Articles by: Luigi Fiammata

  • Opinioni

    L’Aquila, dieci anni dal terremoto del 2009

    L’AQUILA - Il terremoto segna una scissione nel senso comune dei cittadini. A L’Aquila, tutto si definisce indicandone le condizioni, prima e dopo il terremoto. Eppure, non è possibile comprendere i processi attivati dal post sisma, e le attuali condizioni della città, se non si tiene conto della permanenza, e degli effetti, delle dinamiche che caratterizzavano la città, prima del 6 aprile 2009.

    La Destra ha governato L’Aquila dal 1998 al 2007, minandone in profondità l’impianto urbano, attraverso il ricorso ad una pluralità di forme di edilizia contrattata e condividendo, con il Centrosinistra, l’attenzione alla preminenza degli interessi degli imprenditori edili locali. La Cassa di Risparmio locale ha sostenuto questo intreccio tra impresa edile e politica, anche oltre il legittimo, e, anche per questo, entrata in sofferenza, è stata poi acquisita, dopo il sisma, da una azienda di dimensione nazionale, che ha presto spostato altrove i centri decisionali e che molto debolmente sostiene oggi le imprese del territorio.

    Prima del sisma, L’Aquila si identificava col suo Centro Storico, che era area direzionale, e di pregio monumentale, luogo principe della socialità cittadina e luogo d’elezione della rendita immobiliare che approfittava della vasta presenza di studenti universitari fuori sede, cui era affittato, spesso fuori regola, un costruito privo di condizioni di sicurezza. Le periferie erano preda di assalti selvaggi al paesaggio da parte di una edilizia senza pregio, e senza spazi pubblici, che in molti luoghi sommava, e somma ancora oggi, la presenza contemporanea di insediamenti abitativi disorganici, con capannoni industriali, vuoti, costruiti perché una Legge Regionale ne favoriva l’edificazione senza vincoli, privilegiandone la sola rendita fondiaria e disinteressandosi di un vero impiego produttivo o di servizio. Le frazioni della città, che prima del fascismo avevano dimensione comunale autonoma, erano rimaste un sistema distante e disorganico rispetto all’area urbana, avviato a trasformarsi lentamente in periferia senza più anima.

    A luglio del 2008, venne arrestato il Presidente della Giunta Regionale Ottaviano Del Turco, insieme ad alcuni dei suoi Assessori. E furono indette nuove elezioni, che, a dicembre, videro la Destra riprendere il controllo della Regione. L’intervento della Magistratura aprì l’ennesima crisi della legalità, e della credibilità della classe politica in Abruzzo, sul terreno della Sanità, che sarebbe stato decisivo per definire una stagione di nuovo, universale, efficiente ed efficace welfare in un una regione caratterizzata da un territorio difficile, in larga parte montuoso, e dalla viabilità disagevole; soggetto a forti processi di invecchiamento della popolazione e di spopolamento delle aree interne. La Sanità pubblica invece, è stata oggetto di un continuo ed indiscriminato taglio delle risorse e dei servizi, senza neppure ridefinirne correttamente il rapporto con la Sanità privata o convenzionata, ma anzi, perpetuando ed accrescendo sprechi e dinamiche clientelari e baronali.

    Buona parte della classe dirigente locale, e regionale, è composta da medici, in tutti gli schieramenti politici. Gruppi di potere, spesso trasversali e perfettamente adattati alla prevalenza ormai ideologicamente acquisita delle ragioni del mercato, sul bisogno di Salute, si disputano il capitolo “Sanità”, quello più ricco in assoluto dell’intero bilancio regionale. L’intreccio tra costi della Sanità e irresponsabilità della politica e dell’amministrazione, ha toccato il suo culmine subito dopo il sisma del 2009, quando la Giunta Regionale di Destra ha sottratto alla ASL aquilana 47 milioni di euro - erogati dall’assicurazione sottoscritta contro il danno per il terremoto, e che avrebbero dovuto essere utilizzati per ricostruire gli immobili danneggiati dal sisma - per allentare le sofferenze del bilancio regionale al limite del dissesto; l’Ospedale aquilano, così, a dieci anni dal sisma, ancora non è stato del tutto ricostruito e una parte strategica della città, l’intera collina prospiciente la Basilica  di Collemaggio, con i suoi numerosi edifici dell’ex manicomio, della Direzione Sanitaria e dei Distretti sanitari territoriali, è in totale abbandono, mentre la ASL, proprietaria dei luoghi, paga fior di affitti ai costruttori locali per le sue sedi “provvisorie”.

    A settembre del 2008 iniziarono ad avvertirsi i primi segnali, a livello nazionale, della terribile crisi economica, che, iniziata con la bancarotta della finanza statunitense, è, ancora oggi, non riassorbita dall’economia mondiale. A L’Aquila la crisi impatta su un territorio che, nel 1994, con il primo governo Berlusconi, è stato espulso, prima della naturale scadenza, dal sistema di sostegno straordinario dell’Europa per il Mezzogiorno e che ha appena subito colpi terribili dalla riorganizzazione del sistema delle imprese a Partecipazione Statale, un tempo nerbo di una presenza industriale importante, nella produzione e nei servizi per le Telecomunicazioni, anche spaziali e per la Difesa, oltre che nelle industrie elettroniche specificamente vocate ai sistemi d’arma. Un intero settore industriale, con migliaia di occupati di cui oltre il 50% donne, con le sue competenze e professionalità pregiate, viene totalmente cancellato dai processi di privatizzazione insensati e gestiti solo nell’ottica del rientro dal debito pubblico in previsione dell’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro. Per la prima volta nella storia repubblicana della città, è impossibile alla politica locale intervenire nei processi economici, la cui portata, e la cui origine, è troppo lontana e ampia, perché possa essere condizionata. La mancata percezione di questa debolezza strutturale del sistema locale, da parte delle maestranze interessate, della politica locale, della città complessivamente e di larga parte del Sindacato territoriale, lascia sul terreno la sensazione di una violenta e inspiegabile ingiustizia subita, che non consente di organizzare risposte e alternative credibili, ma solo la ricerca di capri espiatori.

    La città quindi, alla vigilia del sisma, vive una situazione di forti disequilibri, tra Centro e Periferia, tra Occupati e Espulsi dai luoghi di lavoro; tra poteri locali indeboliti, frammentati nelle competenze e messi in competizione tra loro dalla improvvida riforma “federalista” di Bassanini e poteri nazionali e globali. Vive una profonda crisi di prospettiva, avendo investito molto di sé stessa nella formazione e nell’alta formazione, ma ritrovandosi improvvisamente quasi del tutto priva di sbocchi credibili per i giovani che contribuiva ad istruire. L’Aquila è segnata dai processi di marginalizzazione delle aree interne del Paese e vede accentuare la propria passivizzazione, poiché la fonte preponderante di sostentamento è il flusso di risorse pubbliche verso la città, con gli stipendi alla diffusa classe di lavoratori pubblici di un capoluogo di Regione - ivi comprese le scuole d’ogni ordine e grado e una Università che contava oltre ventimila iscritti - con le pensioni erogate ad una popolazione che invecchia e che ha visto, prima del tempo, porre in quiescenza migliaia di persone prima impegnate nell’industria, con il sostegno generalizzato alle numerose, ricche di storia preziosa e qualificate Istituzioni culturali cittadine.

    E poi arriva il trauma.

    Il terremoto dell’Aquila, da subito, diviene innanzitutto una rappresentazione mediatica. La città è raccontata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione in special modo, con una capacità di drammatizzazione enorme e secondo una precisa e attenta scansione sceneggiata. Mentre i cittadini vengono obbligati, in massa, ad abbandonare la città, è messo in atto, subito, un percorso che non deve ripetere le scansioni temporali che hanno caratterizzato altre tragedie nazionali. La tripartizione di “gestione dell’emergenza – transizione – ricostruzione”, è abolita.

    Il Presidente del Consiglio non può permettersi che L’Aquila sia esposta allo stesso modo in cui le sue televisioni hanno mostrato, puntualmente e per ragioni di opportunità politica, il terremoto in Umbria: la presenza nei telegiornali, delle immagini, ad ogni ricorrenza, degli stenti delle “Festività nei container”, per i terremotati, non può essere consentita. La fase di transizione è perciò cancellata e con essa anche la possibilità di sedimentare un racconto condiviso della tragedia nella popolazione. E di costruire una riflessione seria e capace di traguardare il futuro, sui caratteri e la qualità della ricostruzione di un Capoluogo di Regione, la cui distruzione e recisione di tutti i gangli sociali, economici, relazionali, direzionali e di elaborazione, è subitanea e totalmente inedita nella storia del Paese. La volontà di “dare un tetto” in tempi rapidissimi a decine di migliaia di persone è assolutamente lodevole e innovativa. La proposta del “Progetto C.A.S.E.” tramortisce l’intero Centrosinistra al governo della città, e le forze sociali, e ne sancisce l’afasia anche col prolungamento strumentale dei poteri commissariali, in varie forme, fino al dicembre del 2012.

    Il terremoto si trasforma in un grimaldello utile a cambiare i rapporti di potere, e l’equilibrio dei rapporti tra poteri, in Italia.

    La gestione dell’emergenza nella città è caratterizzata dalla sospensione di ogni regola di democrazia. Sin dalla prima Ordinanza post sisma viene sospesa la validità, per il territorio colpito dal sisma, di decine e decine di leggi di indirizzo e controllo dell’intervento pubblico: ad esempio, tutto il codice degli Appalti; tutto il magistero di controllo della Corte dei Conti; tutta la normativa sul trasporto dei rifiuti, anche tossici, speciali e pericolosi; persino la legge sulla trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione è abolita, a L’Aquila, tra l’altro. E’ qui che si innesta il tentativo di trasformare la Protezione Civile in una Società per Azioni cui affidare la realizzazione di tutte le Grandi Opere Pubbliche, in regime di emergenza, anche sotto il profilo della gestione dell’ordine pubblico, e che è bloccato solo quando emergono gli scandali delle “cene galanti” nella residenza del Presidente del Consiglio dei Ministri.

    Un fiume di risorse finanziarie, un mare di persone mobilitate per L’Aquila, un oceano di solidarietà vera, nazionale, e internazionale, talora raccontati e amplificati dai canali televisivi e dalla carta stampata, non ancora sottoposta all’attacco dei Social Media, rendono indicibile il dissenso. Nessuna discussione fu possibile, e neppure oggi lo è, in realtà, riguardo l’impatto del Progetto C.A.S.E. sulla realtà cittadina. Da ottobre del 2009, il Progetto C.A.S.E. ospita confortevolmente e dignitosamente, fatto salvo qualche crollo negli ultimi anni, migliaia di aquilani spossati dal sisma e da mesi di lontananza fisica dalla città. Ma oggi tende a trasformarsi in residenza riservata a fasce marginali della popolazione: il rischio di doversi confrontare con dei ghetti è altissimo, già ora. I veri costi del Progetto C.A.S.E. sono un mistero, mentre non lo sono le fonti che ne finanziarono la realizzazione: il Fondo Europeo di Solidarietà per le calamità naturali fu praticamente impiegato per intero, e, pertanto, il “merito” della realizzazione del Progetto C.A.S.E., andrebbe almeno diviso con l’Unione Europea e non essere oggetto di vanto esclusivo del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca.

    Il ricorso alle risorse dell’Unione, inoltre, vincola il destino futuro dei diciannove “quartieri” sparsi per il territorio comunale: essi devono restare strutture “temporanee”, ma i cui costi, in realtà, per l’abbattimento e il ripristino del territorio, nessuno sosterrà mai. E quelle “strutture temporanee” non possono generare “utili” per il Comune, divenutone nel frattempo il proprietario, che pertanto non può alienarli a soggetti utilizzatori che avrebbero tutto l’interesse a mantenerne intatta ogni funzionalità. Si è taciuto per anni che la quantità di risorse necessaria ad una vera manutenzione di quei complessi residenziali, non è realisticamente sostenibile dal solo bilancio del Comune di L’Aquila, che, peraltro, soffre fino al limite del collasso finanziario per i mancati introiti derivanti dall’evasione del pagamento delle bollette per le utenze (tutte formalmente in capo al Comune proprietario), che tantissimi inquilini del Progetto C.A.S.E. hanno praticato e praticano, talvolta per vero bisogno, molto più spesso per intollerabile cinismo, tutt’oggi; spesso irresponsabilmente spalleggiati da quasi tutte le formazioni politiche che hanno cavalcato, secondo le convenienze elettorali del momento,  una demagogica idea di “assistenza totale”. La città militarizzata e quasi interamente svuotata, nel luglio 2009, quando la riunione del G8, con un colpo di teatro, fu spostata dalla Sardegna a L’Aquila, racconta un potere che, purché non sia disturbato ma ubbidito, elargisce con assoluta generosità assistenza e sostegno, e persino una intera estate aquilana di spettacoli d’intrattenimento dal vivo di grande qualità, mobilitando il meglio degli artisti italiani, gratuitamente.

    Il territorio comunale, coi suoi nuovi nuclei abitati costruiti in quei mesi, si estende ora lungo l’asse Est-Ovest per oltre trenta chilometri, senza che vi siano le risorse per i corrispondenti necessari servizi pubblici, dal trasporto alla raccolta dei rifiuti, ad esempio, o una dotazione infrastrutturale adeguata, e senza che l’edificazione di questo patrimonio residenziale aggiuntivo abbia contribuito a eliminare l’abusivismo edilizio, che, al contrario, è esploso, usando come cavallo di Troia una sciagurata Delibera comunale della Giunta di Centrosinistra. Quell’atto autorizzava la realizzazione di manufatti provvisori in legno nella fase d’emergenza, i cui oneri di urbanizzazione sono stati a totale carico delle risorse pubbliche, e che ha generato poi migliaia di “casette di legno” (censite, peraltro), abusive persino per i criteri previsti dalla Delibera, ma anch’esse urbanizzate e oggetto oggi dell’attesa di una sanatoria generalizzata, nel cui nome sono stati eletti alcuni consiglieri della Destra vincente alle ultime elezioni comunali. Il patrimonio edilizio abitativo di L’Aquila, senza contare gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. capaci di ospitare oltre tredicimila persone, è sovradimensionato di circa il 30%, rispetto ai residenti attuali (poco meno di settantamila), anche per le previsioni del  Piano Regolatore della città, risalente ai primi anni ’70, e da allora mai cambiato, se non con interventi in deroga, che immaginava una città di centoquarantamila abitanti, e estendeva le aree edificabili a quella dimensione demografica. A questa inflazione di appartamenti vuoti s’aggiungono i “premi di cubatura”, che le Leggi varate dai vari Governi, hanno nel frattempo consentito nella ricostruzione e che hanno generato, anche per questa via, nuova edificazione.

    Il Centrosinistra ha governato la città dal 2007 al 2017. Nessuno, obiettivamente, può immaginare che vi fosse una classe dirigente locale preparata alla tragedia e all’incredibile sconquasso che ha colpito la città. Ma quella Amministrazione è, culturalmente prima che politicamente, corresponsabile dell’attuale conformazione urbana e sociale della città. Quando il Governo del Presidente del Consiglio Berlusconi iniziò a discutere la Legge che avrebbe dovuto presiedere alla ricostruzione della città, fu subito chiaro che la quantità di risorse economiche che sarebbe stata posta a disposizione dei cittadini avrebbe reso materialmente impossibile ricostruire L’Aquila, talmente sottodimensionate erano le cifre. Il Centrosinistra, locale e nazionale, guidò l’opposizione alle scelte del Governo. La parola d’ordine, che mobilitò la città, chiedeva che il danno fosse risarcito al 100%, richiesta assolutamente legittima, e che tutto fosse ricostruito come era e dove era. Come se la ricostruzione di ogni singola abitazione privata, ricostruisse una città.  

    Una città è fatta di storia, e di storie. Di relazioni. Di interessi economici e conflitti. Di dinamiche culturali e produttive. Di servizi e di formazione e istruzione. Di luoghi pubblici e d’incontro, di commerci, di attività amministrative e direzionali. Di emergenze artistiche e ambientali, di luoghi di culto. E tutto è unito in uno spazio fisico, ed immateriale, le cui funzioni sono talvolta gerarchizzate, talaltra capaci di convivenza paritaria, ma sempre mutevoli e bisognose d’interpretazione e governo. Non può essere ridotta una città alla somma del suo patrimonio immobiliare. Ed invece quelle parole d’ordine hanno reso la ricostruzione un processo eminentemente individuale, familiare, al più; e che si esaurisce nella riparazione della propria abitazione, o delle proprie abitazioni. Il futuro, nelle aspettative degli aquilani, sarebbe stato caratterizzato, semplicemente, dal ritorno allo splendore di un passato idealizzato.

    L’Aquila oggi non ha una identità; è un vasto spazio disperso, disordinato ed affastellato, congestionato, nel quale si sono formati nuovi poli di attrazione, dopo la perdita di rilevanza del Centro Storico, senza che ne sia stata strutturata, urbanisticamente, l’importanza; che, anzi, grava su infrastrutture assolutamente inadeguate, in aree del tutto prive di spazio pubblico. Tutto l’asse della Strada Statale 17, ad ovest e ad est della città, per esempio. L’Aquila è percorsa, di fatto, solo in automobile, anche per brevi distanze; le relazioni sociali vivono quasi solo se strutturate, in orari, in luoghi. La gran parte della città, e delle sue frazioni, è vissuta solo per il ritorno alle abitazioni individuali, chiuse, e separate tra loro, dentro un contesto urbano disseminato di recinzioni. L’incontro tra persone avviene in aree interstiziali, o come derivato della frequentazione di luoghi del consumo. L’intero Centro Storico è oggi quasi  un deserto di presenze stabili; smozzicato e ancora semidistrutto. Privo di una qualsivoglia fisionomia urbana, con la sua alternanza di zone parzialmente ricostruite, anche con immobili ed edifici di pregio storico-architettonico magnificamente rivitalizzati, pur se spesso privi di funzione, e di vastissime aree ancora totalmente ferme al 7 aprile 2009. Nel Centro Storico si concentravano, prima del terremoto, oltre mille attività di commercio, artigianali e professionali. Ne sono aperte ad oggi, dopo dieci anni dal sisma, un’ottantina circa. Quasi nessuna chiesa ha visto riparati i danni, talora gravissimi, subiti dal terremoto, per il contenzioso aperta dalla Curia, che chiede di essere stazione appaltante unica, e col diritto di affidare i lavori a trattativa privata, in contrapposizione alle scelte del Ministero dei Beni Culturali e alla necessità di gare ad evidenza pubblica. Lo svuotamento del Centro Storico ha generato un imponente processo di ridislocazione delle attività nelle periferie e nei Nuclei Industriali di Sviluppo, e nessuno, ad oggi, immagina un riuso delle strutture che, probabilmente, nel giro di una decina d’anni, saranno abbandonate per un ritorno nelle aree centrali, prefigurando, in questo modo ulteriori alterazioni e ferite del tessuto urbano.

    I diversi schieramenti politici hanno usato e usano il terremoto per le loro contrapposizioni, fatte anche di strumentalizzazione delle difficoltà oggettive e di spregiudicato utilizzo dell’emergenza. La Legge per la ricostruzione della città, del giugno 2009, contiene, ad esempio, la totale liberalizzazione del gioco d’azzardo, anche on line, in Italia, con tutto il suo coinvolgimento potenziale della criminalità organizzata, utilizzando il pretesto che una parte degli introiti derivanti dalla tassazione dell’azzardo - peraltro questa previsione di Legge non è mai stata effettivamente verificata - sarebbero stati destinati ai processi di ricostruzione della città. Non è stato possibile mai, in alcun momento della gestione post sisma, un terreno comune di riflessione, dibattito e decisione tra le varie forze politiche, pur nel permanere delle diverse identità. Tra i cittadini che non abbiano subito lutti, l’uso strumentale e propagandistico del terremoto ha alimentato una divisione profonda, fondata in realtà, più sulle conseguenze materiali soggettive che la furia della natura e l’indifferenza delle Leggi ha riverberato su ciascuno, che su diverse prospettive progettuali o di senso.

    Ha pesato, enormemente, sui tempi della ricostruzione, la lotta defatigante perché fossero disponibili risorse davvero sufficienti, coronata da sostanziale successo solo nel 2013, col Governo Monti e il Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca. Così come ha pesato enormemente, rendendo la ricostruzione impossibile, la normativa per la gestione dell’emergenza che ha spossessato, in quella fase, la città delle sue reali possibilità d’intervento. E pesa ancor oggi la normativa che ha stabilizzato le modalità di ricostruzione, comunque estremamente farraginosa, densa di insidie e lacunosa in alcuni punti decisivi; tale da rendere possibili forti disparità di trattamento e arbitrii generalizzati. La ricostruzione dei palazzi di proprietà privata danneggiati dal sisma, ad esempio, è stata strutturata a partire dalla libera determinazione delle Assemblee condominiali, che hanno il compito di affidare i lavori a tecnici e imprese, sulla base di progetti, posti poi all’attenzione di una speciale struttura pubblica che ne certifica la congruità e assegna le risorse necessarie agli interventi. Le Assemblee condominiali, però, non avevano, e non hanno in genere, le competenze tecniche e scientifiche per scegliere una tipologia ricostruttiva piuttosto che un’altra, rispetto alla sicurezza antisismica ad esempio, o per valutare la congruità economica e tecnica di un’offerta, o la solidità finanziaria, la professionalità e competenza di un’impresa piuttosto che di un’altra, producendo per questa via ritardi nei tempi di ricostruzione - per il fallimento di imprese affidatarie ad esempio -  contenzioso e indeterminatezze. Inoltre, le Assemblee condominiali possono essere state artatamente, ed impunemente, condizionate da relazioni inconfessabili tra progettisti, amministratori di condominio e imprese; non esiste nel nostro Paese, infatti, il reato di corruzione tra privati, e questo può aver reso possibili innumerevoli malversazioni nell’affidamento di lavori, che talvolta ammontano a milioni di euro anche per un singolo edificio.

    L’alternativa sarebbe stata affidare la ricostruzione privata alla normativa in vigore per gli appalti pubblici, e qualcuno ci aveva anche pensato. Ma questo avrebbe reso totalmente impossibile la ricostruzione della città: prova ne sia che tutti gli edifici di proprietà pubblica, comprese le scuole di ogni ordine e grado, danneggiati dal sisma, non sono stati ancora ricostruiti (salvo due o tre importanti eccezioni). Sulle scuole, in particolare, ad agosto del 2009, si consumava una beffa tragica per mano di una circolare interpretativa del Ministero delle Opere Pubbliche, retto allora dal ministro Altero Matteoli, riguardante la Legge sulla ricostruzione di L’Aquila del giugno 2009. Quella Circolare stabilisce, di fatto, che per tutte le scuole della città, che non siano crollate col sisma, ma abbiano resistito sia pur danneggiate, sia sufficiente, perché siano agibili, l’adeguamento alla vecchia normativa antisismica e non invece necessario il massimo tecnologicamente installabile degli accorgimenti costruttivi per resistere a futuri possibili terremoti. Il terremoto di L’Aquila lascia aperto quindi, per lo Stato italiano, il problema di avere una normativa quadro che risolva il nodo di risorse pubbliche gestite liberamente da soggetti privati: che tuteli certo la finanza pubblica da sperperi inaccettabili, ma dia anche certezze di diritto alle popolazioni colpite, sul piano dell’assistenza dovuta e sulle misure del ristoro, e che preveda un certo grado di adattabilità a specifiche condizioni territoriali, soprattutto in merito all’intreccio tra disposizioni urbanistiche vigenti al momento dell’evento e interventi di risposta, per impedire speculazioni o occasione di violazione dei vincoli ambientali e storico-architettonici di un luogo.

    L’assenza di uno strumento simile, a L’Aquila, ha comportato tra l’altro, uno scontro durissimo sulla figura del Commissario per l’Emergenza che coincideva con il capo del Dipartimento della Protezione Civile. Percepito da una parte della popolazione come il salvatore messianico (e per tutta una lunga fase l’intera classe politica del territorio, senza distinzioni di colore, lo ha omaggiato come se fosse il sovrano benevolo delle azioni di intervento sull’emergenza), e da un’altra parte della popolazione come il prevaricatore tirannico, responsabile peraltro, almeno moralmente, dell’inganno mediatico dalle conseguenze tragiche della riunione della Commissione Grandi Rischi tenutasi a L’Aquila il 31 marzo 2009, che aveva rassicurato la popolazione in merito ai possibili sviluppi dello sciame sismico iniziato a dicembre 2008 e crescente in intensità, oggetto di tre gradi di processo, che hanno infine assolto tutti gli imputati, tranne uno. Il terremoto di L’Aquila, anche per questa via, evidenzia la deformazione preoccupante, avvenuta in questi anni,  del senso dello Stato; come se essere responsabile nazionale della Protezione Civile non imponesse, di per sé, il massimo dell’impegno e dell’azione positiva a tutela e salvamento delle popolazioni interessate da calamità naturali, ma consentisse invece, per come il ruolo è stato materialmente esercitato, arbitrio graziosamente elargito; le caratteristiche soggettive del titolare di una carica, sostituiscono totalmente e annullano le sue prerogative, e doveri, d’istituzione.

    Per una breve stagione, la città ha vissuto un importante protagonismo civico che ha combattuto le storture della gestione emergenziale e le ingiustizie che si profilavano a danno della comunità, in alcuni momenti con un vasto consenso di popolo, e che ha posto, in alcune sue parti, rilevanti questioni di prospettiva; sul piano del disegno urbano e della qualità dei processi di ricostruzione e sul piano della necessità di coniugare alla ricostruzione fisica un’idea di sviluppo materiale e immateriale del territorio. Tale protagonismo civico, inedito per la città prima del sisma, quasi da subito è stato caratterizzato più dalla capacità di trovare volta per volta un avversario che dalla solidità di una strutturazione della rappresentanza, capace di dialogare da pari a pari, e autonomamente, con le Istituzioni e con le singole forze politiche. A quella stagione ne è seguita una di ripiegamento, in parte per ragioni connaturate anche ai diversi interessi materiali, incarnati nelle diverse anime del movimento, ed in parte per il conflitto scatenato dalla politica che s’è sentita espropriata da queste forme di democrazia diretta e partecipata, e le ha combattute, con la repressione da un lato, e attraverso processi sotterranei o espliciti di cooptazione, dall’altro. La città, oggi, non ha più alcuna eredità visibile e influente di quella stagione, salvo una individuale presenza in Consiglio Comunale attraverso una Lista Civica che esplicitamente si è richiamata a quella esperienza, ed un presidio occupato, in un’area dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio.

    Gran parte del futuro della città si gioca sulle prospettive per i suoi giovani. Forse, molte occasioni sono già state irrimediabilmente perdute. Ma non si dovrebbe rinunciare all’idea, ancor oggi, che la massa di risorse che la città sta ricevendo dalla comunità nazionale, per ricostruirsi, sia spesa anche per far germogliare nuove opportunità stabili, strutturali, magari anche inattese, che connotino la città in un quadro europeo almeno. L’Aquila, non dovrebbe restar chiusa tra le sue montagne: dovrebbe essere capace di scalarle, per liberare lo sguardo verso l’Adriatico e il Tirreno, e oltre le Alpi, mantenendo il suo tratto antico di rapporto con il Mezzogiorno, segnato dal passo dei tratturi della Transumanza. Per questo resta decisivo rompere l’isolamento della città, dotandola di un reale attraversamento autostradale Tirreno-Adriatico, concludendo l’autostrada che parte da Roma, con l’allaccio alla A14, non lasciandola interrotta a Teramo come è oggi. Così come sarebbe necessario puntare ad un collegamento veloce su rotaia con Roma, ma anche con Napoli attraverso Sulmona, e alla strutturazione di forme di governo comune del territorio, in tutta l’area dell’Appennino Centrale, che vive problematiche comuni e che potrebbe avere opportunità positive scegliendo soluzioni condivise.  

    Sindacato e Imprese, invece, hanno inseguito, nella fase immediata del post sisma, una fantomatica Zona Franca Urbana che, secondo la Legge per la Ricostruzione della città del 2009, avrebbe dovuto rilanciare l’economia e l’occupazione a L’Aquila, senza neppure accorgersi della totale inadeguatezza e sfasatura dimensionale della misura (che era stata pensata dall’Europa per quartieri di aree urbane ad elevato disagio sociale), che infatti non ha dato risultati. Non vi è stata alcuna attività vertenziale specifica, significativa, da parte delle Organizzazioni Sindacali, e capace di mobilitare e rappresentare la popolazione, per affrontare il complesso delle questioni legate alla ricostruzione, se si eccettua il tentativo di declinare, in termini locali, le mobilitazioni nazionali o la riproposizione, sul cratere del sisma, di Protocolli d’Intesa, sperimentati altrove, per il rispetto della Legalità e dei Contratti, nel settore dell’Edilizia. In questo senso, vi sono risultati contraddittori; positivi sino ad ora sul piano della prevenzione degli infortuni, quando invece i cantieri sono caratterizzati da forme generalizzate di elusione dagli obblighi contrattuali; partendo dall’inquadramento dei Lavoratori, quasi tutti classificati come manovali edili nei livelli più bassi dei contratti, passando per i falsi part-time e finendo con un sistema diffuso di neo partite IVA, che nascondono subappalti oltre i limiti di Legge, e lavoro a cottimo.

    Nonostante gli innumerevoli convegni e i documenti sottoscritti e le Piattaforme rivendicative scritte, nella realtà è totalmente mancata, e manca, una idea condivisa di futuro per la città, capace di veicolare azioni strategiche, coordinate ad ogni livello, per inserire L’Aquila in un circuito europeo di città, di media dimensione, innovative e sostenibili. Per porre a fattor comune le tanti iniziative lodevoli, ma isolate, che in ogni campo si sono affacciate in città in questi anni. Il vero “capitale fisso”, da impegnare per la competitività di L’Aquila, che non ha mai avuto massa critica in alcun settore, è il suo intero sistema territoriale, col suo ambiente che non dovrebbe essere degradato ma caratterizzato dall’uso di tecnologie a risparmio energetico e intelligenti in ogni campo; capace di coniugare bellezza e storia con la ricerca e di sviluppare e mettere in relazione positiva e dinamica tra loro le intelligenze e i saperi diffusamente presenti, anche sul piano artistico e culturale. Una città “connessa”, dentro un nodo di reti materiali e immateriali sulla frontiera delle tecnologie. Sarebbe doverosa un’azione mirata a consolidare il patrimonio di pratiche e progettualità e tecnologie poste in essere nell’intervento sul patrimonio edilizio storico e di rilievo artistico, perché sia esportato dalle imprese del territorio in interventi di prevenzione auspicabili e oggetto magari di specifici programmi di finanziamento nazionale ed europeo,  per l’intero Appennino almeno, e per il suo fragile edificato, patrimonio identitario dell’intero Paese, ma a forte rischio sismico ed idrogeologico. Ma l’Assessorato alla Cultura del Comune di L’Aquila, con la sua attuale Giunta di Destra, s’occupa di carri di Carnevale, ad esempio, o di luminarie natalizie, a sottolineare la passione provinciale per tutto quanto non abbia a che fare con il progresso della Città. Le massime espressioni sportive della città che, nel calcio e soprattutto nel rugby, avevano raggiunto traguardi di assoluto rilievo in campo nazionale, militano mestamente nelle serie minori, senza reali supporti finanziari, senza nessuna relazione di rilievo col sistema delle imprese intervenute per la ricostruzione della città e senza vere prospettive di futuro. Mentre la città è stata disseminata di palazzetti dello sport, e di impianti sportivi, oggetto di donazione anche da paesi stranieri, senza che per nessuno di essi possa essere data una forma di gestione, pubblica o privata, economicamente sostenibile.

    La misura di sostegno all’economia, individuata infine dal Governo di Centrosinistra, dopo un percorso di concertazione che ha tenuto insieme Parti Sociali, Enti Locali, Associazioni Professionali, Università, è stata quella di destinare, tramite delibere CIPE, a specifici progetti d’intervento, sull’intero cratere colpito dal sisma, e sull’economia regionale, il 4% del totale dei fondi erogati per la ricostruzione. Una misura che il Territorio ha però interpretato come una nuova forma deresponsabilizzante d’intervento straordinario a fondo perduto; andando a ripianare i debiti dell’Azienda municipalizzata locale che si occupa delle funivie del Gran Sasso, tra l’altro. Sono stati sostenuti progetti di Grandi Imprese, che comunque sarebbero stati posti in essere, e che non hanno prodotto incrementi occupazionali (forse qualche stabilizzazione di rapporti precari già esistenti), ed è stato varato uno specifico programma di incentivazione al reinsediamento di attività nel Centro Storico di L’Aquila, che ha avuto, quale sostanziale risultato, il sostegno alla rendita improduttiva dei proprietari di abitazioni ed edifici, che hanno potuto mantenere, per questa via, innaturalmente alti gli affitti degli immobili.

    E’ emerso in città il settore dei call center in outsourcing che occupa oggi stabilmente oltre il migliaio di persone (e quasi altrettante in forma precaria), anche grazie alla dinamica innescata dalla positiva soluzione industriale e occupazionale che il Sindacato è stato capace di dare alla chiusura, decisa a causa del terremoto, dell’unica azienda allora presente a L’Aquila. Pare, oggi, quasi capace di sostituire in termini sociali e dimensionali quello che rappresentava l’industria, anche per la massiccia presenza di occupazione femminile, generando però inedite contraddizioni, date dai salari, bassi in genere, anche per l’uso diffuso del part-time e dalla sottoutilizzazione delle risorse di conoscenza del territorio, per l’esplosivo contrasto tra professionalità richieste, tutto sommato non alte, e titoli di studio degli occupati, che sono come minimo diplomati, con una larga presenza di laureati. Il settore è in sé strutturalmente fragile, per la scarsa propensione delle imprese all’innovazione tecnologica e per l’esposizione di ogni singola azienda ad una concorrenza, anche internazionale, tutta giocata sul costo del lavoro, senza che vi siano regole davvero cogenti di tutela dei diritti e dell’occupazione, nel susseguirsi di appalti e subappalti che lo caratterizzano. Restano un presidio forte le aziende del settore Chimico-Farmaceutico e quelle dell’elettronica per lo Spazio e per le Telecomunicazioni della Difesa, che hanno superato i processi di riorganizzazione degli anni passati. Così come, insieme all’Università, al Conservatorio, resta l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso e il Gran Sasso Science Institute, costituito dopo il sisma, ancora grazie all’impegno del Ministro Barca, a sottolineare la vocazione cittadina a scommettere sulla conoscenza, che meriterebbe molto più che il sostegno spesso proclamato, solo a parole, da politica ed istituzioni. Così come un punto di forza del Territorio appare essere, nonostante la grande difficoltà del vivere quotidiano, la volontà dei cittadini a non abbandonare L’Aquila, a non andar via, che non è inerzia ma scelta identitaria.

    La città non riesce, però, a costruire una relazione positiva di integrazione con le sue frazioni e col suo bacino vasto di comuni minori, la cui crescita armonica, invece, sarebbe garanzia di progresso proprio per il capoluogo di regione. Né sono cessate tensioni tra il sistema imponente di Aree Protette e Parchi naturali che caratterizza la città di L’Aquila, oltre che la sua Provincia, in relazione diretta con le province vicine anche del Lazio e del Molise, e nuclei di interessi diversi che scaricano la frustrazione della crisi economica, e ricorrenti tentazioni speculative, sui vincoli di tutela del territorio, che non si trasformano mai in occasioni di crescita. Forse, la dinamica che ha investito la città col sisma può essere letta anche evidenziando i dati raccolti dal Centro per l’Impiego di L’Aquila, che serve l’area che va, più o meno, da Montereale a Capestrano, dove vivono circa 106.000 persone (Censimento Istat 2011), e che coincide sostanzialmente con il cratere del sisma del 6 aprile 2009. Occorre precisare, però, che il dato del 2018 è raccolto con criteri diversi da quello del 2009, poiché, ad esempio, nel 2009 era considerato disoccupato chi avesse meno di otto mesi di lavoro nell’anno ed entro una certa soglia di reddito; mentre nel 2018 occorre restare sotto la soglia dei sei mesi di lavoro, nell’anno, per essere considerato disoccupato. Questo implica che, se si raccogliessero i dati oggi con gli stessi criteri del 2009, essi vedrebbero numeri ancora più alti di quelli che già appaiono. Nel 2009 gli Iscritti al Centro per l’Impiego erano 16330, di essi 782 erano stranieri comunitari e 1264 erano stranieri extracomunitari: gli stranieri complessivamente, erano il 12,52% degli Iscritti totali. Nel 2018, gli Iscritti al Centro per l’Impiego di L’Aquila sono divenuti 23650, di essi 2271 sono stranieri comunitari e 2394 gli stranieri extracomunitari; complessivamente, gli stranieri Iscritti, rappresentano oggi il 19,72% degli Iscritti totali. Tra il 2009 e il 2018 il numero complessivo degli iscritti al Centro per l’Impiego è cresciuto di 7320 unità; una crescita di oltre il 44%, rispetto al dato di partenza (pur se le basi di riferimento sono diverse), che non può essere imputata integralmente a ragioni demografiche, ma che sconta invece una marcata tendenza migratoria alla quale gli stranieri concorrono con un incremento percentuale delle presenze di circa il 128% (per gli italiani l’incremento è del 33% circa), rispetto al dato di partenza. Il 50% circa degli Iscritti al Centro per l’Impiego è donna; nel 2009, lo era il 55% degli Iscritti.

    I movimenti nel mercato del lavoro, per grandi agglomerati, consentono un confronto più omogeneo dei dati: nel 2009, all’inizio della crisi economica, gli avviamenti al lavoro, erano stati 17126; nel 2018 sono stati 25921, con un incremento percentuale del 51% circa, e mentre nel 2009 gli avviamenti al lavoro con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato erano 5022 (il 29 % circa del totale), nel 2018 sono stati di nuovo 5022 (che però ora rappresenta il 19 % del totale). E se si tiene conto del fatto che in edilizia, normalmente, si viene avviati al lavoro con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, che non impedisce i licenziamenti per fine cantiere o quando a dicembre il maltempo rende quasi impossibile lavorare all’aperto, e se si considera la dimensione certo preponderante a L’Aquila del particolare mercato del lavoro edile, si può supporre che l’area della precarietà lavorativa interessi ormai quasi totalmente ogni assunzione che viene fatta. Nel 2009, le cessazioni dei rapporti di lavoro, ad ogni titolo, erano state 9775, segnando un saldo positivo per gli avviamenti, di 7351 unità; nel 2018 le cessazioni sono state 26154, segnando un saldo negativo di 233 unità (vale la pena qui, sottolineare che nel 2017 gli avviamenti al lavoro erano stati 35753, e le cessazioni 30778, con un saldo positivo a favore degli avviamenti, di 4975 unità).

    Sembrerebbe quindi che, a L’Aquila, in un quadro grandemente accresciuto di disponibilità, e quindi di concorrenza tra soggetti deboli, i movimenti sul mercato del lavoro siano estremamente veloci; pronti a registrare quasi in tempo reale l’efficienza e l’efficacia, e la quantità, della spesa per la ricostruzione e sottolineando così, anche per questa via, l’avvenuta trasformazione del lavoro, e dei Lavoratori, in una merce al pari delle altre, della quale ci si approvvigiona quando serve e che si dismette, senza alcun problema, appena un attimo prima che rischi di generare qualche appesantimento nei conti aziendali. In questi dieci anni la peculiare declinazione italiana della “flessibilità”, a L’Aquila, mostra sia una pressione migratoria, di italiani e di stranieri, che col compiersi dei processi di ricostruzione si allenterà in larga parte, generando nuove problematiche a cui oggi non ci si prepara (dal decremento del numero degli alunni, allo svuotarsi di strutture ricettive per il vitto e per l’alloggio, ad esempio), che un’inedita impossibilità a pensare le proprie vite in termini di progetto, travolti come si è dall’alternarsi di contratti a termine, in varie forme, e periodi di disoccupazione, in una città dai marcati tratti di alienazione urbana.

    Avrei voluto che L’Aquila fosse riuscita ad individuare un luogo, nel suo territorio comunale, dove piantare 309 alberi, perché fosse possibile un ricordo vivente delle vittime del sisma del 6 aprile 2009. E’ in corso invece una procedura che individui un possibile “monumento ai caduti”: perché ancora L’Aquila non ha trovato il modo di dare una strutturazione degna al lutto e alla memoria; ma io non penso che un cippo di cemento possa essere il modo migliore per ricordarci che la vita deve convivere con una natura che ha i suoi ritmi, e le sue scosse; per stimolarci ad essere migliori, quando vogliamo provare a prevenire disastri naturali, che sono probabili anche nel futuro, e che ci permetta di sognare che la vita delle vittime possa essere condotta oltre i limiti del tempo. Forse, per ricordare e onorare davvero le vittime del terremoto aquilano, che erano italiane e straniere, giovani e adulte, bambine e anziane, sarebbe importante provare ad essere migliori, come comunità. Ma per davvero!

     

     
  • L'altra Italia

    La corsa di Luisetta, sette anni dopo il terremoto


     

    Comincio da qui. Quasi all’incrocio con la strada per Pizzoli. In salita, da Cansatessa verso L’Aquila. Ho il sole negli occhi, che è già alto; me la sono presa comoda, stamattina. Sono le otto e mezzo. Ma, oggi, per me, è un giorno importante. L’hanno ridipinta di viola, quella casa. Di sicuro è una scelta scaramantica. Non lo sapevo che, tutta quella terra libera, l’avessero riempita di materiali per l’edilizia. Sembra un accampamento sporco. Recintato. Dentro ci sono anche i prefabbricati, come se già volessero iniziare a costruire, anche qui, che ci giocavo col mio cane, prima.



    Ci devo riuscire. Stamattina, è la prima volta, che ci provo, dopo sette anni, precisi. Sono venuta qui, ad iniziare da qui, perché ci abitavo, qui. In quella casa dietro questa recinzione a maglie di ferro, e pali. Anche da questa parte, un magazzino di materiali da costruzione all’aperto; là, in alto, luccicano le cime dei camini, che vanno a vento, per disperdere il fumo, in attesa d’essere montate, da qualche parte. Sembra tutto provvisorio, qui. Da qui sotto, se guardo in alto, vedo la collina, in controluce, quasi, perché il sole è nato più a destra; e le case, a sinistra, delle mie amiche. Case basse, con i cortili di pietra e asfalto, e i garage.



    Voglio correre. Voglio provare a correre.



    Sono stata sette anni quasi ferma. E ho messo anche qualche chilo su. E lo voglio perdere. Ho le mie scarpe da ginnastica nuove, i calzettoni corti, che quasi non si vedono. I pantaloncini. E le mie gambe. La cicatrice lunga, sul ginocchio sinistro. E quell’altra, dalla caviglia destra per quasi tutto il polpaccio, dietro. Che sembra che ho una gamba più magra dell’altra. Forse dovrei dire, meno grossa. Il riverbero, della luce, mi annebbia lo sguardo. Ed è così, se mi guardo indietro.



    Quello che mi resta addosso, è solo la voglia di cancellare via tutto. Anzi, di farla finita proprio. Chi sa se, in fondo al tunnel, la luce che si vede è proprio questa. Vorrei non ricordare più nulla. Vorrei smettere di pensare a tutte le possibilità che non ci sono più. Vorrei non avere avuto più nessun amico. Così non avrei sofferto così tanto a vederli scivolare via, in questi anni, in questi mesi. Così non mi sarei sentita più questo nodo in gola, per il silenzio, perché nessuno più mi cercava. Perché ero sola, e dimenticata. Qualcuno si ricordava di me una volta l’anno, più o meno, al compleanno, o ieri. Adesso sono io, che voglio ricordarmi di me, anzi, che voglio vedermi per la prima volta.  



    Adesso, respiro forte e parto. Parto in salita, piano piano. Sembra un ponte sospeso, questa strada. Che arriva fino in cima e poi si ferma, e si perde tra le altre case, o, forse, tra gli alberi della collina, lì davanti. Come quando, guardavo la collina di Pettino, dalla stanza dell’Ospedale. Separata da me, lontana, inaccessibile. E ora invece ho la strada sotto i miei piedi. Vado. Ecco, i primi passi. Le gambe mi sostengono. I piedi mi sembrano abbastanza elastici. Anche se mi pare quasi di correre sul posto. I muscoli mi sembrano sorpresi. Sento subito la pressione sui glutei. No, non è l’elastico delle mutandine. Mi sono messo le mutandine bianche di cotone della nonna, stamattina, grandi, comode.  No, sono proprio i muscoli. Dei glutei, che si stringono. Come se camminassi col culo stretto. Le lamiere degli spazi elettorali, sull’altro marciapiede. Riflettono il sole. Vuote. Un manifesto solo c’è.



    Il 17 aprile, vota Sì, al Referendum. Ammirevole, chi ce lo ha messo. Uno solo nel deserto.



    Ecco, guarda. Sono arrivata all’incrocio. Sono su, e ancora non ho il fiatone. Giro a destra. Lascio via Fleming. Sotto di me, la poca strada che ho fatto, sembra lunghissima. C’è una balaustra metallica, e le case sotto. Che schifo questo asfalto. Buche, avvallamenti, tonfi, pezze, pietre sparse, brecciolino. Sembra il fondo del Raio. Detriti ammucchiati. Il marciapiede, è peggio. Come se sotto l’asfalto ci fosse l’acqua che bolle. In mezzo a queste casette basse, col cancello sulla strada, e qualche alberello dentro. Arbusti, e intonaco ocra. Mi fa un po’ male la schiena. Guarda. La chiesa di Cansatessa, tutta di legno, rifatta, persino col campanile di legno, qua sotto. E le tegole finte, di catrame sagomato, e le finestre grandi per la luce.



    Non sentiva più i colpi del peso del mio corpo la schiena, da un sacco di tempo, davvero. Piazza d’Armi non era ancora una tendopoli, quando ci correvo io. E, pure la, le radici degli alberi gonfiavano di bitorzoli la pista d’atletica. Qua alberi non ce ne sono più, ma è tutto rigonfiamenti e vuoti, il terreno, che devo stare attenta. Se metto il piede nel posto sbagliato mi rovino di nuovo i tendini. Ci sono ancora spazi vuoti, tra le case. Pezzi incolti di terra arruffata.Che non diventa ancora un palazzo, e non diventerà mai un verde pubblico, Un poco di ossigeno. Devo bere il mio primo sorso d’acqua. Ho le labbra secche, e anche il palato, e la lingua.



    Quanto tempo è che non bacio più nessuno?



    Ci aveva provato un pomeriggio, Matteo. Ma io non volevo che baciasse una seduta su una sedia a rotelle. Neanche fossi Clara! Io non volevo pietà. Mi sembrava che mi guardasse impaurito. Come se fossi un mostro. Piangevo, poi dopo. Da sola. Dopo che lo avevo mandato via. Sono belli quegli alberi con i fiori bianchi, dentro il sole, sembrano scintille. Sembrano muoversi. Fanno talmente tanta luce che non si vedono i rami, solo una polvere luminosa, lampi. Chi sa se sono ciliegi, o mandorli. Sarebbero belli, degli alberi da frutto, lì, in mezzo alla città dimenticata. Ci andrebbero uccelli e bambini a raccoglierli, che bello.



    Corro in alto, rispetto al tetto delle case, a destra, in basso, il vento lo sento. E guardo le erbacce che crescono sui bordi del marciapiede, e lo sbriciolano. Si vede il profilo delle montagne, lontano. Un’ombra più scura, sotto il cielo scaldato dal sole. Fa caldo, stamattina. Il guardrail. Devo stare attenta a non inciampare, a tenermi dritta. Qui è tutto arrugginito. Là sotto ci sono enormi prati verdi. Tra la strada per Montereale, e quella della Guardia di Finanza. Perché ancora non ci costruiscono? E’ strano. Ma sarebbe pure bello, se restassero così. Magari ci coltivano qualcosa. O ci si potrebbe passeggiare dentro.



    Visti da quassù sembrano una splendida possibilità. Di aria libera, e giochi.  E forse qualcuno ci farà un altro po’ di cemento sopra. Che ce ne abbiamo bisogno. Ci manca. Il fiato, mi sembra ancora di avercelo. Mi fa un po’ male, dentro la scarpa, l’alluce sinistro. Come se fosse rigido, e facesse fatica a piegarsi. Però se non ci penso, posso andare ancora. Una breve piazzola interrompe il guardrail, c’è un ponteggio, che fa da balaustra, spezzato, tenuto insieme da un telo bianco, che ne unisce due bracci.  Se mi avvicino li e mi appoggio, cado sul tetto della casa più vicina. Ancora prato, e pezzi di Coppito, là giù in fondo, forse. Certo che ancora non la imparo davvero questa città. La conosco solo camminandoci dentro. Dall’alto non l’ho mai vista. Da sotto, sì, però.



    La prima gru. E’ bassa, rispetto alla strada dove sono, quasi corro lungo il suo braccio trasversale, che, contro la luce del mattino, è un’ombra di traliccio, che unisce due pali della luce, in prospettiva sfalsata, lungo la strada che curva a sinistra. E cime scompigliate di alberi polverosi, soffocati tra i muri perimetrali delle case. Si riapre, la strada con una piccola curva a destra. Sento un accenno di fiatone. Ma respiro con la pancia, profondamente, anche se è difficile, correndo. Riprendo a respirare col naso, e la bocca chiusa. Mi asciugo un po’ di sudore. Sì, col manico della felpa. Nello zainetto, dovrei avere anche l’asciugamano. Ma, magari, lo uso dopo. Me lo sento sbattere sulla schiena, lo zaino. Non mi fa male, sulle spalle, non mi tira. L’ho messo bene.



    Questo enorme palazzo di cemento e mattoni grigi, visto attraverso questa cancellata a quadretti metallici, sembra tutto storto. Ingabbiato dentro i rettangoli dei ponteggi, fino al settimo piano.  Sembra un gioco con i mattoncini da bimbi. Per terra, le foglie secche si mischiano con l’erba verde. Come le case nuove, quelle ricostruite, e quelle ancora in cantiere si alternano alla vista.



    E corro, ancora. Incredibile. Ci passo sotto, a quest’albero, colmo di fiori bianchi sui rami. Mi sembra di sentir scricchiolare la casa a fianco. Metà in piedi, già fatta e finita, anche se vecchia, e l’altra metà, fatta solo di travi di cemento armato, e piloni, vuoti e aperti nel cielo, senza mattoni che ancora li chiudono. Sospesi, come un disegno che nasce dal niente.



    Passo l’incrocio che scende giù al centro commerciale, e continuo a correre. Lo so, che vado piano, ma io ieri, a quest’ora, ero ancora in sala d’attesa in palestra, per la fisioterapia. Per fortuna che le depilo le gambe. Così non dovevo nascondermi. E neanche ora. Sull’asfalto le ombre vengono da sinistra, e fanno strani disegni, per terra, che si mischiano coi profili delle buche. C’è una edicola, sul muro. La Madonna. Un altarino di pietra e l’intonaco scrostato. Chi sa quando l’hanno fatto, quel dipinto.  E c’è ancora verde, a sinistra, ma è recintato. E’ nudo. Perché non ci fanno un boschetto qui?



    Ci piantano 309 alberi. Sarebbe un bel monumento, credo. Vivo.



    Quella casa laggiù sembra rossa, contro la collina. Il sole, quasi cancella i colori, Sembra di guardare uno sfondo del Beato Angelico.  Corri, Luisetta. Corri. Corri ancora, che ce la fai. Ci sono alberi che sono ancora solo corteccia e rami disegnati di nero contro il cielo e la luce, da qui, non si vede, se ci nascono già foglie, o no. Se per loro è ancora inverno, o già morte.  Si sente una sirena d’allarme, da qualche parte. E odore di automobili che corrono.



    Ah, ma l’hanno dipinta quasi rossa, arancio, e quella era la casa di via Dante Alighieri, spezzata in due. Mi ricordo le foto, di quella casa. Io non ci sono mai venuta, a vederla. Sembravano le mie ossa, uscite dalla carne, i ferri del cemento piegati, che tenevano insieme abbracciati i pilastri spezzati, che avevano inghiottito un piano di quella casa. E ce ne erano altre di case così, lungo quella via. Mi pare ricostruito qui. Anche se il verde intorno, sembra sempre una terra abbandonata e schifata da tutti. Che peccato. E palazzi.



    Mi fanno male le costole. Ma non è come sette anni fa, che non respiravo.



    E’ un dolore più di muscoli, anche se è nelle ossa. Come se facessero fatica a tenermi dritta. Sì lo so, che sono stata tanto seduta. Qui prima c’era un negozio di divani, mi pare, e adesso, ci si mangia. La gru, in cielo, sembra un indice puntato contro un orizzonte che non si vede.



    L’intonaco di quella vecchia casa in pietra, tutta ingabbiata dentro pesanti travi di ferro, sembra sangue sbiadito e rappreso che scolava tra le ferite. Mi pare tutta storta, in pendenza, come la salita lieve di via Antica Arischia che sto percorrendo. Adesso sì, che respiro un po’ con la bocca. Ancora acqua. E là sotto, sta venendo su un altro palazzo. Le impalcature mi sembrano celesti, e dentro, si vedono le armature di legno dove si cola il cemento e il ferro. Sporgono, in alto, i ferri. C’è un pino marittimo, qui a Pettino, con i rami tutti tagliati lungo il fusto, e resta solo qualcosa in cima. Li hanno tagliati tutti gli alberi qui. Lungo la strada sembra che ci siano rimasti solo cespugli e arbusti disordinati, rovi. Neri di gas di scarico.



    Dai, Luisetta, ancora un poco.



    Qua è pieno di prati recintati. C’è solo questa strada, in mezzo, e qualche strada trasversale, ad angolo retto, e poi case, e palazzi, circondati da mura e cancelli, e cortiletti smilzi. Non c’è nessuna piazza. Quasi. Niente comunque, che somigli a piazza Duomo, per esempio. La sotto, c’era il bar. Aveva riaperto subito, dopo il terremoto. Aveva riaperto nella piazzetta lì vicino, mi ha raccontato mio fratello, sotto dei gazebo. E dei prefabbricati.



    Durante il G8, a luglio del 2009, era l’unico bar aperto qui. Mi ha raccontato, mio fratello, che fuori c’era un cartello che spiegava che, dentro, era aperta la sala delle slot machines, con l’aria condizionata. I palazzi, visti da qui, arrivano con i tetti sin quasi sulla cima della collina, e la nascondono alla vista, che, col riverbero del sole, la fa somigliare ad una specie di parrozzo mal riuscito, tutto precipitato da un lato.



    Sono quasi arrivata. Forza.
    Eccone un altro, di scheletro in cemento armato. Sembra uno di quei disegni di case che facevo da bambina alle elementari, quando non riuscivo neanche bene a seguire, col pennarello, i bordi dei quadratini del quaderno. Certo che costruiscono strano. Sotto è tutto aperto, e sopra, c’è una specie di sottotetto, già chiuso di mattoni e intonacato. Ma forse c’era una casa, prima, e la stanno allargando. Non lo so.



    Ancora non incontro nessuno, che cammini a piedi. Chi sa che penserebbe se mi vedesse correre così. Mi tira la gamba, dietro. Dove c’è la cicatrice. Come se ci fosse una corda dura. E me la sento che mi fa male anche all’inguine. Per dirla tutta, il ferretto del reggiseno mi sega la pelle. Col sudore poi, me la sento tutta sfregata e rossa. Quasi quasi me lo levo, il reggiseno. Tanto non c’è nessuno.



    Ecco. La mano dietro la schiena, lo slaccio. Alza il braccio, spostalo, sfila la spallina, da sotto la maglietta, e l’altra. Via. Eccolo. Lo appallottolo, lo infilo nello zaino, sono libera. Che bello. Mi ballano, le tette, mentre corro. Fa’ niente. Il massimo che mi può succedere è che qualcuno mi guardi. E’ da tanto, che non mi guarda nessuno. “Monarvap” che vuol dire? Sta su quella plastica gialla che avvolge un pezzo di casa, che cresce, sul fianco dell’altra. Circondata da una recinzione di plastica arancione e metallo. Guarda lì.



    Lì, prima, c’era una casa di pietra tutta diroccata. Ne sono sicura, me lo ricordo. Adesso stanno costruendoci sopra una casa di due piani almeno. Tutta di cemento. Ma si può? Ecco la scuola. Il cancello di metallo chiuso. I mattoncini tutti ancora per terra. Crepata, la scuola. Non credevo stesse ancora così. E’ rimasta in piedi, ma sembra tutta scossa, per terra c’è di tutto. Meno male che non c’erano bambini dentro. C’è un manifesto del Comune, a fianco, magari inizierà un cantiere di ricostruzione. Non l’attraverso, la strada, per andare a guardare. Penso solo che già avrebbe dovuto essere stata ricostruita.



    Ci sono due gru, in quel cantiere, in alto a sinistra. Ecco, la prima persona che vedo camminare, un signore coi capelli bianchi, vicino alla fermata del bus. Pensa ai fatti suoi, non mi guarda. E, dietro, un altro cantiere di un palazzo, enorme. Di ferro e legno. Le impalcature quasi coprono il sole. Di fronte all’altra scuola, più in alto. Tutta di cemento, gialla, rimasta in piedi. Le finestre sono aperte, le lezioni sono già iniziate, sicuro. E’ tanto, che non ci vado più a scuola, io. Quanti anni sono che ho finito lo Scientifico? Dieci?



    Quasi ce l’ho fatta.



    Ancora un pezzetto, la salita è leggera, ma continua, sembra sempre tutto in salita; faccio fatica. Mi fa male tutto adesso. E respiro forte, con la bocca, che è secca, arsa. Lì, sull’angolo, c’era un pezzo della chiesa. Adesso, hanno fatto un muro elegante, e due grandi finestre, che danno luce, una per piano.



    Lì sotto c’era il call center, in quel palazzo. So che c’è ancora, o forse ce ne sono due adesso, non so. Quando sono uscita dall’Ospedale, però, ci sono passata, e c’era una enorme fessura a terra, sull’asfalto. Aperto proprio. Uno squarcio lungo quasi tutto il piazzale, e che piegava, ad un certo punto. Adesso non c’è più, mi pare. E il palazzo di fronte è ancora lì, fermo, con quella ferita che va da un angolo della parete, a quella opposta, per tutti e due i lati. Disegnando quattro triangoli incerti, e assurdi, uniti per la punta, lungo la parete. E’ ancora così. Chi sa che fanno, le persone che ci abitavano. Sono arrivata. Basta. Mi fermo. Proprio sull’incrocio. Con questa strada che scende giù. Bagnata di sole. Ripida. Ci posso camminare, per riprendere fiato, in discesa. Mentre mi asciugo col telo, di spugna.



    E’ sette aprile, Luisetta, sette anni fa, oggi ti hanno estratto dalle macerie di casa tua. E oggi, dopo sette anni, ti sei fatta la tua prima corsa. Sette anni di ferite, e di fatica. Di ossa ricostruite, e di solitudine. Anche il tendine, s’era rotto. Certe volte, i numeri ci giocano, con la vita delle persone.



    Dentro il traffico, sento qualche passero cinguettare. Il sudore mi scola dalla faccia. Forse qualche lacrima. Salata. Ciao, Luisetta.
    Buongiorno.    



     
     

     

  • Storie fantastiche dal cratere aquilano. L'ospite


     
    Del sole restava un riflesso rosa ferro sulle nuvole, lontane, fin dove lo sguardo si fermava sulla montagna alta.La sera era diventata fredda e le ombre allungavano il buio.
     
    Hebib sistemava dei rametti secchi, sopra la paglia gialla, poggiata a terra, dentro un cerchio di pietre bianche, annerite dal fumo. Stava per accendere il fuoco della notte. Accanto a sé, aveva delle piccole cataste di rami. Separate tra loro; di spessore e pesantezza crescenti.
    Prese un fiammifero dalla sacca di tela sformata che teneva a tracollo, lo accese, e lo tenne nel chiuso delle mani, per ripararlo dall’alito che scendeva lungo tutto il pianoro, andando ad infrangersi verso la collina sassosa, sulla destra. Il fuoco rosso, iniziò a bruciare gli sterpi, e poi, con leggeri schiocchi anche i piccoli pezzetti di legno, lentamente, piegando la fiamma al vento serale, che dalle cime cadeva verso valle, come un respiro che riposava.

     
    Hebib avvicinava le mani al fuoco, sentendone il calore leggero. E, con attenzione, iniziò a posare sulle prime piccole braci, dei rami più consistenti, facendo attenzione a che non soffocassero, le fiamme quasi invisibili, dello stesso colore del tramonto, che s’alzavano veloci dal cerchio di pietre.
     
    Il fuoco, ora, era più alto, e attirava i grossi cani bianchi, dall’espressione severa, massicci, che, fino a quel momento, erano rimasti fermi, stesi sulla terra, pensosi, a guardare da lontano le pecore ammassate vicino ad una casa di pietre grigie, di cui si vedeva solo una parete alta, tutta compatta e chiusa, fino ad una piccola finestra posta al centro, in alto, quasi al congiungersi delle due linee del tetto. E dietro la finestra si vedeva il cielo scurirsi; dietro la parete, infatti,  altre mura erano crollate; private di ogni sostegno, dal tempo che le aveva lasciate sole, senza più abitanti, quelle case. Si leggeva su un muro di ingresso, scritto con una vernice nera, l’Anno del Signore, milleottocentosettantuno.
     
    Hebib, chiuse gli occhi, e, per la prima volta, dall’alba di quel giorno, sentì i singoli muscoli del proprio corpo. Ne avvertiva la presenza dal dolore. Quello della fatica che si è fermata. Che ha smesso di camminare e correre dietro gli agnelli. Di guardare se i piedi avessero disturbato serpenti. Quello delle salite nel sole, e nel silenzio assoluto e scuro del Fosso senza fondo.
     
    Uno dei cani, iniziò ad abbaiare. Ed Hebib riaprì subito gli occhi.
    Sapeva che in alcune di quelle case lì intorno, vuote e nude da decenni, i cavalli andavano a rifugiarsi quando era maltempo, e quel pavimento, trasformato in un ammasso di letame, talvolta era stato il letto di qualche orso. Se ne vedevano i peli in giro, lasciati sugli angoli di pietra a marchiare il territorio, e in quel letame, la fossa dell’orma del corpo steso, ogni tanto.
     
    Hebib alzò allora lo sguardo.
    Dal pendio della collina, in controluce sul tramonto, scendeva, incerta, l’ombra di un uomo. Di cui non poteva distinguere i lineamenti. Mise una mano sugli occhi, per difendersi dal riverbero, e capì che non poteva essere il suo padrone.
     
    L’uomo camminava piano, come se ogni passo poggiasse su una terra in movimento; un mare di onde mai ferme. Hebib chiamò a sé tutti i cani. E ne fermò l’evidente intenzione a slanciarsi contro l’uomo che arrivava.
     
    -       Chi sei, tu ? - Chiese Hebib.
    -       Il mio nome è Cosimo. – Rispose l’uomo.
     
    Cosimo indossava un vecchio giubbetto militare di panno, che conservava l’impronta delle mostrine, e dei gradi, ora strappati. Lacero, senza un paio di bottoni. E pantaloni consumati, sulle ginocchia, e all’orlo, logorato dallo sfregare in terra, camminando. E vecchi anfibi neri ai piedi, di cuoio liso dal tempo e dai passi. Senza più colore, in punta.
    Doveva avere poco più di una quarantina d’anni, Cosimo; la barba incolta, sotto il mento, stava riempiendosi di peluria bianca, come le tempie, rasate. Le labbra erano piene, carnose, e ben disegnate, sotto un naso dritto, quasi affilato, magro.

     
    Le sue mani, erano secche, nervose e forti. Segnate da vene pronunciate e tendini tesi; chiuse a pugno, come a contenere una continua tensione che non trovava requie.
    Hebib capì, dalla polvere che Cosimo aveva indosso, dalle macchie verdi sui pantaloni e sul giubbetto, che l’uomo che aveva davanti doveva aver camminato molto, e che doveva anche esser caduto, camminando. O che, forse, s’era riposato, stendendosi sulla terra nuda.
    E capì anche ch’era inquieto.
    Cosimo si muoveva guardandosi intorno, e dietro. A scatti, come se s’aspettasse, da un momento all’altro, un pericolo, incombente, inevitabile. Necessario.
     
    Hebib invitò Cosimo a sedersi, accanto a lui, vicino al fuoco.
     
    -       Dimmi, e dimmelo veramente. Ma, come mai, arrivi qui, di sera, da solo? Da dove    provieni? Chi è la tua famiglia? –
    Così, gli chiese Hebib, guardandolo negli occhi, come se questo potesse consentirgli di ricevere una risposta sincera.
    -       Mi chiamo Cosimo, ti ho detto. Ora, mi vedi in mezzo ai monti, ma, un tempo, io ero un marinaio; ero il nocchiero della nave su cui ero imbarcato e solcavo i mari, scuri come un vino buio e bianchi talvolta come un anziano arrabbiato, di ogni mondo. E non avevo paura della notte, e le stelle mi erano amiche e consigliere, nella rotta, più degli strumenti di bordo.
    Ed ogni porto, dove io mi avvicinassi alle riparate sponde, e trovassi rifugio dai venti del nord, era la mia casa. E ad ogni porto io cercavo la mia dolce madre, mai conosciuta, e per lei acquistavo doni. E un giorno, quando l’avessi trovata, glieli avrei consegnati, quanti ne avevo ammassati, se il dio degli oceani, che scuote la terra con i terremoti del suo tridente, non mi avesse un giorno rovesciato la sorte.
    La nave sulla quale viaggiavo, al largo dell’isola di Creta, venne colpita da una orribile tempesta. Le onde erano più alte delle murate della nave, e la prua affondava sempre più dentro l’acqua, tentando di cercare una direzione che la salvasse. Ma la furia del mare si abbatté su di noi, come un grifone su un agnello. E, prima, staccò i container che trasportavamo, dai loro alloggiamenti sul ponte della nave, e poi li fece correre portati dall’acqua, fino quasi a staccare, per i colpi terribili, il castello di poppa, provocando schianti più forti del tuono. Fu scosso e liberato anche il carico contenuto nella stiva, che arrivò a squarciare la chiglia, e a trascinare a fondo la nave, in un enorme gorgo che inghiottì tutti gli altri marinai, uomini come me, e miei amici, che mai più avrebbero rivisto le loro terre, e le loro famiglie, fino a sciogliergli le ginocchia e il cuore, uccidendoli

    .
    Forse fu una dea pietosa, che mi fece galleggiare, aggrappato ad un relitto di legno, non so quanti giorni, e notti, senza mangiare o poter bere, fino ad essere lasciato, inerme e senza conoscenza su una spiaggia sconosciuta. Di sabbia bianca, sulla quale si riversavano le acque dolci e fresche di un piccolo fiume.

     
    Io ero praticamente nudo, e coperto di salsedine e alghe, quando un gruppo di ragazzi mi ritrovò. Loro giocavano a palla, e gli volò via, la palla, col vento, fino a me, nascosto dietro un cespuglio. Vergognoso e ferito, e senza memoria, salvo che del mio nome.

     
    Mi portarono nella casa del più grande tra loro; mi presenteranno alla sua famiglia, e, credo, raccontarono al capo famiglia, come mi avessero trovato solo e sudicio, e mi permisero di fare una doccia, con un sapone profumato, e mi regalarono nuovi vestiti, anche senza conoscermi. E mi fecero mangiare. E bere. Senza chiedermi nulla, o ragione, del perché fossi lì.

     
    Dovevo essere in Africa, pensai, perché loro erano tutti di pelle nera, e parlavano una lingua che io non so ricordare, né che allora comprendessi. Mi donarono anche delle cose da mangiare, e degli animali scolpiti in legno, perché non mi dimenticassi di loro, una volta lasciatili, e mi accompagnarono fino alla città più vicina. Che scoprii, essere Bengasi. In Libia. E, da lì potei tornare in Italia, approdando in Sicilia. -
     
    Hebib guardò Cosimo, e gli chiese se avesse fame. Cosimo rispose che non mangiava dal mattino. Allora Hebib s’alzò, e si diresse verso il gruppo di piccole case. Ne superò una, con l’ingresso sfondato, che faceva intravedere un vestibolo, ampio, con la volta a crociera; le pareti costruite di piccoli mattoni d’argilla cotta, e così l’arco del soffitto, incrociato, mirabilmente tenuto in equilibrio da una meccanica di spinte e contro spinte. Sul pavimento, si vedevano tegole di coccio, scivolate dal tetto, qualcuna spezzata; quelle ancora non portate via da saccheggiatori senza scrupoli. E arrivò fino al pozzo artesiano. Lì, iniziò a tirar su la corda, cui era appeso un grosso secchio, utilizzato per conservare cibo, in profondità, al fresco, vicino l’acqua ancora affiorante.
    Prese un paio di salami, e un pezzo di formaggio, e del pane. E una bottiglia di vino piena a metà.
     
    E divise il cibo con Cosimo. E entrambe ne presero finché furono sazi. Quasi senza parlare, rispettando il silenzio dei pensieri, e il passo forte dei cani, che giravano intorno al fuoco, mentre la notte diventava chiara di stelle lattee. Hebib, lisciandosi i baffi, mentre ancora mangiava del formaggio, dal sapore di pascolo primaverile, iniziò a parlare a Cosimo.
     
    -       Io, Macedone. Mio nome Hebib. Io, perso mia famiglia, qui in Italia, da ragazzo. Incidente di macchina. Mio padre era pastore, qui. E io ho preso suo posto. Padrone me fa lavorare, e io lo ringrazio, e io vivo qui, in montagne, tra Roio, e Lucoli. Ogni tanto, padrone mi paga ritorno da miei parenti, in Macedonia.
    Io sto bene qui. Ma se Macedonia inizia guerra per unire tutto popolo macedone, di Grecia, di Bulgaria, di Albania, io parto, e vado in guerra.
    -       Ma in guerra si muore… - disse Cosimo.
    -       Anche a vivere, si muore. E’ importante, come si vive, ma anche come si muore. E’ importante, se muori e pensi che è giusto. –
    -       Forse, forse hai ragione, ma noi uomini dovremmo essere stanchi, di guerra; stanchi di dividerci tra popoli, mentre siamo solo tutti umani.-
    -       Belle parole. Io contento, aver ospitato te. Avere diviso con te mio pane. Mio Dio è contento, se onoro ospite. A me, mia famiglia, insegnato così. Ma io penso che morte, è parte del vivere. E non mi importa morire in guerra, se questo è per mio popolo. –
    -       Sono stanco, Hebib, di guerre. Io le ho viste, le guerre. E il sangue, dei morti. Siamo tutti vinti, in guerra Hebib. Bello, sarebbe vivere, senza la paura del morire.-
    -       No paura, di morire. Se io, paura di te, io mandato addosso cani, no? Tu no mangiare, e niente caldo vicino al fuoco. Guarda quanto è nera montagna. E’ quella che fa paura, no? Notte senza luce, come morte e occhi chiusi; però se accendo legna, ecco luce, ecco caldo. Ecco brace, per cucinare. Così è luce, se vivo e muoio bene. –
     
    Hebib offrì a Cosimo una coperta, che aveva recuperato in uno zaino, poggiato in una scaffalatura di mattoni intonacati di ocra, incassata nel muro interno di una casa vicina, di sassi grigi, senza più tetto, ma solo con grandi travi di legno rimaste confitte in cavalletti di pietra ricavati al termine delle pareti, sospese sul nulla, verso il cielo, a lasciare ombre, di stelle, nel buio della stanza vuota.
    Avvolsero la coperta sulle spalle, e si versarono un altro bicchiere di vino, alimentando il fuoco. L’odore delle pecore, sembrava salire dalla terra. Umido, e peloso. Odore di zampe mai ferme e terra calpestata. E di sterco.
    Anche un lupo lontano, l’avvertiva. Un ululato distante, colmò per un attimo il silenzio della notte. I cani alzarono le orecchie. E uno di loro, dimenando la grande coda bianca, s’alzò, e si diresse, camminando lentamente, verso il buio, là dove era nato il suono.
     
    Il sapore del vino, era leggermente aspro, in bocca, e fresco. Come un’uva quasi matura, che conservi ancora un po’ il sapore verde della vite. Ne bevvero piano, dai bicchieri. E ne furono soddisfatti. Mentre si guardavano, e la notte sembrava rotolare lungo i fianchi delle colline vicine, addensando l’oscurità intorno a loro. Quasi solida, lenta. Un lago fermo.
    Solo con qualche bagliore più forte, della legna che veniva aggiunta, si poteva scorgere il profilo traballante delle casette, ammucchiate dietro le loro spalle. Persino il silenzio, appariva timoroso, come Cosimo. Che continuava ad essere in allarme. Incerto. Sgomento.
     
    La terra, s’era raffreddata, sotto i corpi di Cosimo, ed Hebib, distesi al fianco del fuoco, con la testa poggiata sulle braccia, dentro un sonno breve, e attento. Una pausa dei respiri. E dei pensieri, e degli sguardi.

     
    Si risvegliò Cosimo. Sedette a terra, le gambe incrociate. Alimentò il fuoco con un piccolo ciocco spesso e nodoso. Dalla parte della montagna più alta, sembrava iniziasse a sorgere dalla roccia un celeste inatteso.

     
    E iniziò a parlare, Cosimo, a bassa voce, mentre Hebib era ancora steso a terra. 
     
    -       E’ come accorgersi, per la prima volta, e davvero, che tutto può finire. E’ qualcosa cui non credi. Fino in fondo non ci credi. Ti guardi le mani, e pensi che non possono restar ferme. Ti senti le gambe, e pensi che ti sostengono, ancora. Anche una gamba sola. T’ascolti il cuore, sulla vena del collo, e lo senti battere. Ti pare veloce, quando immagini sia veloce, e lento, tranquillo, quando provi a respirare, e sentire davvero, il tuo stomaco, e l’aria che ci entra, inspirando profondo. Non può, finire, tutta questa perfezione che non ha ragione alcuna, visibile, di finire.

     
    E però sei su una vertigine, sul crinale di un gorgo che ti succhia dentro. Basta un istante, basta un pensiero piccolo, che ti sfugga al controllo, basta che pensi, che so, a come sarà davvero, il momento del dolore assoluto, del distacco, e della fine, che, ecco, ecco che le orecchie iniziano a ronzare e il respiro si spezza e diventa corto e stretto, e breve e mozzo e compresso e schiacciato e sibila e non riesce, e si ferma. E ti pare che un’ombra t’abbia tolto ogni coscienza, e ogni memoria. Un’ombra che t’ha reso il tempo un attimo, ed è il solo ed unico attimo che puoi vivere, ancora. Anche se non ci credi. Che sia così. E non riesci a muoverti, e sei immobile, e sei bloccato, e hai paura che ogni tuo gesto possa rompere l’equilibrio che ti permette ancora, comunque, di pensare. E cerchi il cielo… e cerchi il respiro… un altro respiro ancora… -
     
    Cosimo s’alzo di scatto.
    E il suo movimento, si trasmise ad Hebib, che, subito, sollevò il busto verso Cosimo, e lo guardò interrogativo.
     
    -       Hebib, dimmelo, per favore, come posso fare per arrivare alla città più vicina, e come si chiama questo luogo, dove siamo. –
    -       Puoi arrivare a Santa Rufina di Roio, basta che vai nella direzione del sole che nasce. E cammini in discesa. C’è un sentiero di pietre. Strada non difficile. Qui, chiamano Case Michetti. Una volta, qui, l’estate, vivevano pastori come me, ora, solo io. –
    -       Allora, vado Hebib, e grazie d’avermi accolto, e dato da mangiare, anche se non mi conoscevi, e ora però un po’ mi conosci… -
    -       Addio, Cosimo… tu avresti fatto uguale, con me. Buona strada. –
     
    Cosimo camminava, dando le spalle ad Hebib, che cercava con gli occhi i cani, e le pecore, per cominciare il giorno nuovo, mentre l’aurora colorava d’arancio le dita di  un pezzo di cielo, alle spalle dei monti. Dalla parte del mare, verso la Macedonia.
     
    Fu a metà mattinata, mentre Hebib sedeva su una grossa pietra, al pascolo, che vide dirigersi verso di lui diverse persone. Tenevano dei cani al guinzaglio. Qualcuno era in divisa da carabiniere.
    Chiesero ad Hebib se avesse visto qualcuno.
    Cercavano un uomo.
    E gli spiegarono, chi cercavano.
     
    Un ex militare, impegnato a suo tempo in Iraq, che aveva perduto la ragione, dopo aver assistito allo scempio provocato su una scolaresca di ragazzine da una autobomba, anni prima. Nessuno ricordava più quanti. Aveva circa quaranta anni, una barba leggera, i capelli corti. S’era smarrito. O forse era scappato.
     
    Hebib non disse nulla.
     
    Disse solo che non riusciva a capire.
     
     
    Liberamente ispirato al dialogo tra il porcaro Eumeo ed Ulisse. 
     
     
     


  • L'altra Italia

    Dal cratere aquilano. Storia fantastica, ma non troppo



    Francesca mise la freccia, segnalando che avrebbe girato a destra. Né davanti, né dietro la sua auto, vi era alcuno. Nessuno neanche a piedi. Era tarda domenica pomeriggio. E Francesca entrò, con l’auto, sulla destra, venendo da viale Duca degli Abruzzi, in viale San Giovanni Bosco. Proprio sull’angolo aveva riaperto, forse, il negozio di computer. La serranda a maglie romboidali di ferro, era abbassata. La vetrina, all’interno, chiusa. Francesca non riusciva ad immaginare, qualcuno che arrivasse sin lì per acquistare un computer, o portarlo a riparare. Però, l’insegna era nuova.
     
    Quel negozio, non era lì, prima, ma da un’altra parte, in città; dove avevano appena finito di ristrutturare. Si chiedeva, Francesca, se il trasferimento fosse stato temporaneo, o definitivo; forse i titolari del franchising non potevano più permettersi gli affitti nei locali ora ristrutturati. E comunque, anche se c’era sempre un negozio di computer, lì, non era quello di prima. Ma, immaginava Francesca, i titolari del negozio avrebbero potuto essere gli stessi, di prima, e avevano cambiato semplicemente insegna e azienda, passando da titolari in proprio, ad affittuari di un marchio. C’erano sempre computer lì, all’angolo tra viale Duca degli Abruzzi e viale San Giovanni Bosco, ma, Francesca, non sapeva ricordare il tempo, dal negozio di prima, a quello di oggi. C’era un ricordo, più o meno preciso, e ora, una realtà, non del tutto leggibile, né riconosciuta; ma solo vista, ogni tanto, come si può guardare un muro che scorre dietro il finestrino accanto, mentre si guida. Rifiutata, in una certa misura; rimossa costantemente, ad ogni nuovo sguardo. E, ogni volta, opaca, pur se rimasta negli occhi, volti comunque altrove.
     
    Viale San Giovanni Bosco s’inabissava, in discesa, quasi subito. Giusto il tempo di un veloce sguardo, a sinistra, mentre l’auto camminava lentamente. Verso l’ingresso del Cinema dei Salesiani. Il cancello aperto sul cortile vuoto. Erbacce ovunque. Il palazzotto al fianco dell’ingresso, puntellato, sul lato che dava lungo la strada, da forti travi di legno, ingrigite dal tempo. Come un contrafforte che, con la spalla, sorreggesse la palazzina color giallo dimenticato. Francesca pensò alle sedie di legno del vecchio cinemino. Sul cancello nero, la bacheca destinata ad ospitare il manifesto del film in programmazione, dentro il vetro ingiallito, conservava brani di carta umida e sfatta, biancastra, dissolta. Marcita. Come un sipario chiuso.
     
    Francesca pensò, mentre rallentava ancora l’andatura, a quante volte, era entrata lì, a guardare l’ultimo spettacolo, di film poco visti altrove. Rassegne d’essai. Talvolta pellicole noiose, talaltra, poco più di un pretesto per fumarsi una sigaretta fuori di casa nelle sere d’inverno aquilano freddo. Altre volte, invece, storie delicate, o forti, preziose; come la sensazione di una solitudine che avrebbe potuto incontrare qualcuno, e rompersi, incredibilmente in quel luogo, sulla cima delle scale, per arrivare al cinema, camminando con la mano poggiata sulla ringhiera di ferro, ruvida e tagliente, di ruggine e vernice slabbrata. E guardando in alto, verso il cielo, quasi. I biglietti, ancora quelli antichi, di carta chimica leggerissima, giallina, con sopra stampigliata la parola popolare “Platea”.
     
    Sulla destra, invece, dietro le mura e le inferriate, Francesca sapeva che, in basso, il campo di calcio, non c’era più. Asfaltato. I Salesiani facevano i conti col futuro mercato edilizio. Evitò, per questo, di guardare, alla sua destra in quel tratto, e fermò l’auto sotto gli alberi. In un piccolo slargo. L’ultimo pezzetto di strada, voleva farlo a piedi, anche se stava piovendo; acqua leggera, quasi spruzzata dalle nuvole. Faceva leggermente tremare l’aria, guardandola in controluce, sul fondo del cancello chiuso dell’Istituto delle Suore. Il cancello con le punte di ferro acuminate, in alto. Come se nessuno dovesse entrare, come se nessuno potesse uscire.
     
    Ed ecco aprirsi, sotto i passi di Francesca, piazza della Lauretana. Un quadrato sghembo. Tagliato in diagonale dalla luce del giorno nuvoloso che finiva. Sconnesso e aperto, sui palazzi che soffocavano la chiesetta medievale incastrata dentro l’edificio delle Suore. Che appariva chiuso. Silenzioso. Assente. Indifferente al proprio futuro, deciso dentro sacrestie oscure. Francesca guardava le scritte di spray nero sulle pareti ocra della fabbrica di materassi, indicata nell’insegna dalla parte opposta del vecchio palazzo. Le finestre basse, chiuse con le inferriate.
     
    Francesca si fermò, nella piazza. Ad ascoltare il silenzio, e il sapore dei mattoni ammuffiti, coperti di muschio e alghe verdi, che saliva dai palazzi sventrati più sotto. Era lì, perché aveva bisogno di riordinare le idee. Anche se era difficile, farlo, sotto la pioggia, di una tarda domenica pomeriggio, al confine tra centro storico aquilano e dissennate costruzioni degli anni ’60 del secolo scorso. Anche se era difficile riprendere il filo dei pensieri degli ultimi giorni, piangendo. Piangendo senza farsi notare. In piedi, nella piccola piazza, ma con lo guardo rivolto verso l’angolo più distante, per chi fosse sopravvenuto in auto, scendendo dal viale, diretto verso la deviazione obbligata per via Roma. Che si percorreva solo in discesa, teoricamente, da qualche anno. Con il bavero dell’impermeabile alzato. L’ombrello quasi poggiato sulle spalle, a far da parete tra il suo volto, e chiunque avesse voluto cercarne gli occhi. Che tremavano, lentamente. Lacrime sottili, che stillavano dall’angolo più lontano, a sinistra; restavano ferme, un interminabile pensiero appiccicoso, e poi scendevano, veloci, dallo zigomo verso il bordo esterno delle labbra, come un’arsura da non dissetare.
     
    Francesca aveva presentato il suo lavoro, il lunedì precedente, nello studio dove lavorava. Un grande studio di ingegneri, impegnato nella progettazione di numerosi interventi di ricostruzione. Il suo lavoro, riguardava una soluzione innovativa di salvaguardia di un arco in pietra. Proprio lì, di fronte, all’angolo con via Pretatti, che era diventata un corridoio chiuso, quasi senza luce, per i puntellamenti a destra e sinistra, uniti da un soppalco in legno che faceva da cielo basso e scuro. Ci aveva lavorato con passione Francesca. Per due mesi interi. A toccare quelle pietre con le mani, e a disegnare nel suo stanzino in ufficio i particolari costruttivi, quasi invisibili, che avrebbero dovuto assicurarne la tenuta anche con un futuro terremoto, più distruttivo di quello che ancora pesava spietato, per quelle vie, deserte. Spezzate. Ed ora lo stava guardando, sporgendo un po’ la testa dall’angolo della piazza. In modo da lasciarselo negli occhi, per qualche istante. E immaginando.
     
    L’arco in pietra, e la strada sottostante, sarebbero riemerse bianche, lasciando sulle dita quella leggera polvere di pietra appena lavorata, eppure antica. Come una cipria sottile e profumata. Le pietre avrebbero conservato tutti gli antichi disegni, e nascosto un’anima capace di reagire ai sussulti. Aveva studiato la storia, Francesca, e cercato i materiali nelle cave originarie, badando anche a tenere bassi i costi di lavorazione e posa in opera. E aveva inventato una piccola e solidissima anima metallica, flessibile come l’arco di un cacciatore, capace di stringere a sé ogni singola pietra. Lo immaginava nel sole, il suo arco, Francesca. Lo snodo essenziale per dare il via alla ristrutturazione dell’intero edificio.
     
    Nessuno, le aveva dato quell’incarico. Nello studio. Ma lei si era accorta che, nei progetti affidati ai suoi colleghi, quell’arco restava vuoto. Come se nessuno volesse affrontarlo per primo, ma solo alla fine, quando tutto il resto fosse stato risolto. Ed invece, per lei, doveva avvenire esattamente l’opposto. Quell’arco, trasformato in una colonna agile, capace di tenere su di sé, il peso dei piani superiori. E perciò, in silenzio, aveva sviluppato la sua idea, con l’intenzione di presentarla al suo capo, e la speranza che questo facesse finalmente capire a tutti quanto fosse capace, e brava.
     
    Francesca aveva ancora negli occhi, la riunione di inizio settimana, lo scorso lunedì mattina; tutti i membri dello studio, intorno al grande tavolo delle riunioni. Lei, in seconda fila, senza potersi appoggiare al legno, per prendere appunti. Seduta dritta, alle spalle di tanti suoi colleghi, più esperti, o più diplomatici. O più svelti. I capelli neri, lunghi, raccolti dietro la testa, mentre alcune ciocche le cadevano ai lati degli occhi, ricce, dolci. Gli occhiali dalla montatura nera, sottile. E un’ombra di rossetto rosso sulle labbra. Indossava i suoi jeans preferiti, Francesca, e un paio di Doctor Martin’s nere, basse. Un maglione di cotone un po’ gualcito, largo, che le copriva, parzialmente, i fianchi forse leggermente espansivi.
     
    Il capo parlava di quel palazzo, e di come, ancora, si fosse in ritardo nella progettazione dell’intervento. Seccato. Faceva pesare su tutti le sue parole. Il ritardo, avrebbe anche potuto comportare pesanti penali. Che avrebbero influito sui compensi di ciascuno. Fu allora che Francesca, si alzò dalla sedia. Tutti la guardarono, come se stesse commettendo un atto di grave scortesia. Lei si diresse verso il capo, con le sue carte in mano, e gliele porse. Senza parlare.
     
    Il responsabile dello studio, guardandola, come se la vedesse per la prima volta, prese il suo progetto, indossò gli occhialetti da presbite che teneva nel taschino della giacca, e iniziò ad esaminarlo. Muoveva la testa, ogni tanto, in su ed in giù, come ad assentire. Talvolta alzava lo sguardo, cercando con gli occhi Annarita. Che ricambiava, sorridendo lievemente. Avanzando, sulla sedia, fin quasi ad essere seduta solo sul bordo. Come se attendesse ogni sua parola come una rivelazione indispensabile. E non si curava, nello sporgersi in avanti, di mostrare la sua scollatura, sempre più generosamente. Aveva il seno piccolo, Annarita, ma spavaldo. E lei si guardava intorno, ad ogni sguardo del capo, come a rimarcare che la sua attenzione gli apparteneva. Che nessuno osasse entrare in quel perimetro di cenni sottointesi. Con una smorfia delle labbra, a metà tra un sorriso e i denti che si stringevano, come per un morso. Violento e durissimo. Francesca, vedeva tutto. Era rimasta in piedi, poco discosta dalla poltrona di capotavola, dove sedeva l’ingegnere titolare dello studio, il suo datore di lavoro. Disorientata.
     
    Il suo lavoro, era piaciuto. E, per questo, ne era stato assegnato lo sviluppo ad Annarita. La più capace nel dargli realizzazione pratica, e nell’aggiustare alcuni dettagli che richiedevano duttilità e spregiudicatezza nella conduzione dell’intero progetto. Il capo, aveva sorriso, nell’annunciare che, finalmente, la sua squadra aveva trovato la soluzione per far partire un progetto cui teneva moltissimo, del valore di svariati milioni di euro, e che avrebbe ulteriormente rafforzato il nome dello studio sul mercato. Annarita, dava garanzie di affidabilità, di conoscenza dell’ambiente, di relazioni con i committenti; nessuno meglio di lei, avrebbe potuto condurre a termine quella impresa ambiziosa. Naturalmente sotto la sua costante e attenta supervisione. Sotto la sua mano sapiente e autorevole.
     
    Era stata ringraziata, Francesca, e invitata a riprendere il suo posto a sedere. Nessuno, l’aveva più guardata, nel prosieguo della riunione, che, poi si era sciolta. Mentre tutti circondavano Annarita, congratulandosi con lei per il lavoro che le era stato affidato, Francesca, restava sulla sua sedia, con gli occhi bassi, tentando meccanicamente di rimettere a posto nella sua cartella, carte, disegni, appunti. Matite. Non si era accorta che, improvvisamente, le si era avvicinato, fino a fermarsi a pochissima distanza dalle sue ginocchia, il capo. Che aveva richiesto la sua attenzione, e che, senza guardarla in volto, le aveva detto che avrebbe dovuto parlare con Annarita. Mettersi d’accordo con lei. Francesca ascoltava, senza sentire davvero le sue parole. Si alzò dalla sedia. E uscì dallo studio.
     
    Da quel lunedì, non aveva più rimesso piede nello studio. E, in verità, nessuno l’aveva cercata. Aveva scoperto la propria invisibilità, Francesca. Aveva scoperto quanto era brava. E quanto era inutile. Si sentiva addosso, tutte le tonalità d’ombra da quel lunedì mattino, fino a quella domenica, ormai quasi sera. In piazza della Lauretana.
     
    Era come aver guardato a lungo Gabriele, seduto davanti a lei, a sorseggiare una birra nel pub. Senza aver mai trovato il coraggio di dirgli, con le labbra, quel che gli occhi imploravano. Era come se continuasse a sentire le proprie mani imprigionate nella paura di avvicinarsi a lui. Era la netta percezione di non essere abbastanza. La stessa impossibilità sottile, eppure evidente. Sapere di poter dirigere il proprio lavoro, eppure, nello stesso tempo, avvertire che l’altra, senza avere le sue qualità, era più adatta. Più funzionale, ai disegni del capo. E, sapere, di voler sentire le labbra di Gabriele, piene, calde, sulle sue. Sentirsele nello stomaco. E capire, che lui, mai, l’avrebbe cercata.
     
    Francesca.
    Un po’ troppo goffa, nella sua taglia in più, un po’ troppo poco indifferente, per rinunciare tranquillamente alla propria intelligenza e alla propria libertà per essere come il capo l’avrebbe voluta. Riprese la propria automobile. E guidò all’indietro, verso casa, lontano, a Coppito. Passò davanti al ponticello, sul torrente, e guardò alla sua destra, verso l’allevamento di trote. Più in basso, rispetto alla sede stradale.
     
    Francesca pensava alle trote.
    Chiuse nelle vasche di pietra, ammassate, le une alle altre. Nutrite sempre della stessa pappa. Senza alghe tra cui nascondersi. Con pochissimo ossigeno da dividere tra tante. Senza nessuna ansa da percorrere. Mura squadrate, brevi, di cemento indifferente. Fino alla rete che le avrebbe afferrate e portate via. Si sentì quasi mancare il respiro. E abbassò i vetri dei finestrini. Guidando così, nel freddo, fino a casa. Forse avrebbero potuto esserci altre direzioni. Altre strade per i suoi disegni.
     
    Era appena entrata, a casa.
    Sentì il cellulare che vibrava. Era un messaggio.
    Lo lesse.
    Era Gabriele.
    Aveva preso due pizze, era sotto la sua casa, e le chiedeva se poteva salire. 
     
     
     
    Colonna sonora: “Other directions” di Nicola Conte
     


  • L'altra Italia

    La versione di Luigi


     L’AQUILA - “Tutta colpa di Terry. E’ lui il mio sassolino nella scarpa. E, se proprio devo essere sincero, è per togliermelo, che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l’altro, mettendomi a scribacchiare questo racconto, violo un giuramento  solenne, ma non posso non farlo”.

     

    Erano passati quattro anni abbondanti, dall’ultima volta che aveva partecipato ad un convegno sul futuro della città. Tanto che non ricordava nemmeno più, di quale futuro si parlasse allora. Nel frattempo, la sua vita era molto cambiata. Però, stavolta, aveva deciso di andare ad ascoltare. Iniziava un nuovo anno; i buoni propositi erano ancora di moda: informarsi di più, partecipare. Aveva deciso perciò di prendersi l’ultimo giorno di ferie rimasto dal 2014, e usarlo. Aveva chiesto al Direttore del suo ufficio se la sua assenza avesse comportato problemi sul lavoro, ed aveva ricevuto una risposta rassicurante. Quindi,  aveva scritto una brevissima lettera di comunicazione della richiesta di ferie e gliela aveva consegnata. Poi, ne aveva data copia anche all’Ufficio Amministrazione, perché avvisasse l’Ufficio Paghe, così da computare il giorno di ferie fruito, in busta paga.

     

    Il mattino arrivò all’Auditorium del Parco. Entrò per primo. Per primo vide le persone poste alla reception. Le persone alla reception di un Convegno, di qualunque convegno, sono sempre donne, giovani, e indossano sempre scarpe col tacco altissimo. Un convegno che si rispetti, non può iniziare senza gonna e tacchi a spillo. La sala era vuota. Il rosso delle pareti, e delle sedie, aveva un sottile profumo di resina fresca. Scelse una sedia tra quelle dell’ultima fila, in alto. Per poter avere uno sguardo d’insieme. Trascorsi pochi minuti, arrivò in sala il suo vecchio amico Marcos. Che lo vide, dal basso, e lo salutò, calorosamente.

     

    -  Allora ogni tanto esci dal tuo guscio! 

    La sala rimbombò del suo vocione calvo e barbuto. Sedette vicino a lui. Lo guardò ridacchiando.

    -  Fammi capire… che ci fai qui? 

    -  Sai, voglio ascoltare. Il Gran Sasso Science Institute, organizza, e io sono curioso. Voglio capire se esce fuori qualche idea interessante; voglio capire come l’Istituto si colloca nel dibattito cittadino. Voglio guardare l’ex Ministro, che sembra voler costruire una politica a partire dai territori per poi  far sintesi a Roma, e capire che relazione ha con i rappresentanti politici aquilani, se di conflitto, o di collaborazione. La Senatrice più importante, ad esempio, proprio oggi, ha fatto pubblicare il testo di una sua lettera al Sottosegretario alle Finanze, con delega alla ricostruzione, in cui fa l’elenco delle cose che servono alla città. E quindi si pone, classicamente, come mediatore delle risorse, tra Roma e L’Aquila. Che, per carità, serve pure, ma io speravo che questa funzione politica si fosse esaurita con gli anni ’80 del secolo scorso.  E quindi, si pone oggettivamente distante, dall’ex Ministro. 

    -  E che fai, l’anima candida ?  Senza soldi non si fa niente. 

    -  Vero. Ma i soldi senza progetto, servono solo a finanziare i poteri e le clientele. 

    -  Piantala. Se quella scrive che servono i soldi per i Lavoratori precari del Comune tu che dici? Che fa male?

    -  Io non lo so se fa male; direi una stupidaggine se pretendessi di dare un giudizio su come quelle persone sono state selezionate, da chi, come lavorano, cosa fanno e quanto servono. Non ho informazioni sufficienti. Però, chiedo. Ma quando tra dieci anni avremo ricostruito tutta L’Aquila (dieci anni?), e avremo millemila dipendenti comunali, con quali risorse li pagheremo? 

    -  Hai rotto davvero. Ti leggo, sai, quando scrivi le tue storielline su Facebook. Sempre a pensare a quello che succederà tra cinque, dieci, quindici, venti anni, un secolo. Guarda che tu vivi adesso!  Adesso. Adesso la gente mangia, lavora, è disoccupata. Adesso, mica fra dieci anni! 

    -  Certo, adesso. Come adesso si ristrutturano le case che dovranno resistere al prossimo terremoto fra trecento anni. No? Con l’adeguamento sismico, che, adesso, è pagato solo fino al 60% del possibile. E

    non mi preoccupo, adesso, di arrivare al 100% della sicurezza tecnicamente raggiungibile; e, invece di arrabbiarmi per una legge sbagliata, o al limite decidere di cacciar soldi di tasca mia,  mi preoccupo invece di scegliere  il parquet per la stanza da letto, così quando calo dalla branda la mattina, posso scendere a piedi nudi nel caldo e andare subito al bagno senza cercare le ciabatte. E la prostata gode.

    -  Pure lo spiritoso mi fai ? Ma allora ti fa bene startene solo solo nel tuo guscio… 

     

    Era l’orario di avvio dell’incontro e iniziavano ad entrare le persone nella sala. Molti giovani, che non aveva mai visto prima, forse dottorandi del Gran Sasso Science Institute. Molti aprivano computer portatili e tablet. Era una L’Aquila parzialmente diversa, da quella di quattro anni prima, ad un Convegno nella sede ANCE, dove aveva ascoltato spiegare, dall’allora Presidente della Regione Abruzzo, che L’Aquila avrebbe avuto seri problemi a riuscire a spendere tutta la enorme quantità di denaro che sarebbe piovuta sulla città per la ricostruzione. E in tanti, al governo, all’opposizione, nel sindacato, tra i costruttori, annuivano. Ed ancor più diversa dalla platea radunata in un palasport a Rocca di Mezzo, nel 2005, per la “ Fabbrica del Programma“, dedicata ai temi della Montagna. C’erano Sindaci, allora, Associazioni Imprenditoriali, Cooperative, tre Sindacati, politici, associazioni ambientaliste. I corpi intermedi della società, a discutere di  una elaborazione nazionale, partendo da esperienze locali.

     

    L’Aquila presente al Convegno era fatta di cittadini e cittadine. Legami di conoscenza, magari di comune impegno lavorativo o di studio. Ma, fondamentalmente,  una città molecolare. Fatta di solitudini, e di rapporti diretti, quando possibili o voluti, tra rappresentanti e rappresentati. Era una platea che si frequentava  sui social network. Il Direttore del GSSI avviò i lavori, auspicando che tutti i soggetti in campo nella città, fossero capaci di muoversi insieme, coerentemente. Come se fosse possibile conciliare interessi conflittuali, attraverso il saggio uso della buona volontà. E non invece attraverso l’esercizio, durissimo e responsabile, delle scelte di priorità, sulla base di una visione vera e profonda del futuro della città. Ad aprire gli interventi, fu chiamato un professore, che aveva già scritto sulla città. Il sistema urbano europeo, raccontò, era sottoposto a straordinari cambiamenti, passando attraverso momenti anche molto duri, e, spiegava, le città che non riuscivano a comprendere il contesto nel quale si stavano muovendo, a partire dalla crisi fiscale, rischiavano enormemente.

    Si rivolse a Marcos, a voce bassissima:

    -  Europa? Ma se qui, l’unica Europa che interessa è quella che deve ratificare che non aver pagato le tasse durante l’emergenza del sisma, non era “aiuto di Stato”. Per il resto l’Europa è considerata fuffa e burocrazia. 

    Marcos rispose:

    -  E pensa alla crisi fiscale. Sono sei anni, che chiediamo, tutti, dal sindacato, al Sindaco, che per L’Aquila non sia applicabile il Patto di Stabilità.

    -   Bèh, in un certo senso è pure giusto: ci sono tasse locali che nessuno può o dovrebbe pagare.

    -  Avrai anche ragione, ma c’è qualcuno che si preoccupi di verificare se, in condizioni “normali”, anche L’Aquila non avesse qualche problemino di Bilancio ? Un giorno, dovremo pur tornare alla “normalità”, no?

    - Adesso che fai, sei tu che pensi ai prossimi cinque, dieci o vent’anni? Non eri tu il teorico  dell’”adesso”? 

    -  E’ proprio perché penso all’”adesso” che te lo dico: guarda che, al prossimo giro di Legge di Stabilità, magari non si giustificano più gli stanziamenti a copertura dei buchi del bilancio comunale…

     

    Semplicità, pertinenza, realismo, erano le qualità necessarie, indicate dal professore, per trovare uno spazio per L’Aquila, in ambito europeo. Su un piano economico, quanto accadeva a L’Aquila, non era decisivo né per l’Italia, né per l’Europa, sosteneva.

     

    -  Ma come ? L’Aquila non è il più grande cantiere d’Europa?-, scattò Marcos.

     

    Indipendentemente dal sisma, L’Aquila, per sopravvivere, per trovare una propria via di sviluppo, avrebbe dovuto comunque cambiare traiettoria, rispetto al suo passato. Si rivolse a Marcos:

    -  Vedi, quando te lo dicevo io… che era fondamentale comprendere la continuità, tra quello che c’era prima del terremoto, e quello che c’è dopo il terremoto. E non tanto la discontinuità, creata dalla tragedia. 

    -  Quando esci dal guscio, fai pure il saputello?

    -  Guarda che io lo avevo scritto, prima.

    -  Nostradamus de noantri…

    -   Lascia perdere le battute. Tutti pensano come se il mondo iniziasse il sette aprile del 2009. Io invece penso che dovremmo sempre ricordare bene come era, il 5 aprile del 2009, per comprendere dove

    stiamo andando ancora oggi.

    -  Mi sembra un giochetto di parole. 

     

    -  E non lo è. Pensa all’affare edilizio che si voleva fare, prima del terremoto, sull’area davanti al motel Amiternum; e pensa a dove oggi vogliono fare la “stazione dei bus “. Cambia il nome, non la sostanza delle cose. E la sostanza è solo quella  degli interessi particolari sul piano urbanistico-edilizio. Quegli interessi che, ancora oggi, impediscono che si faccia il nuovo Piano Regolatore, che, pure, secondo la Legge 77 del 2009, avrebbe dovuto essere fatto subito. “I comuni dispongono la ripianificazione del territorio comunale “, recitava la Legge! 

     

    Ogni comunità locale, sceglie il proprio futuro, continuava il professore. Dentro un orizzonte di Democrazia, e Partecipazione, diceva.

    -  E noi, dopo sei anni, avremo l’Urban Center…-, quasi urlò, Marcos.

    -  Forse. Forse discuterà il Piano di Ricostruzione di Collebrincioni bassa. 

     

    E, fondamentale, sarà l’interazione tra attori diversi, concludeva il professore. Con il tono di voce dello sconfitto. Di chi aveva, in tempi ancora utili, indicato una traiettoria possibile per la città. Cui però non era seguita alcuna politica concreta. Nessun atto amministrativo conseguente. Nessuna visione d’insieme, capace di dare agli sforzi della ricostruzione, lo slancio del futuro possibile. Quello che aveva a suo tempo scritto il professore, era solo uno dei tanti ipotetici futuri di questi anni, nessuno dei quali, capace di avere un decente presente. 

     

    E nella testa, le tre parole  “semplicità, pertinenza, realismo”, rimbombavano. Cercava di coniugarle con questioni concrete. E ne aveva scritto, tanto. Ma quasi solo per sé stesso. Come fare i compiti a casa, da bambino, senza un maestro che li correggesse. Senza un luogo collettivo dove discutere, in realtà. Senza un confronto tra soggetti, e senza che le elaborazioni passassero per mediazioni superiori, a livello regionale, o nazionale, e poi europeo. Gli sembrava solo d’aver provato, in quegli anni, a scalare un muro, per guardare oltre.  E ogni volta che riusciva a buttare lo sguardo oltre il confine di mattoni, trovava solitudine.

     

    Entrò la Senatrice meno importante. Una volta, la presenza di un parlamentare, sarebbe stata annunciata dal palco, e vi sarebbero stati applausi. Magari anche solo di cortesia. Nella sala, solo qualche breve mormorio. Entrarono sindacalisti, in ritardo, di due diversi sindacati. L'architetto movimentista ciuciuettava, con l'ingegnere capo dell'opposizione in Consiglio Comunale. La sala era quasi piena, mentre gli interventi programmati della mattinata, si susseguivano, più o meno precisamente, secondo tempi brevi già stabiliti.

     

    Ciascun intervento, avrebbe dovuto raccontare un progetto, un lavoro svolto. Un futuro possibile. E, ciascuno dei relatori, si sforzava di far questo. Per lui, che osservava da lontano, cresceva però l’estraneità a quelle parole. Era una sensazione disturbante. Poiché ogni volta che qualcuno raccontava un pezzo di generosità e di impegno, immediatamente gli salivano in gola richieste di chiarimento. Dubbi sui possibili conflitti di interesse personali. Scenari in cui si raccontava di fibre ottiche e linee di comunicazione futuribili ( di cui lui ascoltava discussioni a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso ), e non si raccontava di quali aziende le avrebbero progettate, e installate, e per fare cosa. Decisioni già assunte su importanti immobili, proprietà di istituzioni pubbliche, per un cambiamento delle loro destinazioni d’uso. E qualcuno che aggiungeva che era esattamente così, che si sarebbe potuto costruire un nuovo Piano Regolatore. Solo fotografando i punti di aggregazione, che il mercato, o le decisioni singole di ciascuno stavano creando. Una magia spontanea.  

     

    E anche i tanti soggetti che, con il solo volontariato, intervenivano su questioni strutturali, come la formazione o la scuola, con abnegazione, gli apparivano come anelli di una catena che non legava nulla insieme. Perché non vi era un discorso complessivo che intervenisse, contemporaneamente, su ogni pezzo del panorama sconnesso che vedeva davanti a sé. Il lavoro, meritorio magari, svolto su un territorio, non si saldava con  strategie nazionali, o europee, e con soggetti che ne fossero portavoce ad un livello più alto. Tutto, gli appariva essere chiuso dentro le mura della città.

     

    La legge 366/1990 diceva che, sarebbero dovuti esistere fondi a disposizione del trasferimento tecnologico, che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, avrebbe dovuto e potuto favorire, tra le proprie ricerche, e il tessuto di piccole e medie imprese del territorio. Ma chi se lo ricordava? Di sicuro non chi aveva parlato a nome dell’INFN. Chi avrebbe potuto magari chiederne il rifinanziamento? Di sicuro non una rappresentanza politica territoriale. Impegnata in altro. Era tutto, come se tutto, ma proprio tutto, fosse la “prima volta”. E lui, in quella sala, fosse l’unico reduce. Un ultimo, rimasto dentro una foresta a combattere una guerra che era finita vent’anni prima.  

     

    Gli interventi della sessione del mattino arrivavano a chiusura. Qualcuno dei suoi colleghi di lavoro lo aveva scorto. Senza salutarlo. Naturalmente.

     

    Si rivolse a Marcos e gli disse:

    -  Me ne vado. Torno nel pomeriggio. Tienimi il posto, che mi sono affezionato a te.

    -  Ti perdi il buffet? 

    -  Ho sempre dei problemi, quando mi offrono qualcosa che penso di non meritare. Ci vediamo dopo, dai.

     

    Arrivò un po’ più tardi del dovuto, in realtà, nel pomeriggio. Quando già molti degli interventi previsti erano stati pronunciati. Tuttavia, non fece fatica a ritrovare un posto in alto, per continuare a guardare. Ora la platea stava cambiando. Arrivavano, alla spicciolata, i rappresentanti delle Istituzioni. Circondati da efficienti staff. E giornalisti.

     

    Come già era accaduto in quasi tutte le elaborazioni scritte, riguardanti il futuro della città, o in quasi tutti i convegni pubblici, continuava a mancare un attore fondamentale. Un attore che restava sempre in silenzio, e non confrontava con nessuno le proprie strategie. E a cui nessuno, peraltro, sembrava far caso. Una cosa quest’ultima, che giudicava incredibile. Letteralmente incredibile. Neanche al convegno del Gran Sasso Science

    Institute, era presente il sistema bancario. Nessuno se ne dava peso. L’allocazione delle risorse finanziarie, decisa, o non decisa, dal sistema bancario, continuava ad essere una variabile inutile nella discussione sul futuro della città. Negli ultimi sei anni, a L’Aquila, e in Abruzzo, era scomparsa, o quasi, una dimensione locale delle banche, e presto, secondo le intenzioni del Governo, l’equilibrio trovato dal sistema bancario locale e abruzzese, avrebbe potuto nuovamente cambiare assetti proprietari e scelte. Ma tutto questo era ininfluente, in qualunque discussione avesse, fino a quel momento, letto  o ascoltato sulla città dell’Aquila.

     

    Prese la parola l’ex Ministro, col compito di tracciare una sintesi, di quanto sino a quel momento ascoltato, ed offrirla alla riflessione successiva dei livelli istituzionali, che avrebbero, di seguito, chiuso il Convegno. L’ex Ministro iniziò, spiegando, esplicitamente, che non c’era un progetto complessivo e condiviso sul futuro della città. Tutti i tentativi, sin lì compiuti, erano falliti.

     

    -  Ma che bello. E di chi è la responsabilità?

    -  Non fare domande difficili, Marcos.

    -  Quindi, fin qui, abbiamo scherzato. Tonnellate di carta buttate.

     

    E  prese a riprendere, lodandoli, ciascuno degli interventi del mattino, e del pomeriggio. Ottimista, sul futuro possibile. Un ottimismo che cercava di trasmettere alla platea. Una specializzazione intelligente della città, che avrebbe dovuto individuare cosa, possedesse di importante, e trasformarlo, attraverso innovazione e sostenibilità.

     

    -  Marcos, guardati intorno. Tu li vedi, i soggetti del cambiamento?

    -  Non ti capisco, che vuoi dire?

    -  Scusami, noi, a l’Aquila, che abbiamo? 

    -  Università… INFN… GSSI… Conservatorio…. Accademia delle Belle Arti… Teatro Stabile… Imprenditori che vorrebbero costruire con il risparmio energetico…c’erano tutti qui, no?

    -  Hai ragione, ma a me non basta; perché noi a L’Aquila, non abbiamo invece le imprese. Non ci sono le imprese farmaceutiche. Non ci sono quelle Elettroniche e dello Spazio. Non ci sono i Call Center che occupano migliaia di persone….

    -  Va bbèh scusa, ma che pretendi? Che il Gran Sasso Science Institute, inviti qui tutta L’Aquila?  

    -  Certo che no. Non è un soggetto istituzionale. Non ha di questi doveri. E’ che però, mi sembra, che non ci si può, ogni volta, innamorare di tante cose belle e nuove, dimenticandosi, di quello che davvero muove l’economia in città. E da cui non si dovrebbe prescindere. Quanto fanno millecinquecento stipendi di lavoratori di call center a mille euro al mese  (tanto per fare cifra tonda), che si riversano in città?

     

    Comunicazione, informazione, trasparenza. Le tre parole scelte dall’ex Ministro. Offerte alla riflessione del Sottosegretario alle Finanze, del Presidente della Regione Abruzzo, del Sindaco dell’Aquila. Nel frattempo, tutta la platea si muoveva. Un sindacalista, dei due sindacati presenti, si alzava deferente dalla prima fila, per far sedere il Presidente della Regione, venendo premiato con un baciamano, dal Vicepresidente della Giunta. L'architetto movimentista e l'ingegnere dell'opposizione, continuavano a ciuciuettare.

     

    -  Vedi, Marcos. La Senatrice più importante non c’è. Escludiamo l’ipotesi che non ci sia perché impegnata altrove. Immaginiamo invece che non ci sia per una precisa scelta. Che scelta,  secondo te?

    -  E che ne so ? Magari le sta antipatico il Sottosegretario.

    -  Sbagli. Non c’è, perché così si riserva la possibilità di replica, alle parole e agli atti del Sottosegretario. Se non è qui, non è impegnata ad annuire o dissentire dalle parole del Governo. E’ libera, di rappresentare il territorio. O, al limite, è libera di rappresentare di rappresentarlo. E’ dialettica.

    -  Che, in napoletano, si traduce con “ammuina”.

    -  Smettila di fare il dissacrante, gratis. Guarda che invece è anche così, che si rappresenta davvero il territorio. Il problema vero, semmai, è perché debba essere anche questo il modo. Tutta tattica. E’ questo, in realtà, l’ “adesso”, di cui parlavi stamattina. E che io non reggo più.

    -  Ecco. Se non lo reggi, fai bene a stare nel tuo eremo. Nel tuo guscio di puro senza essere duro.

     

    Il Sottosegretario iniziò esattamente così. Come l’ex ministro le aveva lasciato la parola. Era necessario comunicare i successi. L’uso positivo delle risorse pubbliche doveva essere comunicato. Nel mondo d’oggi, l’immagine di una città invasa da appalti mafiosizzati, da puntellamenti taroccati, da balconi cadenti, era perdente.

    Il Sottosegretario comunicava che, nell’incontro di lavoro, del mattino,  era stato risolto il problema del rispetto del patto di Stabilità da parte del Comune, e che la ricostruzione della città sarebbe stata oggetto di una legge nazionale.

     

    -  Vedi, il Sottosegretario, ha risposto alla lettera della Senatrice.

    -  Vedremo. Speremo. -, rispose, Marcos.

     

    Il Sindaco annunciò che, entro tre anni, il centro storico delle frazioni della città, e de L’Aquila, sarebbe ripartito. E, che, sarebbe stato importante poter utilizzare la quota di fondi destinati al rilancio delle attività produttive anche per realizzare infrastrutture.

     

    -  Ascolta bene queste parole, Marcos. Una volta, quando c’era il finanziamento straordinario per il Mezzogiorno,  c’era un dibattito. Se utilizzare i soldi a fondo perduto per fare le strade, o per aiutare le attività produttive. E così, c’è chi ha scelto la Salerno-Reggio Calabria, e chi invece aveva l’Italtel.

    -   Bel dibattito. La Salerno-Reggio Calabria, ancora non è finita, e l’Italtel, da mò che è chiusa.

    -   Guarda che le parole del Sindaco dovrebbero suscitare un dibattito serio.

    -   Ma tanto, è già così. Ti sei scordato che una parte di quei soldi sono serviti a ripianare, poco, i debiti del Centro Turistico del Gran Sasso?

    -  Lo so, Marcos. Non se ne esce. Qui l’emergenza è continua. La crisi fiscale, è questa. Il continuo taglio di trasferimenti finanziari dallo Stato alle autonomie locali, questo significa. Da vent’anni e più a questa parte, stanno seccando tutto.

    -  Sì, e però non si è fatto davvero nulla, per razionalizzare, dare efficienza, rendere economicamente sostenibile. E’ così che l’intervento pubblico in economia è diventato una bestemmia.

    -  Sì, Marcos. E’ così che poi l’Italtel l’abbiamo svenduta e chiusa. Privatizza, e privatizza. Regaliamo mercato, e chiudiamo tutto. E impoveriamo la città, e la funzione pubblica.

  • L'altra Italia

    L'Aquila, il terremoto ed il Cinema del popolo


    L’AQUILA - Questi sono giorni in cui, a guardarle da lontano, le colline intorno L’Aquila hanno ancora l’abito grigio-marrone dell’inverno. Ci si deve avvicinare, ai rami di quercia, per accorgersi che la scorza si è rotta e le gemme aprono la corteccia. Ed è proprio in questi giorni, anzi, proprio oggi, 6 aprile 2049, che il “ Mulino dei Venti” chiude.

     
    Il Mulino dei Venti è il “Cinema del Popolo”, aperto oltre 30 anni fa in quella che, all’epoca, era una struttura di ferro e acciaio, lasciata ad arrugginire all’ingresso del quartiere di Pettino.  Buona parte dei suoi frequentatori attuali non era ancora nata nel 2014-18, e quindi è utile raccontare, almeno a grandi linee, la storia del cinema più importante della Città.
     
    Si trattava, originariamente, dell’officina deposito per quella che un tempo si chiamava “metropolitana di superficie”, finanziata nel 2001 dal morente governo D’Alema, mentre era sindaco a L’Aquila il tonitruante Tempesta, e che in realtà non entrò mai in funzione. Quando la struttura venne innalzata, si inseriva dentro uno spazio confuso e congestionato, e, guardandola da un lato, la sua bruttezza appariva incorniciata nel tremendo cavalcavia dell’autostrada, che, in quegli anni, correva alto oltre venti metri sulle case di Pettino e della parte est della città, deturpandola.
     
    Dopo la sua realizzazione, restò per anni inutilizzata, e, dopo il sisma del 6 aprile 2009, perse ogni significato, viste le scelte che interessarono la città, sin dai tempi del G8 di luglio 2009, quando le strade aquilane iniziarono a riempirsi di rotonde che inghiottirono le rotaie della presunta metropolitana, rendendone impossibile ogni percorso futuro, e persino passato.  
     
    La struttura, allora, entrò dentro il contenzioso che contrapponeva il Comune alla Ditta realizzatrice. La Ditta ne richiedeva la proprietà, per potervi  realizzare, al suo posto, un grattacielo di quindici piani. Oppure un rimborso quantificato in dieci milioni di euro dell’epoca. L’Amministrazione Comunale del tempo aveva affidato la trattativa per la conciliazione con l’Azienda realizzatrice ad un noto dirigente comunale, imparentato, per parte di bisnonna, con il proprietario della Ditta. Le trattative, segrete, si svolgevano al Grand Hotel Costarelle dove, spesso, il proprietario della ditta soggiornava, anche se non abbastanza quanto avrebbe voluto.
     
    E fu proprio quando i primi articoli sulla possibile chiusura positiva della trattativa, iniziarono a comparire sulla stampa locale, che i percorsi di Luigi Chisciotti, e Francesco Panza, si incrociarono. Si ritrovavano spesso dietro le grate metalliche che impedivano l’ingresso alla struttura. Con le mani aggrappate alle inferriate, guardavano dentro. E certe volte capitava persino che si attaccassero tanto ai cancelli, che la pelle del volto, ne restava segnata, a quadretti.
     
    Non si conoscevano Luigi Chisciotti e Francesco Panza, ma si riconobbero, quando, indipendentemente l’uno dall’altro, una notte, usando un paio di semplicissime tronchesi, violarono lo spazio chiuso ed entrarono dentro. Sotto il tetto di acciaio ondulato l’aria sapeva di tufo e terra smossa; assi di legno, grossi blocchi di pietra, traversine metalliche scolorite, ciondolavano sparse nell’ampia superficie vuota, e fredda. Senza pareti che non fossero immaginarie. E proprio l’immaginazione aveva spinto Luigi e Francesco in quella piazza senza titolo.
     
    Da quella notte, e per qualche mese dopo, Luigi e Francesco iniziarono a lavorare in quello spazio. Quasi senza parlarsi; come se i loro pensieri trovassero continuamente, tra loro, agganci, appigli, spunzoni cui attaccarsi per salire ancora e scalare la realtà che avevano intorno. Prima, da soli, poi, piano piano, sempre in silenzio, come se la voce attraversasse gli angoli di Pettino, senza allarmare nessuno ma accarezzando le fantasie, arrivarono sempre più abitanti del quartiere ad aiutare. Come se quel pezzo di terra disperso fosse diventato il cuore pulsante di una grande rhythm and blues band.  
     
    Quasi nessuno, a L’Aquila, si accorgeva di cosa stesse maturando in quell’area. Talvolta ci sono luoghi grigi, e soli, in città. Vuoti di persone e voci; e diventano perciò invisibili, così. Neanche le rondini ci fanno il nido. Accade quando un luogo è chiuso, e se ne dimenticano persino i confini e  lo scopo della sua presenza. Ammesso che ci sia mai stato, uno scopo.
     
    E accadeva facilmente che ci fossero luoghi divenuti ignoti, a L’Aquila, in quegli anni in cui ci si spostava solo in automobile, e l’unica cosa cui si faceva attenzione guidando, era la distanza dal tubo di scappamento della macchina davanti. Anche per non essere sommersi continuamente dalla desolazione intorno.
     
    Nessuno si accorse delle pareti che venivano innalzate. Erano pareti di vetro, che al loro interno erano riempite d’ acqua, in cui era lasciato cadere qualche fiore, qualche erba di campo, qualche piuma d’uccello. Quelle pareti divennero indimenticabili, per gli aquilani. Capaci come erano di scomporre i raggi del sole in fili di colore. Capaci di diventare ali di farfalla se viste in controluce. Da dentro, o da fuori la struttura. E d’inverno ghiacciavano, le pareti, senza imprigionare l’azzurrissimo aquilano, acquilano,  di gennaio. E il Cinema del Popolo diventava un igloo caldo.
     
    La primavera arrivava, a L’Aquila, solo se e quando le pareti d’acqua del “Mulino dei Venti” si scongelavano, lasciando galleggiare tra le lastre di vetro, piccoli iceberg che imprigionavano petali di bocca di leone, o di margherita. In realtà, la primavera arrivava anche quando gli alberi di mele e ciliegie che Luigi e Francesco avevano piantato, cominciavano a profumare l’aria di colori.
     
    I lavori iniziarono pulendo, meticolosamente, tutta la trascuratezza del tempo umano.  E poi, quando lo spazio restò nudo, tutti quelli che erano accorsi a dare una mano, guardarono, insieme, Luigi Chisciotti e Francesco Panza. Luigi e Francesco, semplicemente, tirarono fuori vecchi disegni di bambini dell’asilo, e di studenti della Facoltà aquilana di Ingegneria.  E li buttarono in aria, come coriandoli.
     
    E tutti allora, raccogliendoli da terra, cominciarono a scegliere cosa realizzare, e cosa no.  E cominciarono proprio con le pareti. E poi con gli spazi interni, e gli impianti. E quello che non poteva essere realizzato in quello spazio, cominciarono a realizzarlo a Pettino.  E Pettino cominciò a cambiare, impercettibilmente, dapprima. Poi sempre più tumultuosamente.
     
    Sorsero panchine ad altalena. Emersero marciapiedi che rubarono spazio all’asfalto. Cominciarono ad essere accuditi, gli spazi verdi colmi di sterpi. E piantati alberi, e fiori, e cespugli disciplinati. Tra palazzi troppo vicini si innalzarono decine di ombrelli coloratissimi, che facevano ombra d’estate e riparavano dalla pioggia d’inverno, ma solo per quelli che camminavano a piedi. E tutti iniziarono a coltivare i tetti, rendendo le case più fresche d’estate, e più calde d’inverno. Per non parlare dei pomodori e dei broccoli condominiali… Qualcuno, la notte, iniziò a cambiare i nomi delle vie.
     
    Via Francia, divenne “Via due per due uguale quattro anche quando fai la somma”.
     
    Via Australia divenne “ Via tre per tre uguale nove come quando fai la prova del nove”.
     
    E Via Antica Arischia divenne “Via le mani dalle nostre vie, che se sbagliamo, sbagliamo da soli”.  
     
    Il Cinema del Popolo, alla fine fu pronto. Dentro, vi erano state ricavate tre sale. I posti a sedere, complessivamente, fu scelto che fossero 309. Perché ogni giorno, ad ogni spettacolo, chi c’era, e chi non c’era più, insieme, potesse ridere e piangere, e soffrire e gioire, e divertirsi e sognare. O innamorarsi.
     
    Una sala sarebbe stata dedicata ai classici del cinema. Un’altra al cinema aquilano, fatto da aquilani, girato a L’Aquila, inventato a L’Aquila. Recitato a L’Aquila. O scritto a L’Aquila, visto che in quella sala, ci si potevano anche leggere le sceneggiature, se proprio non si era capaci o non si poteva filmare nulla, o suonarci le colonne sonore immaginarie. O provarsi i vestiti di un immaginario film in costumi aquilani.
     
    E l’ultima sala, era la “Sala del momento”, nel senso che, ogni sera, ci poteva essere qualcuno che decideva di far qualcosa, in quella sala, qualsiasi cosa. No un dibattito no. Oppure una cena. O una danza o un teatro. O un comizio o una poesia letta ad alta voce. O una fisarmonica tangheggiante. O un racconto intorno al fuoco. Insomma. Chi arrivava per primo, alle 19 in punto ogni sera, decideva l’uso della sala. C’era chi arrivava per primo la sera del proprio cinquantesimo compleanno, quindici anni prima, per prenotarsi, ad esempio.
     
    Quando il Cinema del Popolo fu pronto, Luigi Chisciotti, e Francesco Panza, ebbero l’onore di sceglierne il nome. E scelsero “Il Mulino dei Venti”. Il nome nasceva dal piacere che, sia Luigi che Francesco, avevano per la farina di mais gialla, macinata con le pietre bianche del mulino. Il piacere per la polenta, insomma. E dal fatto che in quel luogo, ogni sera, l’aria sembrava scorrere da terra verso il Gran Sasso, come se fosse attratta dall’altezza.
     
    Ci tirava vento, insomma. Ed ecco il “Mulino dei Venti”; anche perché, Luigi e Francesco, speravano che in quel posto, liberamente, fosse possibile macinare idee e trasformare il mondo intorno, condire l’aria e il tempo, partecipare al suono della città, cambiandolo, riscattare dalla sua bruttezza decennale, un quartiere popolare in cui abitavano tante belle persone, e tante persone da ubriacare di bellezza, perché cambiassero testa, almeno un po’.
     
    Proprio il giorno in cui il Comune, sotto, ed è proprio il caso di ribadire “sotto”, l’Amministrazione Cialente, trovò l’accordo con la ditta che aveva fatto il misfatto, proprio quel giorno, in cui stavano per rientrare in possesso dei luoghi l’amministratore delegato della ditta e i suoi creditori affamati, proprio in quel giorno, finirono i lavori al  “ Mulino dei Venti”.
     
    E allora accadde che Ufficiali Giudiziari, Assessori e Assessrici, il Primo Cittadino, Amministratore Delegato e Proprietario della Ditta, Direttori di Banche e Forze del Disordine, si presentarono compatte davanti all’ingresso del “Mulino dei Venti”, per entrarne in possesso.
     
    Ma fu la città, a decidere il possesso di quel luogo.
     
    Scese una bassissima nebbia di panna montata. Così spessa e fitta che quelli che camminavano non riuscivano più a vedere i propri piedi sull’asfalto. Il “Mulino dei Venti” scompariva alla vista di chiunque, nell’ordine costituito lo cercasse. Si racconta, che il Sindaco fosse finito con il vagare per Santa Barbara, chiamandosi senza riuscire a ritrovarsi. E questo, per mesi e mesi. Ogni volta che arrivava qualcuno che voleva mettere in discussione il possesso di quel luogo. Indiscutibilmente diventato il “Mulino” di Pettino, come il Moulin di Pigalle.
     
    Fino a quando, l’ordine costituito si stancò, e si dimenticò persino di quel luogo. Come, d’altra parte, in assenza di denaro, aveva sempre fatto. Il Mulino conservò una strana idiosincrasia, comunque. Scientificamente provata.
     
    Ogni persona, di uno qualsiasi dei cinque sessi, che fosse portata al servilismo, al camaleontismo, all’arrivismo, all’ipocrisia codina, e al bigottismo, che provasse ad entrare, si beccava una sferzata sul muso che arrivava dritta dritta da un enorme cespuglio di rose scarlatte cresciuto spontaneamente (dicono nato dai semi di una pianta acquistata negli anni ’50 del ‘900 da un artigiano aquilano per ingentilire il cortile di una casa popolare ), colmo di spine urlanti nel vento. Appunto.
     
    Pettino divenne finalmente un luogo in cui far crescere i vecchi e far riposare i bambini. Quasi del tutto liberato dalle auto e con un senso civico invidiabile che arrivò a contagiare Cansatessa e San Vittorino. Luigi Chisciotti e Francesco Panza divennero gli animatori di una vastissimo circolo di persone, che da Cinecittà, fino a Bollywood cominciarono a passare per l’Aquila. Fecondandola e fecondandosi.
     
    Qualche mese fa, Luigi Chisciotti, lo sapete, ci ha lasciato. Ed è stato Francesco Panza, proprio in occasione del quarantesimo anniversario del terremoto che distrusse L’Aquila il 6 aprile del 2009, a decidere la chiusura del “Mulino dei Venti”.
     
    Ma solo per farlo rinascere. Per rimetterlo, di nuovo nelle mani del quartiere e della città per cambiarlo e renderlo migliore. Una ristrutturazione popolare, insomma. Che durerà nove mesi. Perché una nuova vita, ci mette nove mesi a nascere.
     
    E anche una città, ogni tanto, deve rinascere.
     
     
     
     
     
     


  • Fatti e Storie

    Storie fantastiche dal cratere aquilano. MI CREDA


     
    “Eh, sì. Sono io. Sono Pasquale Piscialetta. Nato a L’Aquila il 29 febbraio 1952. Sì, sono io. E, di mestiere, faccio il libero professionista, consulente. Io fornisco consulenze su tanti problemi e risolvo questioni. Sono conosciuto, e stimato, anche se non ho biglietti da visita. Il mio lavoro va fatto con discrezione, e io sono parecchio discreto. Sono domiciliato a Vaduz, perché io sono aquilano, però europeo, e l’Europa è densa di possibilità, e un consulente come me è molto ricercato. Sì. Avevo una casa a L’Aquila, in via dell’Arcivescovado. E si è rovinata tutta. L’avevo ereditata dalla povera mammetta. Eh, la mia mammetta è morta a 93 anni, e mi ha lasciato quella bella casa in centro. Sa, lei voleva stare da sola, pure se non camminava più e io rispettavo la sua volontà, per carità. Non è che andassi spesso a trovarla, sa, il lavoro. Però ci sentivamo al telefono, almeno una volta al mese, anche se lei era sorda. E per fortuna che se ne è andata, a un certo punto. Sa, la sofferenza non dovrebbe durare tanto. Mi ha lasciato la casa, bella, in centro, e io l’avevo affittata a due studenti, che per fortuna non c’erano a casa il 6 aprile 2009. Erano in vacanza, prima di Pasqua. Il problema è che erano in affitto da poco, e non avevo ancora registrato il contratto, sa com'è, e ci ho perso un paio di mesi d’affitto che ancora non me li pagavano.

     
     
    Adesso sto vedendo se la casa la posso cedere, con la sostituzione edilizia, al Comune. Sa, quella prevista dalle Ordinanze. Però mi devono fare una valutazione seria. Casa signorile in centro. Mica gliela posso lasciare ai trecentomila euro che mi hanno proposto. Devo proprio parlare con quel mio fratello dirigente. Non è proprio proprio mio fratello: è un “fratello”, non so se mi spiego. E’ una prima casa poi, eh! Perché io ero residente lì, per l'anagrafe, e non ho altre case intestate. Per questo mi avete trovato al MAP a Preturo. Che poi non ho capito le bollette che mi sono arrivate adesso, che io lì dentro non ho mai consumato niente. Tranne quando scaldavo un po’ casa per quelle due amiche brasiliane che, ogni tanto, ci andavano con i loro amici a far festa. Tutto legale, eh! Quelli erano amici, amici veri, e ogni volta mi lasciavano pure un po’ di soldi per il disturbo. Per rimettere a posto, sa? Io c’avevo le mie spese, per pulire tutto. Certo, erano discrete, e tanto care. Pensi che mi mandavano sul cellulare le foto delle feste. Anche quando stavo al funerale di un mio carissimo amico, che cercavo di piangere, e mi arrivavano le loro foto. Eh, le foto fanno memoria! Cementano l’amicizia. Sono così carine quelle due. E io le conservo le foto, sempre.

     
     
    Ecco, quindi. Prima del terremoto io avevo a L’Aquila questa bella agenzia di consulenze. Sa, terreni, case, fabbricati industriali. E mi arriva un giorno questo signore di Alessandria. Mai visto prima, eh! Che mi spiega che si sta comprando un’azienda qui a L’Aquila, di proprietà delle Partecipazioni Statali. E mi spiega anche che, però, ha anche dei problemi finanziari con le sue aziende su in Piemonte. Allora io mi prendo il dossier e ci studio un po’ su. Mi ci è voluto, per capire bene cosa fare. Però lo studio rende liberi, eh!? Quindi lo convoco, e gli spiego il sistema. Lui allora acquisisce la proprietà dell’azienda. Poi cede, “ nummo uno ”, a un euro, per capirci, il capannone industriale ad una società immobiliare svizzera, in cui è presente suo padre nel Consiglio d’Amministrazione. E questa società, a sua volta, cede il capannone industriale in leasing finanziario ad una società lombarda di proprietà della famiglia, che, a sua volta, affitta il capannone all’azienda aquilana diventata di loro proprietà, così, immediatamente, gli entrano un po’ di soldi freschi in famiglia.

     
     
    E poi basta vendere un po’ di prodotti dell’azienda aquilana alle sue aziende del nord. Così le aziende del nord li possono commercializzare e incassare il guadagno netto, e quella aquilana iscrive il venduto a bilancio sotto la voce dei crediti inesigibili. Ho forse colpa io se poi l’azienda aquilana è fallita? Bastava che riuscisse ad allargare il giro di mercato, e alimentava tutto il sistema. Non ce l’ha fatta, e pace. Era tutto legale, eh! Tutto scritto sui bilanci depositati in Camera di Commercio a L’Aquila in corso Vittorio Emanuele. Bastava che uno se li leggesse i bilanci, anche se un aiuto con la depenalizzazione del falso ce lo hanno pure dato. E poi, pensi, ho saputo, per certo, che il Prefetto dell’epoca, a chi gli chiedeva cosa succedesse in quell’azienda che stava andando a gambe per l’aria, rispondeva che mica si poteva chiedere ragione di certe politiche di bilancio. Gli imprenditori del Nord, si sa, sono un po’ gelosi della loro autonomia. Non sta bene fare certe domande. Eh, sì! L’Aquila non è fortunata coi prefetti. Chi cuor di leone, chi cuor di iena.

     
     
    E io mica c’entro qualcosa poi con il fatto che dal fallimento il capannone industriale se lo è comprato qualcuno, non so come, e poi lo hanno affittato all’Università. Certo, come affare è stato ottimo. Vendere e comprare e affittare, da privati, qualcosa che era stato costruito con i soldi pubblici. Tutto legale, eh! Però è così che si trasforma l’economia industriale in economia finanziaria. Scompaiono gli stipendi di chi lavora, eh, vabbè. Però i soldi girano, l’economia pure. Qualcuno è ricco ed è rimasto ricco, qualcuno lavorava ed è rimasto povero. E’ la vita. Oggi a te, e domani pure. Il cemento funziona sempre come affare, mi ascolti. Si figuri il cemento! Ce li portavo io gli imprenditori del cemento a fare la fila dal Sottosegretario. Alla sfilata del perdono. C'era una processione dentro la processione. Sì, proprio lui, quello sposato, che però lo sanno tutti, che c’ha l’amico. Ora io dico, non sono razzista, eh! Ma lei sa, se uno vede un ragazzo e una ragazza che si baciano per strada, uno l’occhio a lei ce lo butta, soprattutto se lei è una bella fregna, con rispetto parlando. Ma se lo immagini se vede due uomini in strada che si baciano. Non si può vedere, dai! Se stanno a casa loro sono liberi di fare quello che vogliono, per carità, pure se è contro natura. Ma in pubblico no. E mica sono razzista io, lo sottolineo.

     
     
    Però da quel Sottosegretario ce li portavo, sì. E il perché è semplice. Avevano bisogno di lavorare. Io aiuto. Se lei lo trova, c’è un bellissimo libro, grosso, tutto pieno di fotografie e di storie e di scritte, e di tabelle coi costi del Progetto C.A.S.E. Lo hanno realizzato le imprese che hanno vinto gli appalti del Progetto C.A.S.E. Insieme con la Protezione Civile. Però poi, se lei va sul sito della Protezione Civile, ci sono altre tabelle coi costi sostenuti, che stanno scritte piccole piccole. E mica sono uguali i costi, rispetto a quelli del libro. Questo non significa niente, per carità. Magari è la stessa differenza che c’è tra un detersivo che lava bianco che più bianco non si può, secondo la pubblicità, e il bucato che ti fai a casa con quel detersivo, che poi non è proprio bianco bianco, ma la colpa è del calcare dell’acqua, no? Ed è la stessa differenza che c'è tra raccontare tutta la verità a un bambino, e dirgli qualche piccola bugia per il suo bene, no? E poi, se mi permette, adesso basta con queste storie del terremoto. Che mi sono stancato pure io di sentirle e raccontarle. Ormai stiamo oltre, no? Dobbiamo pensare al futuro e metterci una bella pietra sopra. Tanto, già chi se lo ricorda più quello che è successo davvero? La memoria in certi casi, aiuta, in altri, pesa e non serve. Impedisce il movimento. E poi, come si dic ? Chi muore giace, e chi vive si da' pace.

     
     
    “ Ha finito? “
    “ Sì “
    “ Avvocato, lei ha niente da aggiungere, a quanto detto dal suo cliente? “
    “ No “
    “ Allora, signor Piscialetta, firmi il verbale di - Dichiarazioni spontanee di imputato in reato connesso - “
    “ Bene “.
    “Sergente maggiore Lorusso, lo può riportare in cella, adesso. E, mi raccomando, se dovesse toccarlo, poi si lavi le mani con l'alcool “.

     
     
     
     
     

  • Fatti e Storie

    Storie fantastiche dal cratere aquilano. "Agostino"


    L’AQUILA - Agostino aveva 12 anni. I capelli rossi e riccissimi. Una faccia piena di lenticchie e di schiaffi. Era alto e magro come un pioppo secco.  Si muoveva a scatti, di velocità elettrica, e non restava mai fermo nello stesso posto per più di cinque minuti. A scuola, infatti, per rispettare la disciplina, senza farsi vedere, ogni giorno, si sfilava la cintura dei pantaloni e, con quella, si legava una gamba ai piedi del banco, il che creava  problemi quando un professore lo chiamava alla lavagna. Una volta si beccò una nota sul registro di classe, per questo. “Perché l’alunno, con somma improntitudine e presta intelligenza metaforica e sediziosa, chiamato alla lavagna per essere interrogato, cercava di giungervi trascinando seco tutto il banco e con i pantaloni pericolosamente cadenti sui glutei”. Due giorni di sospensione. E quattro giorni di urla per far smettere l’intera classe di ridere.

     
    Agostino viveva con la sua famiglia in una casa a Roio Piano. La casa si era salvata dal terremoto, riportando soltanto qualche danno superficiale, ma non così per la vecchia stalla che era costruita lì accanto e che, un tempo, ospitava il trogolo del maiale e un paio di placide vacche da latte, che fabbricavano un burro giallo e buonissimo. La stalla si era inclinata da un lato. Come se il vento avesse cercato di sradicarla e trasformarla in un aquilone. Dentro la stalla, animali non ce n’erano più, da tempo ormai, e c’era rimasto solo odore di vecchia cacca ormai anestetizzata, e di freddo pietroso. Ma era rimasta in piedi, anche se un po’ staccata dal muro, la scala che saliva verso il soppalco della stalla, poco sotto il tetto, colmo di vecchia paglia e bauli dimenticati.
     
    Quella scala era una tentazione continua, per Agostino. Ci voleva salire sopra, sin da quando aveva sei anni. Prima, non si poteva, perché c’erano gli animali. E poi, non si poteva, perché le crepe del terremoto, se si fossero ulteriormente aperte sotto i suoi piedi,  avrebbero potuto scaraventarlo a terra da un’altezza di almeno 5-6 metri.  Voleva arrivare fino al soppalco, e guardare dentro i bauli, che immaginava nascondessero una vecchia mappa del tesoro, pronta a guidarlo verso un’isola deserta nei mari del Sud, disseminata di trappole, mostri e ragazzine coi capelli rossi che lo aspettavano.
     
    L’occasione giusta si presentò dopo una brutta influenza, che lo aveva tenuto a letto per una intera settimana, durante la quale aveva mangiato solo brodini e lattemiele, e, per questo, era talmente dimagrito, che si potevano contare i battiti del suo cuore guardandogli il petto. Così leggero, poteva provare a salire su quelle scale pencolanti, con una sufficiente certezza di farla franca e di non far crollare tutto. E fu così che, una mattina, mentre la madre e il padre erano a lavoro, e lui era appena convalescente, decise di avventurarsi.  Si vestì con tre maglioni, un casco da pattinatore, e, trovata geniale, recuperò un grosso salvagente estivo per il mare, lo gonfiò e se lo mise addosso, come ammortizzatore sociale per la possibile caduta.
     
    Iniziò con estrema cautela la salita. Ma, arrivato a metà della scala, quando ormai il pavimento sotto di lui sembrava il fondo di un pozzo lontano e oscuro, fu preso dalla frenesia e cominciò a correre verso l’alto, senza respirare, quasi volando, e atterrò sul piancito del soppalco. Lassù l’aria sembrava più buia e  densa, di promesse e pericoli scricchiolanti. Vecchie ragnatele polverose pendevano dal tetto, oscillando al suono tenue del vento che penetrava tra i mattoni. E sembravano volerlo appiccicare, fermare. Ma Agostino aveva gli occhi luccicanti e subito mise le mani su un vecchio baule marrone, dalla grossa serratura di ferro nero, però indifesa, senza lucchetto. Ne sollevò il coperchio curvo e sembrava che, dal fondo, uscisse una specie di chiarore rosa, di cianfrusaglie libere dalla ruggine del tempo. Non c’era una mappa del tesoro lì, ma proprio il tesoro stesso.
     
    Dentro una piccola sacca di stoffa erano custodite vecchie biglie di plastica. Per metà colorate e per metà trasparenti. E celavano dentro, un po’ annebbiate dai graffi sulla plastica, vecchie foto di ciclisti. Van Linden, Basso, Gimondi, De Vlaemink, Merckx… Agostino se le rigirava tra le dita, come perle estratte da un forziere di conchiglie, e cominciò a capire il senso  di qualche vecchia storia raccontatagli dal padre. Il giorno dopo, Agostino sarebbe dovuto rientrare in classe dalla malattia. La mamma gli aveva consegnato il certificato medico, per la riammissione a scuola dopo l’assenza, e la merenda. Ma, insieme ai quaderni e le penne, nello zaino, Agostino aveva infilato il sacchetto di stoffa e l’idea di marinare le lezioni. Bastava modificare un po’ i numeri dei giorni sul libretto delle  giustificazioni e avrebbe avuto una mattinata storica a disposizione. Scese dal bus a Colle Sapone; evitò di imbrancarsi con gli altri ragazzi nei bar lì vicino, gonfi di slot machines e alcoolici, ma vietati ai minori, e cominciò ad incamminarsi verso Collemaggio.
     
    Arrivato al grande prato verde, che sapeva di non poter calpestare, si diresse verso il Parco del Sole. Era una mattina fredda e gonfia di sole azzurro. Che gli metteva rosso sulle guance e pepe alle gambe. Superato l’ingresso del parco, si diresse alla sua destra, verso uno spiazzo brullo. Lì si fermò. Scelse una pietra appuntita e un pezzo di ramo d’albero e cominciò a scavare la terra. Doveva realizzare il percorso per le biglie. Un circuito da corsa, tutto curve e salite, e discese. E il traguardo in fondo, come un miraggio che però si poteva finalmente toccare. Gli facevano male le mani e le braccia per la fatica del terreno duro di ghiaccio, e sudava. Ma ormai aveva scavato per oltre dieci metri, un piccolo fossato pronto ad accogliere le sue corse; pronto ad ascoltare le sue urla da tifoso che però gareggiava. Quando un’ombra gli si parò davanti, facendogli alzare lo sguardo.
     
    Era un Vigile Urbano. Tutto vestito di pelle nera. Con un casco in testa, da motociclista, dal quale pendevano due lembi di tessuto che lo facevano assomigliare ad un soldato della Legione Straniera.
    -          Che stai combinando ? –
    -          La mia pista delle palline, non vedi ? –
    -          Non puoi. –
    -          E perché non posso ? –
    -          Perché qui a l’Aquila non si può costruire nulla senza permesso. –
    -          E che vuol dire ? –
    -          Vuol dire che, se vuoi costruire la pista delle palline, ti devi trovare uno sponsor. Poi devi elaborare un project financing e presentarlo alla Giunta Comunale. E la Giunta Comunale lo deve inserire nel Piano di Ricostruzione, in variante al Piano Regolatore Generale. E poi devi aspettare che il Consiglio Comunale non sia informato, ma lo approvi. E, infine, ti devi trovare una ditta, tra quelle presenti nella White List e affidarle l’appalto dei lavori, fermo restando che la Banca con cui hai costruito il Progetto, te lo finanzi regolarmente e non faccia la furba… -

    -          Scusi signor Vigile… -
    -          Dimmi ! –
    -          Ma se la mia pista la rivesto tutta di legno ? –
    -          Allora, è regolarmente abusiva e la puoi fare. –
    -          Grazie, signor Vigile . -