud, abbiamo incontrato Lucia Grillo presso le sedi del Calandra Institute dove si occupa di tutti gli aspetti che involvono una macchina da presa: regia, montaggio, operatrice macchine.
     
     
    Lucia, tu hai iniziato a recitare alla tenera età di 6 anni e da quel momento in poi la tua vita non si è più allontanata dalle arti del Teatro e del Cinema. Hai studiato Teatro presso il Lee Strasberg Theatre Institute di New York e, successivamente, cinema alla New York University's Tisch School of the Arts. Possiamo dire che la tua è un'innata passione per la recitazione?
     
    «Ricordo che da bambina ero molto timida e mia sorella maggiore mi ha successivamente raccontato che spesso mi nascondevo in bagno e recitavo davanti allo specchio. Credo che fare l'attrice per me sia stata una sorta di sfida, è la cosa più difficile che ci sia, non è come le altre arti perché nella recitazione lo strumento da usare è il proprio corpo. Devi riuscire ad aprirti completamente e ricreare una nuova vita davanti alla MPD (macchina da presa, ndr). E' un lavoro che non finisce mai perché puoi sempre aggiungere qualcosa ad un ruolo».
     
     
    E il tuo impegno come regista? A cosa si deve e cosa aggiunge, o toglie, al tuo lavoro di attrice?
     
    «Quando ho iniziato a lavorare nel cinema avevo già l'idea che in futuro, magari a 50 anni, mi sarebbe piaciuto fare la regista. Poi questa opportunità si è presentata prima e, nonostante non abbia mai studiato regia, ho girato "A pena do pana" nel 2001. Volevo fare un regalo a me stessa in occasione del mio 30esimo compleanno e la storia che ho scelto di narrare esce direttamente dalla bocca di mia nonna, anche se per renderla più drammatica ho modificato il finale. Curare la regia è come avere la possibilità di utilizzare entrambi i lati del cervello. Forse non dovrei dirlo ma è quasi più facile fare la regista che l'attrice, perché osservi dal di fuori. Quando reciti invece è come spalancare le tue costole per lasciare uscire l'anima. Ma amo più recitare che dirigere».
     
     
    Tra i tuoi lavori come attrice non possiamo non menzionare il ruolo nel film diretto da Spike Lee, "The Summer of Sam". Come è stato lavorare con il regista?
     
    «E' stato un vero piacere. A quel tempo facevo riferimento ad un'agenzia di modelle e loro cercavano appunto una modella che parlasse italiano. Quando l'ho incontrato per il provino è stato gentilissimo e ha pure letto il mio curriculum cosa che ormai nessuno fa più! In seguito gli ho fatto vedere il trailer del mio cortometraggio e il suo incoraggiamento ha significato tantissimo per me».
     
     
    Raccontaci di questo tuo primo lavoro, "A pena do pana", che sarà proiettato nuovamente dopo aver partecipato a innumerevoli Festival cinematografici di livello internazionale come l'AFI Fest in Hollywood e il Roma Indipendent Film Festival dove ha vinto come migliore corto digitale.
     
    «Avevo questa storia che apparteneva alla mia famiglia e in quegli anni stavo meditando di trasferirmi in Italia per conoscere come hanno vissuto i miei genitori e per imparare meglio il dialetto in quanto, essendo nata e cresciuta a New York, lo stavo un po' perdendo e in futuro vorrei poterlo insegnare ai miei figli. Volevo anche conoscere la Calabria di oggi perché sono figlia di immigrati e il ricordo della terra d'origine è sempre carico di nostalgia ma rimane immobile al tempo in cui si è andati via. Io sono andata in Calabria per la prima volta quando ero bambina. Ci sono tornata da adulta con mille progetti e voglia di fare. E' un posto che amavo e che amo ma sono ripartita con un senso di fallimento addosso. Volevo collaborare con la Calabria Film Commission di cui avevo sentito parlare negli States, ma in realtà è quasi un fantasma. Volevo aprire una scuola di cinema per giovani calabresi ma ho provato e riprovato tantissimo, ho bussato a tutte le porte, ho letteralmente tormentato tutti i politici e dato ad ognuno il mio curriculum ma quello che mi sono sentita rispondere, e che mi ha ferito enormemente, è che neanche le donne calabresi fanno lavorare, figurarsi una straniera!»
     
     
    Hai quindi rinunciato o pensi di tentare di nuovo in futuro?
     
    «Sì, ritenterò, non voglio assolutamente tirarmi indietro! Qualcosa in Calabria deve cambiare, non tocca solo ai giovani, è una responsabilità troppo grande da caricare sulle loro spalle. Loro cercano di fare qualcosa ma vedere i bambini che spacciano per le strade perché sono gli adulti e i politici corrotti che non lasciano loro scelta, è straziante. Il film che ho girato è la poesia che non trovo più nella mia terra. E' questa ironia crudele della Calabria, un posto bellissimo inquinato da tale tristezza. Vorrei che i suoi abitanti si svegliassero e capissero la storia che hanno alle dietro di loro, la ricchezza che gli appartiene e coloro che possono essere in futuro».
    Lucia si commuove mentre parla della sua Calabria. C'è un guizzo negli occhi che lascia ammirazione per una donna che ama tanto una terra che a pensarci bene non le ha dato i natali e che non l'ha accolta quando lei ha chiesto di tornare. Come un figlio abbandonato che prima o poi sente l'esigenza di ritrovare e conoscere i genitori naturali. Le risposte a "da dove vengo?", "quali sono le mie radici?" L'amore di un figlio ha una forza incondizionata, non importa se ricambiato o meno.
     
     
    Dopo "A pena do pane", hai girato un secondo cortometraggio, "Pop machine" e poi un ultimo, "Ad Ipponion", che hai appena terminato di montare e che abbiamo avuto l'onore di vedere in anteprima assoluta. In questo lavoro ritroviamo l'ambientazione calabrese ma in tempi odierni. Anche in questo ultima opera tocchi un tema scottante, quello della criminalità minorile, cosa ti ha portato a realizzare questo film?
     
    «Parte del premio vinto a Roma con il primo cortometraggio consisteva nel finanziamento di un progetto. Abbiamo fatto le riprese due anni fa ma per una serie di difficoltà dovute al brutto tempo e ai sopralluoghi lontani tra di loro, sono stata costretta a tagliare almeno due terzi della sceneggiatura. Quando sono rientrata a New York avevo paura di guardare il girato perché non ero affatto soddisfatta. Non avevo più energia da dedicare a questo lavoro ma dovevo finirlo perché non riesco proprio a lasciare un progetto incompiuto e soprattutto lo dovevo ai ragazzi (protagonisti del corto sono 3 giovani adolescenti, ndr) che avevano dato tutto per questo film».
     
     
    Se posso esprimere un parere, ritengo che sia un lavoro davvero ben fatto. La storia è potente, gli attori sono autentici come nel migliore neo-realismo italiano e la scelta della musica, la quale scandisce il tempo e le emozioni tra i dialoghi, è un tocco di poesia.
     
    «Grazie! Il brano appartiene alla stessa cantante, Nicole Renaud, che ho utilizzato per il primo corto. Penso che la musica sia importante perché nello stesso lavoro di regia e di montaggio c'è un tempismo musicale che deve essere rispettato».
     
     
    Ci sarà mai un lungometraggio?
     
    «Sì. In realtà ci sto lavorando già da un po'. Si tratta di una storia che racconta dell'Ndrangheta ma sottoforma di storia d'amore. Ho scelto questo tema perché crescendo negli States mi sono resa conto che la mafia viene quasi glorificata. C'è bisogno invece di smascherarla e far vedere tutta la sua bruttezza. Questo è un film molto violento, ma leggo ogni giorno sui giornali calabresi di bambini che si sparano in faccia. Viene raccontata una situazione ipotetica, un po' come in "Thérèse Raquin" di Zola, che vede protagonista un'assistente sociale italo-americana che va in Calabria per aiutare i bambini ma si innamora di un uomo che è completamente il suo opposto, una storia che non può esistere».
     
     
    C'è comunque sempre la Calabria al centro dei tuoi lavori, cos'è che ti attira così profondamente?
     
    «La Calabria è una terra complessa e misteriosa. Ogni volta che vado sono determinata a capirla e puntualmente torno a casa più confusa. Ai miei genitori non piaceva fin dall'inizio la mia idea di trasferirmi. Mio padre in particolare non voleva più tornare perché aveva sofferto la povertà di questa terra e come tutti gli immigrati che hanno ricostruito loro stessi e trovato una stabilità all'estero, pretendeva una vita migliore per i propri figli!».
    Lucia Grillo è una regista che mette nel suo lavoro la stessa passione e grinta che ritrovi quando la ascolti parlare della Calabria. Non sai poi bene, infine, se sia la passione per il cinema che la conduce e la trascina, o se il linguaggio cinematografico sia una voce prestata all'amore per la sua terra.

    (Pubblicato su Oggi7 del 21 settembre 2008)