Articles by: Flavia Bagni

  • Le università dei baroni e dei vassalli. Intervista a Nicola Gardini

    Nicola Gardini ha gli occhi vivaci e un sorriso gentile.  È a New York per presentare il suo libro “I Baroni”, casa editrice Feltrinelli, storia vera di un ricercatore che dall’Italia è fuggito per poter lavorare.

    Lo incontriamo nella biblioteca delle Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University poco prima dell'evento. Risponde generosamente alle nostre curiosità. Domande che sembra aspettare con ansia da anni.

    'I Baroni' non è un romanzo né un’inchiesta né una autobiografia, ma un memoir che nasce dalla voglia di raccontare un’esperienza; non “la verità”, ma una verità. Ne parliamo con l’autore e ne nasce una bella chiacchierata sull’università italiana e le sue regole non scritte, ma non solo.

    Prima difficoltà: come tradurre dall’italiano all’inglese la parola “Baroni”? E si intuisce la distanza culturale di due mondi, quello italiano e quello anglosassone, almeno per quello che riguarda il sistema accademico e della ricerca universitaria.
     
    Ci puoi raccontare la tua storia? Oggi presenti il tuo libro...

     
    "Mi sono formato in Italia, sono laureato in lettere classiche; subito dopo la laurea sono venuto negli Stati Uniti e ho preso un PhD in letteratura comparata proprio alla NYU. Sono rientrato in Italia avendo vinto nel frattempo, mentre facevo il dottorato qua, un concorso per i licei come docente di latino e greco. Quindi, preso il PhD avevo questa possibilità di lavoro  e sono rientrato. Ho insegnato nei licei per diversi anni, dopodiché ho vinto inaspettatamente un concorso da ricercatore in letteratura comparata.

    Questo avveniva nel 1999. Dal 1999 al 31 dicembre 2006 sono stato ricercatore all’ateneo palermitano. Ero residente a Milano, che è la città dove ho quasi sempre vissuto, a parte gli anni americani, e al terzo tentativo ho vinto un secondo concorso, prendendo un’idoneità da associato. Tutto questo  è raccontato nel libro.
    Cosa è successo... è successo che io sono entrato all’università “per errore”... o diciamo per caso: chi aveva bandito il concorso decise di non assegnare il posto da ricercatore al candidato interno, e quindi tra i vari litiganti, godetti io.
    Di questo non mi resi subito conto, pensai di essere stato premiato per le mie oggettive capacità, ma in realtà quelle servirono come alibi alla commissione che mi fece passare: in teoria deve vincere il candidato interno; questo non è scritto da nessuna parte, ma non c’è commissione che non faccia gli interessi dell’ateneo dove il concorso si tiene."

     
    Anche perché spesso esiste un accordo fra atenei…
     
    "Esatto... quindi io mi ritrovai a lavorare in un luogo ostile, che non mi aveva voluto…"
     
    Tu non sapevi come funzionavano le cose?
     
    "No, non ne avevo nessuna idea, e infatti ho vissuto nell’equivoco per diversi mesi. Non sapevo come interpretare certi segnali; anzi, non conoscendo bene i palermitani, non conoscendo la Sicilia, se non come turista, imputavo evidenti dispetti, evidenti maltrattamenti, un evidente mobbing, ad atteggiamenti di diffidenza iniziale, a una specie di sospettosità magari un po’ meridionale. Non mi rendevo conto invece che loro mi consideravano un invasore e un intruso."
     
    Riuscivi a fare il tuo lavoro?
     
    "No, assolutamente no."
     
    Quanti anni avevi?
     
    "35 anni. Io poi non pensavo neanche di farcela. Avevo la mia cattedra di latino e greco al liceo e pensavo di stare lì per un certo numero di anni e poi eventualmente di tornarmene in America, cosa che poi è realmente successa, ma attraverso un percorso più complicato.
    Quindi si, mi fu fatta un’accoglienza gelida, non mi venne dato subito l’ufficio, dovetti aspettare, cioè tutta una serie di cose che ho raccontato con grande dettaglio nel libro.
    A un certo punto la situazione è diventata molto negativa: una volta vinto il concorso da associato, mi fu intimato di "non scendere più".
    Anche questo concorso l’ho vinto quasi per caso. Mi fu concesso al terzo tentativo per una serie di meccanismi automatici del sistema, per cui avendo tentato varie volte, a un certo punto questa idoneità da associato mi andava data. Con l’idoneità, tu non vinci il posto, ma vinci il titolo da associato. Il posto va creato, e il titolo ha una scadenza di tre anni. Per cui io mi ritrovavo con un titolo da associato e la necessità a questo punto di venire "chiamato" da qualche ateneo che avesse crrato un posto e volesse darlo a me. Questo in genere avviene nell’ateneo in cui tu già sei dipendente, perché esiste già un budget, l’ateneo non deve fare nessuno sforzo, se non quello minimo di aumentare di poco il tuo stipendio; quindi chi prende un’idoneità di solito viiene chiamato entro i 3 anni dalla sua università.
    Mi fu subito fatto capire con chiarezza che loro non mi avrebbero chiamato, ma a me faceva anche comodo, detto inter nos, perché avendo ricevuto una tale accoglienza da ricercatore, immagina che vita avrei potuto continuare lì.
    Uno spiraglio invece si aprì perché 'Corona', il barone che io nel libro chiamo così…"
     
    Sembra una spy story...    
     
    "Si… questo Corona a un certo punto dice che c’era una possibilità, mi avebbe fatto avere una supplenza altrove, la supplenza doveva trasformarsi in chiamata, quindi a un certo punto io sarei andato via da Palermo. Poi questo non avvenne perché all’ultimo minuto il barone decise di assegnare il posto a qualcun altro, quindi io rimasi ancora pendolante. Da solo, con molta fatica, mi trovai un’alternativa a Padova, che non era nella cartina del barone – stranamente questa era ancora zona franca, non colonizzata – e riuscii con rara abilità a estorcere la promessa di una chiamata in questo ateneo che a me non doveva niente. Ero entrato nelle grazie di un direttore di Dipartimento e lì fui tenuto in ballo per un sacco di tempo, un anno e mezzo. Nel frattempo l’idoneità invecchiava e iniziava anche a puzzare un po' come il pesce...
    Poi neanche a Padova successe qualcosa, perché cambiarono ancora una volta le carte in tavola, stavolta forse non per cattiveria ma per ragioni tecniche; insomma, non fu trovato il budget, per cui era chiaro che io dovessi andare via.
    Insomma, io avevo vinto dei concorsi, mi ero impiegato in un’università che mi avrebbe dovuto usare, eppure non c’è stato modo di lavorarci."
     

    Quanti anni hai passato in questa situazione?
     
    "Sette, dal 1999 al 2006."
     
    “Non c’è stato modo di lavorarci”. Che vuol dire, tu che facevi?
    "All’inizio, quando ancora non avevano capito che ero un appestato, mi adoperarono un pochino per gli esami, e feci dei seminari.
    Progressivamente le ore di insegnamento mi vennero ridotte fino all’estinzione completa perché si capiva che ci sapevo fare, gli studenti erano contenti, quindi dimostravo di essere utile, ma loro non volevano me, assolutamente.
    La candidata interna che avrebbe dovuto vincere e alla quale io portai via il posto, nel frattempo, era ancora lì; quindi, se io mi fossi reso così indispensabile, mi fossi integrato così come sembrava possibile che accadesse, per lei non si sarebbe creata una seconda possibilità di impiego perché sarebbe stata superflua. Di conseguenza, quando si vide che io potevo fare delle cose, mi vennero tolte le occasioni per farle.
    Quindi a un certo punto mi ritrovai semplicemente senza nulla da fare.
    A parte i numerosi dispetti di chiamarmi quando non ce n’era bisogno, ad esempio compravo il biglietto aereo arrivavo e non c’era la riunione e tutta una serie di episodi che ho raccontato nel libro."
     
    Ma nel frattempo continuavi la tua ricerca...
     
    "Assolutamente si, devo dire che sono stati anni anche di grande libertà perché loro, non volendomi, mi davano l’autorizzazione ad andare anche all’estero. Per cui ho fatto anche due visiting professorships alla Columbia University, dove a un certo punto ho anche avuto la proposta di una junior position che però non ho accettato perché credevo ancora di avere molte possibilità in Italia. Quindi insegnavo lì, e alla NYU a Firenze, sempre in luoghi e posti di prestigio…"
     
    Quali erano le differenze che trovavi allora, e che forse ora vedrai in maniera più chiara, tra il sistema universitario italiano e quello straniero?
     
    "Le differenze sono abissali, nel senso che le caratteristiche baronali, di un sistema nepotistico e corrotto dell’università italiana, in America e in Inghilterra non esistono.
    Esisteranno delle forme di favoritismo, però l’obiettivo principale dell’accademia americana, dei singoli atenei, dei direttori di dipartimento, non è considerare una missione professionale un privilegio – come accade in Italia – ma fare il bene del dipartimento. Esiste in America un’etica del lavoro accademico che in Italia non esiste; e non esiste nemmeno presso quei professori-baroni che si sono magari anche distinti nel campo della ricerca. L’eccellenza nel campo della ricerca a volte non si accompagna a un’eccellenza etica. Però ci sono e ci sono stati tutto sommato baroni anche buoni, cioè baroni che hanno colonizzato l’accademia per mandare avanti una loro scuola."
     
    Tutto questo, se non porta a devianze del sistema, può non essere del tutto sbagliato, nel senso che una persona valida nella sua ricerca può essere sponsorizzata…
     
    "Certo ed è forse anche l’unica cosa possibile, perché il sistema purtroppo recluta solo attraverso questi benedetti concorsi; cioè non c’è altra via se voglio assumere quel certo personaggio che conosco e stimo e sul quale ho investito: devo brigare perché la commissione me lo mandi…"
     

    Tu parli di “sistema”, ma forse il problema è più nella cultura che nel sistema. Sicuramente la prima cosa che un giovane nota quando viene negli Stati Uniti è la considerazione che riesce ad avere da professori anche molto importanti; ad esempio il fatto di poter presentare una relazione ad un convegno quasi subito, se ha esplorato un campo di ricerca interessante…
     
    "Si, questa è una cosa sacrosanta. Il mio libro infatti è un attacco proprio alla gerontocrazia, e questo avviene in più punti. Addirittura c’è una parte chiaramente simbolica dove racconto il mito di Ippolito, cioè il figlio maledetto dal padre che viene poi squartato dai cavalli di Poseidone e miracolosamente ricomposto altrove da Eusculapio, il dio della medicina. Altrove però, e deve proprio abbandonare il paese del padre e farcela da un’altra parte. Il libro è pieno di vecchi malvagi — anche se ce n’è uno buono, un barone-non-barone, che è stato il mio maestro di latino all’università e con cui mi sono laureato; dovevo per forza mettere un esempio buono anche per creare un evidente parametro positivo rispetto al quale poi misurare la corruzione degli altri… Però si, in Italia, il giovane è mortificato; non c’è stima nei suoi confronti. Adesso lavoro a Oxford e sono veramente ammirato dall’umiltà con cui tutti i miei colleghi parlano dell’eccellenza sincera di tutti i nostri studenti. A volte anche con un eccesso di ingenuità, o comunque con una punta di retorica che non ho ancora fatto mia. Però davvero c’è una fiducia completa nell’intelligenza della gioventù. Questo atteggiamento in Italia non c’è assolutamente; per cui il giovane viene continuamente mortificato, fatto invecchiare, messo in salamoia, tirato fuori con le rughe."
     
    Per cui oggi nell'accademia italiana abbiamo questi giovani tra i 35 e 50 anni  in salamoia? Questa generazione che rimarrà sempre piccola e non sarà mai grande? Non potrà mai fare carriera?
     
    "Assolutamente sì. Tutto questo per questo sistema baronale. I baroni stanno facendo dei danni enormi"
     
    Ma chi sono, insomma, questi baroni?
     
    "I baroni sono figure di potere istituzionale che hanno cambiato la missione affidata a loro per un privilegio. Quindi non lavorano per il bene del sistema, ma per l’autopromozione; è il software che ha la meglio sul documento, cioè il contenuto si è completamente smarrito e si perpetua in una serie di rituali che sembrano fini a se stessi; in realtà il fine c’è, ed è appunto l’auto promozione del barone, l’acquisizione di potere, il suo mantenimento e il suo accrescimento. Quindi il barone chi è? È una figura metamorfica, camaleontica, priva di ideali, con degli obiettivi pratici - appunto l’autopromozione -, capace dei più vergognosi voltafaccia, delle incoerenze più bestiali, che non ha però assolutamente coscienza della contraddizione. Il barone è  quasi mercuriale insomma, è di un trasformismo quasi ammirevole, perché come obiettivo ha quello di non perdere mai il potere."
     
    Come mai hai deciso di scrivere questo libro? Che tipo di lettore immaginavi?

     
     
    "I giovani. L’ho scritto parlando: il tono è quello della conversazione, del dialogo, della testimonianza sicuramente; questa è una voce che avevo già messo in luce nel libro precedente, in cui raccontavo una vicenda altrettanto interessante, una malattia mentale, e i destinatari sono i giovani.
    Non l’ho scritto subito con l’idea di una denuncia; non volevo né vittimizzarmi né togliermi il sassolino dalla scarpa, assolutamente. Lo lo dico nelle ultime pagine, nell'ultimo capitolo del libro, quando racconto del concorso vinto ad Oxford, che avevo solo voglia di andarmene, io non vedevo l’ora di licenziarmi, anche se dei colleghi, degli amici accademici, incluso uno che faceva il co-rettore in Bocconi, mi dicevano: 'Ma perché ti licenzi subito, continua a prendere qualche stipendio no?'.
    - 'No, io non vedo l’ora di andarmene', rispondevo.
    Basta, io volevo chiudere e non volevo certo mettermi a raccontare tutte queste cose, non ho scritto nulla a queste persone, non ho scritto neanche la lettera ai giornali che tutti mi dicevano di scrivere… niente, io volevo andarmene."
     
    Quando hai deciso di scrivere "I Baroni"?
     
    "Dopo un anno che ero a Oxford, ho visto questa come una storia veramente compiuta, raccontabile, interessante, dove la voce di narratore che avevo messo a punto nel libro precedente, aveva proprio voglia di mettersi a parlare. Mi sembrava di avere anche un dovere di testimoniare. Insomma, io sapevo delle cose, e le sapevo raccontare meglio di altri, perché non farlo. Così mi ci sono messo. È stato anche il fatto di essere a Oxford, in un mondo così diverso, così migliore, a farmi acquisire una coscienza nuova di quello che avevo vissuto."
     
    Come sei riuscito a farlo pubblicare?
     
    "L’ho scritto anche abbastanza rapidamente a Oxford, un po’ anche in una vacanza, e poi l’ho revisionato in più momenti. Diciamo che ci ho messo qualche mese. Ho un agente molto bravo, un uomo di grande cultura che si chiama Marco Vigevani, il quale ha subito creduto in questo libro; non gli editori, invece, dei quali non faccio i nomi. Però tutti mi dicevano: bello, scritto bene, colto, perché poi è anche pieno di inserti meta narrativi che mi sono serviti a creare una voce autorevole e rispettabile che giustificasse la ragione per cui parlavo dell’ingiustizia subita. Se avessi creato una voce

    semplicemente giornalistica non sarebbe bastato, non sarebbe stato interessante; era interessante leggere il racconto di una voce rispettabile per il lavoro che aveva scelto di fare, quindi si parla di letteratura, di tante cose, tutte ovviamente legate al lavoro.
    Marco Vigevani ha molto apprezzato come è stato fatto il libro, ma gli editori appunto dicevano: 'bello, pieno di cultura, ma è il tuo caso, non è emblematico; perché non parli anche dei medici per esempio? Perché non fai un’inchiesta?'
    Alla fine Feltrinelli ha amato questo libro moltissimo. Il libro è andato in lavorazione subito. C’è stato un concerto di adesioni sentite per come era scritto, per quello che raccontava, e per come lo raccontava, e quindi hanno detto che il libro andava fatto immediatamente; abbiamo lavorato tantissimo, anche ripensando a certe cose, la struttura è rimasta quella, così come la scrittura; abbiamo limato le parti che potevano essere offensive o molto forti, che avrebbero forse anche indebolito la pulizia del racconto che è quasi più oggettivo adesso che sono sparite tutte le pance… quando dicevo: quel ciccione di … 'ciccione' non c’è più… ma è giusto così.
    Ecco come sono arrivato a pubblicare: con un po’ di lungimiranza di questa casa editrice che però ha una tradizione di sinistra, di lotte, e di provocazioni."

     
    Secondo te la tua storia è rappresentativa di una situazione  generale in Italia?
     
    "Altroché, molto rappresentativa di tutto un sistema; io non faccio che ricevere mail di gente che mi ringrazia per aver raccontato come nessuno aveva fatto prima…  libri sull’università ne sono usciti diversi ultimamente, tra l’altro è uscito un libro abbastanza buono di Perotti, per Einaudi, che si chiama 'L’università truccata', che poi è un libro molto tecnico, con delle proposte di riforma, ed è fatto da un professore della Bocconi, che ha una cattedra anche alla Columbia University… il mio è proprio un memoir, è un pezzo di vita vissuta, e io credo moltissimo nel valore gnoseologico del racconto in prima persona… Chi mi ha seguito in questi anni - anche il mio compagno, che è francese - dice: ‘Devi fare anche riferimento ai medici, perché un conto è non imparare la letteratura comparata, un conto è far morire una persona sotto i ferri’. Ma io questo argomento non lo accetto perché la letteratura ha veramente un peso importantissimo nella formazione degli individui. È vero che se ti faccio morire di emorragia ho delle colpe più quantificabili e più circoscrivibili, ma dimenticare che attraverso la letteratura tu formi un senso critico e progetti di vita, questo è un danno enorme. L’atteggiamento verso la storia, la diversità, le culture, insomma, attraverso l’insegnamento letterario passa un’infinità di cose, non è soltanto l’operazione, noi non siamo soltanto soggetti ai ferri del chirurgo. Ci sono i ferri della vita che sono altrettanto pericolosi e la letteratura ci aiuta a vivere."
     
    Reazioni dalla Sicilia ce ne sono state? 
     
    "Mi ha scritto uno della Amministrazione, quello che mi ha aiutato a licenziarmi, dicendo: 'Professore, lei non si ricorderà di me, ma io sono quello che l’ha aiutata a fare le pratiche di licenziamento; ho letto il libro, molto amaro, congratulazioni, le posso assicurare che in Amministrazione le cose non vanno diversamente'. I baroni tacciono ovviamente.
     
    Come si fa secondo te a scardinare questo sistema, che non è solo un sistema, ma è anche una cultura? Te lo sarai chiesto no, da dove si comincia? Non credo che basterebbe fare una riforma, perché poi riforma alla mano si troverebbero i modi di aggirare gli ostacoli…
     
    "Ma guarda, io non ho molta fiducia… io me ne sono andato per quello; avevo voglia di far crescere l’università; credo nell’istruzione, credo nella letteratura, sono convinto che sia una delle grandi discipline salvatrici del mondo e me ne occupo in un posto che mi dà la libertà di farlo. Quindi io le mie forze le adopero altrove, cioè dove mi è consentito farlo.
    A lavorare in Italia non tornerei mai, non ho fiducia negli italiani; non ho fiducia nei baroni, ma non ho fiducia nemmeno nel mio Paese."
     
    E a un giovane ricercatore che inizia adesso e vuole fare ricerca e rimanere all’università n Italia, che consigli gli daresti? Gli diresti di andarsene?
     

    "No, questo non posso dirlo perché ognuno poi sceglie di andarsene o di restare secondo la sua vita, i suoi impulsi, la sua storia. Però, questo libro credo che possa dire a qualcuno di tenere gli occhi aperti e di guardare anche altrove.
    Occorre secondo me aprire questo sistema. Questo è un sistema che si continua a riformare su se stesso. L’università è un virus mutante."
     
    Ma se un ragazzo in Italia vuole fare ricerca, deve avere una famiglia ricca… passare anni ad anni ad aspettare e magari lavorare gratis.
     
    "Infatti, ci vogliono più soldi per la ricerca, ci vogliono graduatorie, ranking dei dipartimenti per cui occorre classificarli e distinguerli in centri di serie A e di serie B. Quando questo sarà evidente voglio vedere se un barone si adopererà  per portare nel suo dipartimento una persona poco qualificata che non gli consentirà di ricevere dallo stato dei soldi, non attirerà studenti, e sarà costretto a chiudere.
    Occorre dinamizzare il sistema dall’interno, cioè occorre creare della concorrenza virtuosa.
    Penso che così si crei mobilità: i docenti si spostano, i dipartimenti migliori tendono ad acquisire i più validi… è giusto che un padre che spende dei soldi per mandare il figlio all’università, scopra se quei soldi sono ben spesi; perché se scopro che sto spendendo dei soldi per un’istruzione che non vale un fico, io quei soldi li uso per un’altra università. Credo che trovare dei modi di dinamizzare e creare competizione interna, una dialettica che inserisca parametri e modelli in conflitto, possa far nascere delle alternative."
     
    In Italia si insiste tanto sulla questione del ritorno dei cervelli che sono andati all’estero, e non si cerca mai di capire come mai tutto il resto del mondo non va in Italia…
     
    "Non vengono perché non ce la fanno gli italiani, figurati… tra l’altro anche questa cosa del rientro dei cervelli è una pagliacciata: ti fanno rientrare per tre anni e poi non ti danno niente.
    A me uno di questi "cervelli rientrati" ha scritto: “Ti ringrazio per questo libro che mi fa venire voglia di tornare là dove ero, cioè in America. Sto già cercando un posto per quando questo contratto scadrà, nessuno mi ascolta”. Perché appunto la logica baronale e nepotistica fa sì che anche chi è stato riportato a casa ne soffre… le istituzioni devono smetterla di far finta che il sistema baronale non esista, devono capire che devono scanzarlo…"
     

    Questo potrebbe essere l’inizio di un tua missione?

    "Forse si, cosa che invece all’inizio non mi sembrava possibile. Il libro all’inizio lo avevo in testa, ma non pensavo che un editore lo avrebbe usato in questo modo. Cioè, pensavo che lo avrebbe forse anche un po’ abbandonato, messo al mondo e lasciato andare con le sue gambe, e invece c’è davvero un investimento molto grande su questo libro. Vorrei anche usarlo bene questo libro. Anzi adesso le prime reazioni, che sono molto immediate e molto fresche, di padri, di madri, di ragazzi che mi riconoscono una responsabilità che non pensavo di avere, e mi piacerebbe usarla. È un’occasione, non so dove mi porterà, poi io in realtà sono anche uno studioso, quindi… Ma C’è stata una bella anticipazione su Repubblica e tante interviste, tante lettere, è nato un nicolagardinifanclub, su facebook, ho un blog su Feltrinelli…"
     
     
    Niente di positivo che ti può venire in mente sull’Italia? Oppure c’è qualcosa di recuperabile? C’è qualcosa che ti porti dentro anche all’estero che non si portano gli altri?
     
    "Io sono molto affezionato alla mia formazione di classicista, sono molto affezionato all’istruzione che l’Italia mi ha dato: il mio liceo classico, le mie lettere classiche. Ho dei ricordi bellissimi di quando insegnavo al ginnasio latino e greco ai ragazzini, e sono stati forse i momenti più belli della mia vita come insegnante. Però anche Oxford è molto bello, è il luogo ideale dove mettere a frutto tutto quanto."
     
    Com’è il tuo rapporto con gli studenti inglesi?
     
    "Buono, è tutto un altro lavoro, con problematiche e fini diversi, storie diverse e un concetto di cultura diverso; sono molto attivi, cioè sono padroni della propria educazione, e tu come docente li aiuti nel loro percorso, un percorso però che loro fanno e scelgono. Quindi sei proprio un mentore, un tutor, e non sei assolutamente il professore che apre le zucche e ci infila dei contenuti; in Inghilterra la conoscenza per la conoscenza non è un fine; l’obiettivo pedagogico principale è quello di aiutare degli studenti a sviluppare degli strumenti argomentativi in forma scritta soprattutto. Quindi si lavora sullo scritto, ogni settimana correggo centinaia di pagine, glosse, suggerimenti, ma tutto per aiutarli nel loro percorso."
     
    Come ti vedi fra dieci anni?
     
    "Non so, mi piacerebbe scrivere tanti libri."
     

  • Intervista. Odifreddi, il "Matematico Star" che si definisce "Stella Nana"

     Intanto, grazie.

    Inizio così questa intervista a Piergiorgio Odifreddi, matematico, logico e saggista italiano (questa la definizione che ne dà l’enciclopedia libera più famosa del mondo), con un ringraziamento sentito e molto poco professionale per l’emozione regalata durante la lettura de Intervista immaginaria a Galileo Galileo all’Istituto Italiano di Cultura lo scorso 10 marzo.
    Il professore torinese è a New York per la terza edizione del Festival della Matematica, che quest’anno ha previsto il gemellaggio Roma – New York: due date nella Grande Mela, 10 e 11 marzo, e dal 19 al 22 marzo a Roma.
    Odifreddi è il curatore del Festival, ma soprattutto è personaggio dalle mille anime, “matematico impertinente”, ateo, di sinistra, scrittore, saggista, uomo politicamente impegnato.
     
    Intanto grazie per la sua intervista impossibile a Galileo Galilei.
    Sono parole forti, ma sono parole sue. Io ho aggiunto le domande, ma il resto, sono parole di Galileo. La parte più dura da sentire è l’abiura: un uomo che si inginocchia e dice quelle cose… vengono subito in mente parallelismi con quello che succede anche oggi.
     
    Già, sembrano parole molto attuali.
    Oggi a New York si conclude la prima parte del Festival della Matematica che poi andrà a Roma. Ci fa un primo bilancio di questa esperienza newyorkese?
    Mi sembra che sia andata molto bene; certo non c’erano le folle che ci sono a Roma; ma in Italia abbiamo maggiori possibilità di essere sui media e di ottenere visibilità. Inoltre Roma, per quanto sia una città grande, non è New York: qui possono esserci centinaia di eventi in contemporanea.
    Se a tutto questo ci aggiungi che l’idea di un Festival di Matematica rimane un’offerta strana anche per l’America, direi che è andata molto bene.
    Stamattina all’Italian
     
    Academy per la conferenza con John Nash e Harold Kuhn sulla Teoria dei Giochi c’era addirittura gente fuori che non è potuta entrare. Anche per gli altri eventi le sale sono state sempre piene. Sia l’Istituto di Cultura, sia l’Italian Academy, che hanno organizzato il Festival qui a New York, ci hanno già chiesto di ritornare, quindi insomma vuol dire che anche dal loro punto di vista è andata bene.
     
    .
     
    Programmate di replicare il prossimo anno?
    Questo non lo so, perché tornare subito diventerebbe un’abitudine, e come diceva de La Rochefoucauld “Ogni abitudine diventa una cattiva abitudine”. Però, certo, prima o poi torneremo, magari tra due anni; si potrebbe alternare NY con qualche altra grande città e provare l’Oriente; a me piacerebbe molto Tokyo per esempio, che ha una scuola di matematica che è storicamente molto legata a quella italiana.
    I giapponesi hanno una grande tradizione in questo campo. Hanno preso 3 medaglie fields, che sono l’analogo del Nobel per la matematica. Una addirittura è molto antica, risale agli anni 50. Gli altri due premiati invece sono vivi e in particolare uno è molto giovane, ha una quarantina d’anni, è venuto in Italia e l’ho conosciuto. Ci sarebbe anche Kenzaburo Ōe, che ha preso il premio Nobel per la letteratura e che ha studiato da giovane matematica. Come vedi potrebbe essere interessante provare a fare un Festival a Tokyo.

     
    Lei sta guardando con qualche curiosità in questo momento al mondo orientale?
     Si, il mondo orientale mi interessa molto. Sono stato quattro volte in Cina e dodici volte in India; sommando le permanenze direi che ci ho passato più o meno due anni. Sono stato anche in molti paesi della cosiddetta Indocina, cioè Thailandia, Birmania, Cambogia, Malesia.

     
    Quando si parla di lei, e delle cose che fa, l’aspetto che stupisce più di tutti è la voglia e la capacità di connettere campi diversi. Mi può spiegare un po’ qual è la sua visione?
    Io credo che nasca tutto solo dalla costatazione che la cultura è unitaria, è olistica. Le divisioni sono artificiali, siamo noi che le mettiamo, e spesso le mettono coloro che conoscono solo una parte. Lo dico senza nessuna volontà di provocazione.
    Per gli umanisti è più difficile conoscere la cultura scientifica in generale, e quella matematica in particolare; se ci pensi, è molto raro trovare un umanista che si mette a leggere un libro di matematica, o anche solo di divulgazione, mentre invece il contrario è frequente, rientra nella normalità. Leggere romanzi, andare a vedere film, le mostre, la musica è parte della cultura, e quindi anche noi, che siamo studiosi di scienza e di matematica, ne usufruiamo; invece il contrario non accade.
     
    Gli umanisti non pensano che in fondo è una loro perdita non conoscere quello che succede nell’altra parte del mondo intellettuale. Per me è sempre stato naturale avere un approccio olistico: ho suonato il pianoforte, mi piace scrivere e mi piace la pittura; mio fratello per esempio è un restauratore di chiese e di sinagoghe, quindi per noi l’arte, la letteratura, la musica, sono sempre state parte della vita.
    Allora il fatto che mi sia interessato di scienza e abbia fatto in particolare matematica diventa soltanto un’estensione. Per me è come se fosse un tutto unico.
    Seguendo la stessa logica provo a divulgare la matematica: se parli di letteratura o di musica, la gente si incuriosisce e magari viene a vedere di cosa si tratta, ma se gli dici “adesso ti faccio un teorema”, va beh , lasciamo perdere… E allora questo diventa anche un modo indiretto di “accattivarsi” le simpatie, o per lo meno l’attenzione del pubblico. Cioè riuscire a ammannire la matematica, ma in maniera indiretta.
     
    Al Festival in parte lo facciamo, ma cerchiamo di non allontanarci troppo dal campo scientifico, perché altrimenti corri il rischio di sminuire l’interesse della matematica in sé se cerchi sempre qualcosa che non sia direttamente matematica.
    Al Festival abbiamo grossi matematici, premi Nobel nella scienza a cui chiediamo di spiegare il loro universo; oggi per esempio c’era un premio Nobel dell’economia, ieri un premio Nobel della fisica e hanno parlato di cose tecniche. Ma accanto a questi eventi puoi trovare la presentazione di un film per esempio, che è un modo indiretto per parlare dello spazio quadridimensionale, o la lettura di un’intervista impossibile.

     
    Che risposte ha dalle persone che poi vengono a seguire questi eventi?
    In parte la risposta è data dai numeri.
    A Roma vengano 60 mila persone, e questi sono numeri da sport, da stadio, non da matematica! Il primo anno è stata una sorpresa effettivamente perché non ci aspettavamo quella folla; non avevamo neanche predisposto un sistema di filtri: non si pensava che la gente sarebbe venuta.
    Anzi dicevamo: speriamo che non sia tutto vuoto. E invece è stato un successo. Come evento conclusivo della prima edizione del festival due anni fa c’era Nash, che per la prima volta faceva un’intervista da solo; abbiamo fatto vedere degli spezzoni del film Beautiful Mind, la cerimonia della premiazione del premio Nobel, e lui ha raccontato anche della sua malattia e dei suoi problemi. Eravamo nella sala Santa Cecilia a Roma, e c’erano 2800 persone dentro e altrettante fuori con i maxischermi; quindi 5000 persone a seguire una intervista con un premio Nobel dell’Economia. È vero che molti pensavano di venire a sentire Russell Crowe probabilmente, ma anche il secondo anno, per esempio, quando abbiamo avuto ancora Nash con un altro premio Nobel dell’economia, Daniel Kahneman, era pieno ugualmente.

    Quindi probabilmente c’è anche un interesse diretto, io credo. Per paura all’inizio io avevo detto: facciamo tante cose a lato, da mostre a concerti a spettacoli, ma le conversazioni, le lezioni di queste mente geniali, in realtà dimostrano che c’è anche un interesse direttamente legato alla matematica.

     
    Come si diventa “geni” secondo lei? Ci si nasce, ci si diventa, dipende da quanto lavoro e impegno ci si mette?
    Ma questo bisognerebbe chiederlo a loro; io ti posso dire quello che ho visto. In America dicono genius is 10% inspiration, 90% perspiration e io credo che quella più o meno è la proporzione giusta.
    Anzitutto bisogna non confondere le due cose; cioè, l’alfabetizzazione matematica, i conti e le formule, sono una cosa che tutti possiamo e dobbiamo saper fare, così come camminare: per esserne capaci non dobbiamo essere degli atleti. Certo se uno vuol correre i cento metri in 10 secondi, allora diventa più complicato.
    Con la matematica è la stessa cosa. Molti si fermano per la paura di non riuscire. Ma è una paura che si può superare; spesso è soltanto una questione psicologica e anche in parte di cattivo insegnamento, con mezzi, programmi, metodi che non sono adeguati.
    Nell’essere campioni ci sarà sicuramente una parte di attitudine, ma la grossa differenza la fa l’allenamento e il lavoro. Lo puoi vedere anche in queste giornate di Festival. Nash per esempio è sempre in prima fila, e viene a seguire tutte le conferenze e le lectio, e gli altri fanno la stessa cosa: vengono e non soltanto per fare le domande o per parlare; vengono e stanno a sentire gli altri, discutono. È un continuo acquisire nozioni.

     
    Durante queste due prime giornate i protagonisti del Festival erano sempre presenti, manifestando la voglia di condividere e di confrontarsi. Oggi per esempio si parlava di gruppi di lavoro; mi sembra una attitudine difficile da trovare altrove.
    È vero, perché la matematica e la scienza in generale sono scienze non individuali. Per la scrittura per esempio è diverso: se uno scrive una poesia o un romanzo è difficile che lo faccia con altri. Invece la scienza e la matematica si imparano spesso parlando. È difficile impararle soltanto sui libri di testo; studiare da soli si può, ma il modo più proficuo è quello di studiare con altri e questa impostazione la puoi verificare anche nelle interazioni che ci sono in questi giorni tra queste persone.

     
    Il sottotesto e ambizione di questo festival è “salvare il mondo con i numeri”.
    Salvare il mondo, quello mi sembra eccessivo, però certamente i numeri servono ad affrontare il mondo con più consapevolezza.
    A volte vengono presentati dei numeri senza che si dica che sono numeri inutili. Per esempio, se un giornale riporta nel titolo: “Si è scoperto che il 50% degli italiani ha un intelligenza inferiore alla media”, sembra un’informazione negativa sugli italiani. Poi però se ci pensi metà degli italiani sta sopra e metà sta sotto questa media; si è dato un numero che non spiegava nulla; è solo un modo

    per mascherare una banalità che viene presentata come un’informazione.
    Spesso i numeri da noi vengono dati così, cioè si tenta di far sembrare un’affermazione banale tecnica e scientifica. Bisogna saper leggere i numeri e le percentuali. L’analfabetizzazione matematica è come l’analfabetizzazione letteraria: si può vivere anche da analfabeti ho scoperto, però si vive in maniera meno consapevole. E si può vivere anche da analfabeti matematici o scientifici, ma si perde capacità di lettura, soprattutto nel nostro mondo che è un mondo tecnologico, basato quindi sulla scienza e in particolare sulla matematica.
    Il rischio è quello di finire con l’essere “condotto” dove qualcun altro vuole, ma senza essere consapevole.

     
    Lei passava una parte dell’anno qui in America, è ancora così?
    Lo facevo fino al 2003, poi ho smesso perché come diceva un grande matematico: la matematica è uno sport per giovani. Adesso mi diverto di più a fare il divulgatore, a scrivere libri, a organizzare festival, anche perché è giusto che siano i giovani a fare ricerca.

     
    Come vede adesso il mondo della ricerca in Italia?
    Io dal primo gennaio del 2008 sono in pensione dall’università, proprio per potermi dedicare di più a conferenze, festival, divulgazione. Avevo poco tempo per insegnare e seguire gli studenti, quindi ho preferito lasciare campo ai giovani. In Italia si tende a stare attaccati alla poltrona fino alla fine; per esempio adesso c’è una rivolta dei professori che non vogliono essere mandati in pensione a 70 anni….. va beh, se vogliono stare lì… io me ne sono andato a 58 e faccio altro.
    La ricerca la seguo meno, però so che ci sono molte difficoltà, in primis difficoltà di finanziamento. Questo governo taglia fondi, in parte perché la crisi esiste ed è reale, in parte perché si prende l’occasione, la scusa, per tagliare a pioggia da una parte e dall’altra tutto ciò che non porta quattrini, e in particolare la scuola e la ricerca.
    Questo mi sembra un atteggiamento molto miope: sarà anche vero che la ricerca non produce quattrini immediatamente, però è il capitale che si mette in banca per il futuro. E se non si investe nella ricerca, si diventa schiavi di altri, dell’America e dell’Oriente per esempio, per quanto riguarda l’informatica.

     
    Quando la definiscono “matematico star” che impressione le fa?
    Stella nana direi.
    Le star sono altre, e poi le star fanno parte di attività che non sono culturali; sono le star dello sport, della musica, gli attori o le star del cinema; stranamente anche, perché in fondo le stelle del cinema sono l’ultima ruota del carro, nel senso che sono l’ultima cosa che si vede. Il film più che altro è il prodotto del regista, dello sceneggiatore, e l’attore in fondo è una specie di contenitore vuoto che ogni volta si riempie di cose diverse. Io poi tra l’altro facendo adesso un po’ di conferenze e anche un po’ di spettacoli ho cominciato a conoscerne vari, ed è interessante vedere come spesso sono deludenti. Non tutti per fortuna. Benigni e Silvio Orlando, che ho conosciuto un po’ meglio, sono il contrario; Benigni per esempio è una forza della natura e anzi non credo che ci sia differenza da quando è sul palcoscenico a quando è nel salotto di casa sua, lui è sempre in spettacolo. E quando esci da una cena con Benigni hai bisogno di riposo per 2 ore perché è sempre molto intenso. Silvio Orlando anche è un tipo molto interessante: uno se lo immagina molto tragico come tutti i suoi film e invece è una persona molto sensibile. Quindi ci sono attori e attori ovviamente, però ne ho conosciuti altri, di cui ovviamente non faccio i nomi, ma soprattutto attrici che magari ti attraevano molto, e poi dici toh, che delusione. Però quelle sono le star vere, io non sono certo una star.
    Ci sono tre motivi per cui la gente spesso si secca di me ed ha reazioni negative: sono un matematico, e in genere non si capisce che cos’è (un letterato è un’altra cosa, più semplice da definire); sono ateo, e anche quello dà fastidio a quelli che credono; e poi sono di sinistra in un mondo che va a destra.

     
    Lei si deve divertire un sacco nella vita...
    Io mi diverto un mondo.
    Non so se hai seguito questo scandalo del Grinzane Cavour: mi hanno chiesto di sostituire la vecchia gestione che è finita sotto inchiesta e c’è stata tutta una polemica legata alla mia nomina. Quelli sono piccoli personaggi che hanno i loro feudi e si preoccupano della nomina di un premio letterario, che è anche un matematico, in un premio che è sempre stato democristiano, e io sono di sinistra e ateo. Persino il cardinale di Torino ha fatto sapere che non ero gradito, ma per me va benissimo, sono tutti motivi di apprezzamento. Se se ne parla tanto forse vuol dire che hanno fatto la scelta giusta. Però certo è difficile quando ce l’hai tutti contro.

     
    Lei ha molti nemici, ma mi pare, a giudicare dalle adesioni ai festival che organizza, ha anche molti amici...
    La cosa divertente guardando sul sito dell’Ibs, che riporta le recensioni e le reazioni dei lettori ai miei libri, è che sono equamente distribuite: c’è chi dice che sono un completo deficiente, e chi dice che sono un genio. E si sbagliano tutti.
     

  • Il Premio Nobel per l'Economia John Nash

    New York Caput Mundi Mathematicae

     Non due Festival, ma un unico evento diviso in due parti: la prima a New York, il 10 e 11 marzo, la seconda all’Auditorium di Roma, dal 19 al 22 marzo. Filo rosso a unire virtualmente le giornate, la voglia di far conoscere il mondo della scienza e della matematica, ma non solo. Perché, come dice Piergiorgio Odifreddi, direttore scientifico ormai super collaudato della manifestazione, la cultura è un tutto unico. Si parla di scienza, quindi, ma si cerca di mostrare i legami con la vita, la letteratura, la filosofia secondo un approccio olistico che alle divisioni privilegia le connessioni.

     
    E se la formula del Festival a Roma ha già dal primo anno dato prova di essere molto apprezzata, la sfida rimane quella di convincere anche il pubblico della Grande Mela che i numeri non sono necessariamente sinonimo di noia, occhiali, secchioni disadattati.

     
    Dork power, allora. E a giudicare dall’affluenza registrata il 10 e 11 marzo all’ Italian Academy (Columbia University) e all’ Istituto Italiano di Cultura di New York, sembra che gli organizzatori possano dire di aver centrato il primo obiettivo: superare le diffidenze e portare gente a sentire parlare di mercati economici, statistica, quarta dimensione. Non solo un pubblico di esperti, ma nelle sale sempre affollate tanti i giovani in fila per ascoltare professori, studiosi, esperti come fossero star del cinema.
    10 marzo, ore 11, alla Columbia University, taglio del nastro del Festival con una lectio del premio Nobel per la Fisica Sheldon Glashow sulla applicabilità della matematica alle questioni pratiche della società e della vita umana. A seguire, il re dei frattali Benoit Mandelbrot ha spiegato la possibilità di studiare l’andamento dei mercati finanziari ricorrendo ai frattali.
     
    Nel pomeriggio, Piergiorgio Odifreddi e Claudio Bartocci, professore di Fisica Matematica di Genova, sono stati protagonisti della lettura dell’Intervista immaginaria a Galileo. Nell’incipit del Saggiatore di Galileo c’è riassunta tutta la filosofia del Festival: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi – io dico l’universo -, ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”.
     
    Perché se c’è una cosa che sembra davvero possibile mentre si assiste alle lezioni e alle conversazioni del Festival della Matematica, è che i numeri possono aiutare a comprendere più a fondo la realtà che ci circonda. E sembra possibile anche ascoltare due ore di racconto sulla origine della teoria dei giochi a Princeton con il premio Nobel John Nash e Harold Kuhn (quelli del film A Beautiful mind, per intendersi), senza desiderare di essere altrove, ma anzi: sala della Columbia University stracolma e una signora all’ingresso a regolare il traffico e a distribuire numeri per mettersi in lista e poter entrare a assistere.
    Il Nobel per l’Economia Daniel Kahneman ha parlato del ragionamento statistico, mentre Brian Green ha spiegato la sua teoria sull’eleganza dell’universo matematico.
     
     
    A chiudere le due giornate

    newyorkesi, il matematico scopritore della quarta dimensione Thomas Banchoff e il filosofo Achille Varzi, che hanno commentato e spiegato il film ispirato al racconto di Abbott, Flatland, viaggio fantastico nella multidimensionalità.
     
    Dal 19 al 22 marzo il Festival della Matematica sarà di nuovo a Roma, con un programma come sempre ricco di nomi illustri del mondo della scienza, della filosofia, della letteratura: le medaglie Fields per la matematica Edward Witten, Timothy Gowers, Vaughan Jhones; il premio Nobel per la fisica Arno
    Pizaris e quelli della chimica Roald Hoffmann e Richard Ernst; il fisico italiano Nicola Cabibbo; i premi Nobel per l’economia Robert Mundell, John Nash e Thomas Shelling; lo scrittore Paolo Giordano, e ancora tanti scrittori, matematici, filosofi e giornalisti italiani.

  • Vincenzo Consolo. Il sorriso siciliano a Manhattan

    Dare voce a chi non ne ha. E’ questo il valore aggiunto dell’opera di Vincenzo Consolo, scrittore nato in Sicilia e trasferitosi a Milano ormai da quarant’anni. L’esperienza dell’emigrazione, dello scontro con un dialetto diverso, della appartenenza a una terra di contadini sono parte fondamentale per capire a fondo il significato dei suoi scritti.

    Vincenzo Pascale , professore della Rutgers University, ha presentato al Calandra Italian American Institute,  lo scorso 5 marzo, il suo recente saggio., “Vincenzo Consolo’s Sicily between History and Myth". 

    Dopo una breve introduzione del professor Anthony J. Tamburri, che ha letto anche una sostanziosa presentazione del volume del professor Peter Carravetta - assente per motivi di salute -, Pascale ha accuratamente descritto e commentato il suo lavoro, nato da una tesi di dottorato dedicata al testo 'Il sorriso dell’ignoto marinaio'.

    “E’ un romanzo che narra il fallimento di un progetto politico e sociale, l’unificazione italiana avvenuta attraverso una forte penalizzazione delle classi sociali meridionali meno abbienti, e per estensione è un romanzo sulle problematiche che emergevano nella società italiana".

    Scritto a partire dal 1968 e pubblicato per la prima volta nel 1976, Il sorriso riflette appieno le vicende storiche dell’epoca; sono gli anni del fallimento dei progetti rivoluzionari, del riposizionamento, dell’incertezza dopo la speranza. Sono gli anni del compromesso storico, dei governi di solidarietà nazionale, anni in cui sembrava sfumare la possibilità per molti intellettuali di comprendere e raccontare la realtà. “Il tema del ruolo dell’intellettuale nella società accomuna molti scrittori del ‘900. Nella scrittura di Consolo possiamo ritrovare le influenze degli autori della sua formazione, da Manzoni e Verga, Calvino e Pavese, passando per Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Gadda e Pasolini”, spiega il prof. Pascale. “Ne risulta un’opera di ampio respiro, che unisce alla sperimentazione nella forma narrativa e linguistica, il recupero di memorie, luoghi, culture e storie dimenticate”. Il testo è costruito all’insegna della frammentazione: ogni capitolo è parte a se stante, secondo una logica che vuole restituire alle vicende una sorta di autonomia.

    L’autore rinuncia al suo ruolo di pilota della struttura narrativa e lascia emergere i fatti, le voci e le storie dei suoi personaggi. Un romanzo storico che non vuole assumere un univoco punto di vista in cui la realtà diventa sequenza prestabilita di cause e conseguenze, linearità di eventi che nella realtà si presentano spesso confusi e difficilmente interpretabili se non con la distanza del tempo.

     Dare voce a chi non ne ha.

    A distanza di trent’anni ci sembra ancora questo forse l’aspetto che rimane più forte de Il Sorriso dell’ignoto marinaio. “Il messaggio che Consolo ci consegna oggi è rappresentabile con la metafora della conchiglia, che quando la avvicini all’orecchio ti permette di sentire gli echi del mare”.

    La letteratura e l’arte diventano lo strumento per esprimere la polifonia di quanti non trovano rappresentazione.

    Come la conchiglia, la scrittura può essere eco delle voci degli ultimi.

  • New York, divinamente New York. Intervista a Pamela Villoresi

      Sacro e profano, arte e spiritualità. Con più di trenta attori, musicisti, performer che scelgono di mettersi a nudo. Gettare la maschera, per raccontare il proprio rapporto con Dio e la spiritualità. E' questa la sfida del Festival Divinamente New York (sottotitolo: International Festival of Spirituality), inaugurato venerdì scorso all'Istituto Italiano di Cultura, con la direzione artistica dell'attrice italiana Pamela Villoresi.

     
    Sei serate con protagonisti importanti del panorama artistico italiano e non solo (Moni Ovadia, Yungchen Lhamo, David Sebasti, Antonella Ruggero, Maurizio Camardi e la stessa Pamela Villoresi tra gli altri); sei serate ognuna in una cornice diversa e carica di significato: dalla sede dell’Asian Society, al Centro Primo Levi, alla chiesa sconsacrata che oggi ospita l’ Angel Orensanz Foundation. La città di New York a fare da sfondo.
     
    “Il palcoscenico può essere una fucina di pace”, ci racconta la Villoresi. La incontriamo poco prima della cerimonia di apertura. Elegantissima in un vestito panna e avvolta in una lunga sciarpa rossa. E’ emozionata e orgogliosa mentre ci parla di una creatura che sente un po’ come sua.

    “Il festival ha avuto il suo debutto nel 2008 a Roma. E’ stato un successo enorme e in un certo senso inaspettato” – ci dice. Grande affluenza di pubblico per una manifestazione che sulla carta si presentava impegnativa.
    Dopo dieci mesi di ostinato lavoro sono riusciti a approdare a New York con una versione adattata alla realtà americana. “L’idea che sta dietro a questo Festival Internazionale è la volontà di incoraggiare sinergie e collaborazioni artistiche che possano dare voce a rappresentazioni estetiche personali”.Mentre Roma ha dato l’inizio alle danze, New York rappresenta un po’ la prova del nove per una rassegna che nelle intenzioni dei suoi organizzatori deve essere itinerante e replicabile in diverse parti del mondo.
     
    Arte, spiritualità, intersezione. Queste le parole chiave per comprendere il significato di questa manifestazione. “L’obiettivo è quello di indagare le connessioni fra arte e spiritualità”, racconta ancora la direttrice; “Perché l’arte può essere un’oasi e un momento di riflessione, può aiutare a far dialogare tra loro religioni, esperienze e visioni diverse del mondo”. In questa chiave l’arte riprende la sua più ancestrale funzione ermeneutica e diventa possibile punto di incontro e confronto fra mondi che appaiono lontanissimi, via per allargare orizzonti e cambiare prospettiva.
     
    “Cerchiamo di proporre degli spettacoli che nascano da una comunione di intenti e sensibilità e sappiano parlare direttamente al cuore di pubblici vasti e diversi”. Ogni produzione proposta avrà dunque una base italiana (testo o composizione musicale o danzatori o interpreti) che si realizza però con la collaborazione di artisti di tutto il mondo.
     

    Anche la serata inaugurale ha rispecchiato questo clima di forte commistione, con un reading a tema di Pamela Villoresi e David Sebasti tratto da “Il Cantico di Terra” con accompagnamento al sax di Maurizio Camardi, la suggestiva performance della cantante tibetana Yungchen Lhamo, e la proiezione all’esterno dell’edificio della “Natività”, rappresentazione in 3D della “nascita” a cura dell’ Accademia Perduta - Romagna Teatri.
     
    A aprile il Festival Internazionale sulla Spiritualità tornerà a Roma, mentre a maggio è prevista una data a Tel Aviv. Per l’anno prossimo destinazioni da definire, ma in ballo ci sono Gerusalemme, Monaco, il Quatar, e poi ancora Roma e New York.  
     
     
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    CALENDARIO
     
    Saturday - February 21st 
    7 p. m. PRE-CONCERT LECTURE
    Held by Professor Giacomella Orofino
    (Tibetan Literature, Oriental University of Naples)
    WOMEN AND SPIRITUALITY
    The Sacred Songs of Mah cig Lab dron
    8 p. m. CONCERT
    SACRED SOUNDS OF TIBET: YUNGCHEN IHAMO 
     
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    Sunday - February 22nd
    3 p. m. ROUND TABLE
    THE VOICE OF SPIRITUALITY
    Participants include:
    Pamela Villoresi, Italian actress/director
    Yungchen Lhamo, Tibetan singer,
    Professor Giacomella Orofino
    (Tibetan Literature, Oriental University, Naples)
     
    Asia Society
    725 Park Avenue New York, NY 10021
    www.asiasociety.org
     
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    Monday - February 23rd
    7:30 p. m. THE PRIEST AND THE CLOWN  (il Curato e il Pagliaccio)
    by Sandro Gindro
    Adaptation and direction: Daniela Morelli
    With David Sebasti
    Original music composed by Maurizio Camardi
    Saxophones and duduk: Maurizio Camardi
    Keyboards: Alfonso Santimone
    Costumes: Paola Tosti
    Performance in English
     
    La MaMa E.T.C. Annex Theatre
    74A East 4th. St. New York, NY 10003
    www.lamama.org
     

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    Tuesday - February 24th
    8 p. m. CONCERT

    SACRARMONIA
    with Antonella Ruggiero
    Antonella Ruggiero, voice
    Mark Harris, piano; Carlo Cantini, violin
     

    Angel Orensanz Foundation Center for the Arts
    172 Norfolk St. New York, NY 10002
    www.orensanz.org
     

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    Wednesday - February 25th
    6:30 p. m. CONCERT
    KAVANAH
    with Moni Ovadia and the Arkè String Quartet
     

    Primo Levi Center
    15 West 16th St. New York, NY 10011
    www. primolevicenter.org
     

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    Thursday - February 26th
    7:30 p. m. THE SKEIN AND THE ROSE (La Matassa e la Rosa)
    Oratorio for Edith Stein by Giuseppe Manfridi
    Direction: Pamela Villoresi
    With Pamela Villoresi and Sabina Vannucchi
    Original music composed by: Luciano Vavolo
    Guitar: Luciano Vavolo; Clarinet: Nicola Innocenti;
    Violin: Angela Savi.

    Performance in English and Italian

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    February 20th - 22th
    from 7 p. m.
    NATIVITY IN FAENZA AND NEW YORK CITY

    a visual architectural display.
    Produced by: Comune di Faenza - Teatro Masini
    and Accademia Perduta - Romagna Teatri -
    Diocesi di Faenza Modigliana - Confindustria Ravenna -
    Confcooperative Ravenna.
    Direction: Andrea Pedna;
    Photography: Roberto Cimatti;
    Original Music: Aurelio Samorì;
    Compositing: Christian Balducci;
    Production: Ruggero Sintoni

    Italian Cultural Institute - 686 Park Avenue New York, NY 10065
    www.iicnewyork.esteri.it