Articles by: Tiziana grassi e goffredo palmerini

  • L'altra Italia

    Festival su John Fante. Conversazione a tre voci.


    TORRICELLA PELIGNA (Chieti) - Bisogna farla tutta la serpentina di curve che da Casoli arranca in variabile salita fino a Torricella Peligna, incontrando nel corso dell’ascesa verso i contrafforti della Majella maestosa solo il borgo di Gessopalena.


    E non solo per raggiungere Torricella, posta in posizione elevata sul crinale tra le valli dei fiumi Sangro ed Aventino, che è la mèta del nostro viaggio verso il Festival “Il Dio di mio padre”, che da oggi si dispiega per tre intensi giornate fino a domenica 24 agosto. Quanto anzitutto per conoscere il contesto ambientale, la suggestione, la materna presenza della montagna sacra agli Abruzzesi, l’avara fecondità dei campi, per comprendere quale fosse il proscenio, a cavallo tra Ottocento e Novecento, che vide partire migliaia e migliaia di agricoltori, pastori e artigiani dei paesini arrampicati alla montagna verso il nuovo mondo, in cerca di avvenire, troppo grama la vita in questa landa montana d’Abruzzo nel secolo scorso, insufficiente per tutti la terra strappata alle sassose balze che arrampicano alla montagna Madre. Partirono, fu una diaspora. Ma partirono anche lasciandovi l’anima in pegno, portando con sé un amore radicale e una memoria ancestrale, che nessuna vicenda, bella o brutta in terra d’emigrazione, mai avrebbe potuto attenuare, sopire, cancellare. Un mondo di valori antichi, di tradizioni, di coraggio indomito, di orgoglio e di dignità, insieme a qualche modesto indumento e a qualche attrezzo del mestiere avvolti in bagagli sommari, partirono con loro sui bastimenti dai porti di Napoli o Genova. Così capitò all’alba del Novecento a Nicola Fante, muratore, partito con il suo sogno da Torricella Peligna per l’America, per raggiungere il Colorado.
     
    Quella sua terra natia, per quanto egli mai la rivide, giorno e notte era nel suo cuore, nume tutelare della sua storia d’emigrante, ragione stessa del sogno americano di Nick Fante, fatto di progressi e fallimenti, ma sempre sorretto dal sicuro ancoraggio ad una cultura, quantunque povera, eppure certa ed affidabile nei suoi riferimenti morali. Solo così si può spiegare la vita di quest’uomo forte e rude, così come lo ha raccontato in pagine mirabili suo figlio John Fante, egli stesso intriso dei medesimi sentimenti d’amore per la terra d’origine di suo padre, intrigato da quel mondo antico che aveva così fortemente forgiato l’indole paterna. Ecco perché bisogna venire a Torricella Peligna, osservare, interpretare e annusare il luogo, per capire Nick Fante e per meglio comprendere l’humus dove ha attinto la scrittura di John Fante, uno dei grandi della letteratura italo-americana e mondiale. Sicché diventa naturalmente incongrua pure qualche considerazione che militava per la celebrazione del Festival altrove, in una città d’Abruzzo, che avrebbe potuto assicurare un pubblico più numeroso. Non sarebbe mai potuto essere lo stesso, non avrebbe mai potuto regalare suggestioni, non avrebbe di certo aiutato a comprendere la straordinaria ricchezza della scrittura e della narrativa fantiana, perché qui trova alimento, come dimostra peraltro l’attaccamento che riserva a Torricella Peligna Dan Fante, il secondogenito del grande scrittore e scrittore di successo egli stesso, che ogni anno è presente al Festival dedicato a suo padre. 
     
    Di questo e di altro parliamo con Giovanna Di Lello, direttore artistico del Festival, con la quale si parla piacevolmente, anche per la condivisione di sensibilità culturali e per altre affinità elettive. Apriamo una conversazione a tre voci con lei, studiosa fantiana, cui si deve l’intuizione di aver fatto nascere proprio a Torricella Peligna un festival letterario dedicato al grande scrittore italoamericano, ormai approdato nella letteratura mondiale. Fu il lusinghiero giudizio di  Charles Bukowski sulla narrativa di John Fante a far riscoprire ed apprezzare il rilevante valore dello scrittore, aprendo la strada alla ripubblicazione delle prime opere e all’uscita postuma di altri scritti di Fante. Non a caso, ricorrendo il ventennale della morte di Bukowski, il Festival dedica un omaggio allo “scrittore maledetto” nella giornata inaugurale. Questa che segue non è propriamente un’intervista, ma una conversazione con Giovanna Di Lello che cerca di raccogliere spigolature, annotazioni ed impressioni. Abbiamo così cercato di sintetizzarle.
     
    “Il Dio di mio padre”, il Festival letterario giunto quest’anno alla sua IX edizione che Torricella Peligna - paese d’origine del padre di John Fante, nonché humus letterario di molti suoi romanzi - dedica al celebre scrittore italo-americano si può dire che è una tua creatura. Lo hai ideato e diretto artisticamente sin dall’origine, anche se la sua realizzazione si deve alla determinazione e alla lungimiranza della Municipalità. Giovanna Di Lello, quale la genesi motivazionale e la “cifra” espressiva di questa manifestazione culturale di respiro internazionale, che quest’anno è dedicata al viaggio, agli incontri, al rapporto che l’Abruzzo e Fante hanno con il mondo? E quale la ragione di questo emblematico nome del Festival?
     
    Il Festival nasce nel 2006 per volontà del Comune di Torricella Peligna. Mi chiamarono per pensare insieme un omaggio a John Fante, dopo l’uscita del mio documentario sullo scrittore italo-americano. Loro avevano in mente un premio, ma io proposi un festival letterario di stampo anglosassone, con più eventi, pluritematico, multidisciplinare e conviviale. Essendo il nostro un punto di vista italiano, o meglio torricelliano, il titolo non poteva non tenerne conto, e quindi non potevamo non far riferimento al padre di John Fante, emigrato negli Stati Uniti nel 1901. Ecco dunque “Il Dio di mio padre” (“My Father’s God”), il suggestivo titolo di uno strepitoso scritto dai toni ironici, tutto incentrato sulla figura del padre, che Fante pubblica nel 1975 in una rivista italo-americana e poi inserito nella raccolta “The Wine of Youth”. Il racconto narra le vicende di un muratore italoamericano del Colorado alle prese con un giovane prete di nuova nomina, intenzionato a riportarlo a messa dopo decenni di disinteressamento per il Vangelo.
     
    Questo Festival, oltre ad approfondire la vita e l’opera di Fante promuovendone la divulgazione, nel suo carattere interdisciplinare, si pone come il luogo di riflessione sulle intersezioni dell’incontro con mondi e linguaggi espressivi diversi - tra letteratura, cinema e musica – una straordinaria opportunità dove valorizzare il patrimonio culturale degli italiani nel mondo. Come si struttura la tua proposta in questa dialettica agorà del pensiero?
     
    Cerco sempre di creare connessioni tra linguaggi e mondi diversi, proprio perché è l’opera di Fante che mi invita a farlo, in quanto parla delle ‘terre di mezzo’ e della ricerca di un posto nel mondo. E i temi da declinare in questo senso sono infiniti. A questo si aggiunge il fatto che Fante, oltre che scrittore, era anche sceneggiatore, e che è un autore molto amato dagli artisti. E’ amato a livello internazionale ed esercita una notevole influenza su musicisti, attori, registi. Per cui, nella strutturazione del programma, mi faccio trasportare dalle suggestioni che mi vengono dalla sua opera, dalla sua biografia e dagli apporti esterni. Come è il caso del cantautore Vinicio Capossela, grande estimatore di Fante, con cui abbiamo presentato diversi reading musicali, oppure con il regista Paolo Virzì, la cui ironia deve molto allo scrittore italo-americano. Al festival sono stati protagonisti anche molti grandi scrittori italo-stranieri, che nelle loro opere hanno affrontato il tema dell’identità, come il lussemburghese Jean Portante e i canadesi Nino Ricci e Mary Di Michele. Quest’anno, per esempio, rifletteremo sull’influenza di Fante nella nuova generazione di scrittori olandesi, con Henk van Straten e Jaap Scholten. Alla tavola rotonda parteciperanno anche l’editore Jasper Henderson e il critico letterario Luca Briasco. Insieme gireranno a Torricella Peligna anche un documentario su Fante.  
     
    Tra tagliente umorismo tragicomico e lucido racconto autobiografico, l’opera di John Fante - considerato oggi uno degli scrittori americani più importanti della sua generazione, alla stregua di Hemingway, Faulkner e Steinbeck - si colloca tra i capolavori dei narratori moderni, anche grazie allo scrittore Charles Bukowski. La famiglia, l’Abruzzo e il vissuto migratorio sono topoi fondativi nel corpus delle opere di Fante: “Nel tessuto narrativo dei suoi scritti confluisce – così tu infatti scrivi nel Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, che ti vede tra gli autori – tutta la sua esperienza di emigrato di seconda generazione, in bilico tra due culture, quella italiana di estrazione contadina e quella borghese americana. Egli descrive senza falsi pudori e senza retorica i risvolti psicologici del complesso processo di integrazione vissuto dai figli di immigrati e il rapporto controverso con le sue radici (…)”. A partire dall’impronta del padre Nicola (americanizzato in Nick) e da Torricella Peligna - che hanno esercitato una marcata influenza sull’immaginario di John Fante - parliamo ora di quel “terzo spazio”, come lo definiscono gli psicologi delle migrazioni, che Fante ha sviluppato nei suoi scritti, oscillante tra doppia identità, rifiuto o accettazione del nuovo, origini e legami, senso dell’altrove e dell’appartenenza.
     
    Il Dizionario Enciclopedico delle Migrazione Italiane nel Mondo ([email protected]), a cui fai riferimento, sarà presentato al festival quest’anno, con te Tiziana Grassi, che ne sei ideatrice e direttore del progetto, e con il professor Mario Cimini, nella sezione Emigrazione che in ogni edizione proponiamo proprio perché Fante è di seconda generazione. Come afferma lo studioso Fred Gardaphe, uno dei massimi esperti di letteratura italo-americana, Fante apporta un notevole contributo alla tradizione italo-americana perché nei suoi romanzi e racconti mette in scena le dinamiche del processo di assimilazione che coinvolge tutti i figli di immigrati. I protagonisti nelle opere di Fante cercano un posto nel mondo, un modo per affermare il proprio Io attraverso la scrittura, facendo i conti con il proprio background che negli anni in cui Fante cresce (gli anni Venti) non coincide con la cultura della classe predominante e ciò lo induce ad una continua riflessione sulla propria identità. Essere di origine italiana per i giovani protagonisti fantiani vuol dire anche provare sentimenti di rabbia, di frustrazione e alienazione, ma anche di compassione che porta all’accettazione. In Fante, credo, la scrittura sia anche uno strumento di resilienza, come avviene per molti figli di immigrati.
     
    Uno “spazio” - quello identitario, psicologico e culturale - tra cultura d’origine e d’adozione, che è parte anche del tuo vissuto, tu che sei nata in Italia e cresciuta tra Canada e Svizzera. Quanto ha influito - attraversando consonanze e vertigini - nella tua visione del mondo e nella tua “vicinanza” a John Fante, al quale nel 2003 hai dedicato anche il magnifico documentario biografico “John Fante. Profilo di scrittore”, che ha vinto il Best Documentary Los Angeles Film Awards?
     
    Ho amato intensamente l’opera di Fante, sin dalle prime pagine, proprio perché parlava al mio essere emigrata di seconda generazione. Mi ha subito colpito la sua capacità di raccontare con estrema leggerezza i traumi cui l’esperienza dell’emigrazione in qualche modo ti sottopone. Questa capacità ha origine nella sua sapiente ironia, che in Fante è un umorismo tragicomico che lo rende estremamente profondo, pur divertendo. Ci affezioniamo ai suoi personaggi, i quali pur essendo a tratti sgradevoli, ci vengono presentati nella loro disarmante umanità. Inoltre, l’assenza di retorica nello stile di Fante e il suo non essere mai “politicamente corretto” ne fa un autore autentico, che parla di questi temi con grande onesta e modernità.
     
    Parliamo di un altro “sguardo”, quello di Dan Fante, uno dei quattro figli di John Fante, anch’egli scrittore. Anche quest’anno Dan sarà ospite del Festival. Come guarda, come si pone verso la figura di un padre, di un uomo, di uno scrittore di così pervasivo rilievo, anche nel suo status di oriundo italo-americano?
     
    Dan Fante ha avuto una vita piuttosto difficile, non solo perché vittima dell’abuso di alcool e di altre sostanze, ma anche perché non ha avuto un buon rapporto con il padre. Fante era un uomo difficile, un “macho italiano” come afferma Dan, che certo faceva fatica ad accettare un figlio alla deriva. Nonostante ciò, Fante ha anche rappresentato per Dan un modello letterario, una fonte di ispirazione. Ha iniziato a scrivere in tarda età, dopo aver ritrovato in un garage la Underwood del padre, e a lui ha dedicato diverse sue poesie. Dan adora tornare in Abruzzo, a Torricella Peligna, perché si sente a casa. Sente la presenza del padre e del nonno Nicola. Dan è il classico esempio di oriundo che ha riscoperto in tarda età le sue radici italiane e oggi vive questa sua condizione con serenità e gioia. Il suo ultimo figlio porta un nome italiano, Giovanni Michelangelo.
     
    John Fante e questo grande evento letterario internazionale ci danno l’occasione anche per una estensiva riflessione sui nostri connazionali oltreoceano, sui milioni di emigrati, e loro discendenti, che hanno fatto grande l’Italia all’estero, proprio perché il Festival dedica ampio spazio ai talenti abruzzesi affermati a livello internazionale. Tu come fotografi questa ricchissima humanitas da vivificare e valorizzare nei tuoi rapporti, nei tuoi orizzonti, dal passato al presente? C’è, a tuo avviso, un potenziale ancora inespresso?  
     
    L’Abruzzo dovrebbe cercare di dialogare maggiormente con i suoi concittadini residenti all’estero, tema peraltro ricorrente negli scritti e nell’assidua opera di relazione dell’amico Goffredo Palmerini. In modo particolare con i giovani talenti che possono diventare una risorsa economica e culturale per la nostra regione. Credo, inoltre, che la storia dell’emigrazione italiana debba essere studiata a scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, perché pochi in realtà conoscono questo fenomeno che ha colpito duramente il nostro Paese. Quindi si tratta di parlare di questi temi con un pubblico non specialistico, evitando la retorica, che troppo spesso connota il linguaggio utilizzato in questo settore, e cercando di presentare la condizione del migrante anche come una grande opportunità. Essere di seconda generazione, in bilico tra due culture, può voler dire anche sentirsi più facilmente cittadini del mondo.


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    Alla scoperta del Bel Paese. IL PALIO DEL VICCIO, A PALO DEL COLLE (Prima puntata)

    PALO DEL COLLE (Bari) – In queste calende di marzo, che già anticipano i tepori e i colori della primavera, andiamo in Puglia, in quella terra orgogliosa e forte degli antichi popoli Dauni, Peucezi e Messapi, cara ai Greci e ai Romani. La sterminata spianata del Tavoliere, appena mossa dalle alture della Foresta Umbra sul promontorio del Gargano, ci accompagna con una lunga teoria di campi coltivati verso la nostra destinazione, Palo del Colle, in provincia di Bari. Andiamo nella bella cittadina pugliese per conoscere e vivere direttamente una delle singolarità del Bel Paese, nella feconda provincia italiana, ricca di sorprese e di fascino: il Palio del Viccio. Ci andiamo con lo spirito dei viaggiatori d’una volta, con la curiosità di chi non si accontenta di informarsi sui luoghi, ma desidera annusarli, viverli tra la sua gente, assaporarli attraverso le tradizioni più remote e suggestive. Anche per poter raccontare le emozioni vissute, le valenze del luogo, le bellezze artistiche, le ricchezze della secolare cultura che fa di Palo del Colle un centro di forte interesse turistico e culturale, con spiccate potenzialità di crescita economica poggiate sulle eccellenze del territorio. E allora, andiamo alla scoperta del Palio del Viccio con il racconto della nostra visita.  
     

     

    Il Palio del Viccio

    Come l’Uomo vive in risonanza simbiotica con i Luoghi, così il Tempo ne plasma e nutre rapporti, legami, senso di identità ed appartenenza. I Luoghi diventano “sculture” dinamiche,

    specchio e riflesso del Genius Loci. E attraverso il patrimonio identitario, con i suoi vivificanti riti simbolici, la ciclicità della Storia si compie.

    Alimentando lo spazio vissuto, individuale e collettivo. Come a Palo del Colle, nel cuore di una Puglia rigogliosa di distese di ulivi, antiche masserie ed ordinati muretti a secco che preludono alle Murge, dove dal 1° al 4 marzo si è tenuto il Palio del Viccio, edizione 2014, storica manifestazione cavalleresca trasmessa in diretta streaming sul sito www.puntotvonline.it  per raggiungere le migliaia di famiglie di origini palesi sparse per il mondo. Quattro giorni di festa, di tradizione e di rievocazioni per una manifestazione che affonda le sue origini nella storia e nella leggenda, con documenti antichi che ne collocano l’incipit addirittura al 24 d.C., al tempo di Plinio il Vecchio. Un momento di giubilo che in origine aveva una valenza antropologica e, solo successivamente, ha acquisito dimensione storica e religiosa. La tradizione vuole, infatti, che sia nato come momento di esibizione della maestria degli allevatori nell’addestramento dei cavalli (sono tutt’oggi presenti in loco numerose scuderie), poi diventato una vera e propria ‘dichiarazione identitaria’, sociale e comunitaria: ogni cavaliere simboleggia una famiglia, un “rione” con proprie storie, monumenti e Santi protettori.

     
    Quest’anno, per volontà del sindaco di Palo del Colle, Domenico Conte, del GAL (Gruppo Azione Locale) “Conca Barese” presieduto da Stefano Occhiogrosso, anche sindaco di Bitetto, e di Antonio Amendolara, vice presidente del GAL e Consigliere delegato del Palio del Viccio, l’evento ha avuto una forte connotazione storica, con un ricco cartellone di attività e spettacoli e con un rigore applicato ai minimi dettagli: dalle casacche dei cavalieri con i colori del Rione di appartenenza alle bardature dei cavalli, dai mercatini d’epoca alle prove sportive, dai percorsi enogastronomici agli artisti di strada.

    Una programmazione che ha abbracciato quattro giorni in un crescendo di emozioni e che ha raggiunto il suo ‘climax’ nel giorno del Palio vero e proprio, il “Martedì grasso” 4 marzo. Molto articolato il programma, mentre la storia prendeva vita nelle vie del borgo antico di Palo, anche attraverso un eccezionale “cantore” in rima degli eventi, quasi un elegante “giullar cortese” d’epoca medioevale, l’attore Gianluca Foresi.

     
    Tutto s’è animato con la cerimonia d’investitura dei Cavalieri, il mercatino medioevale animato da figuranti-attori in costume d’epoca che hanno rievocato “spaccati di vita” e gli antichi mestieri, la mostra delle torture medioevali - realizzata da Pino Potenzieri, che ha illustrato le terribili tecniche coadiuvato da un medico anatomopatologo-, spettacoli di strada con artisti, danzatori, giocolieri e musici, tornei di cavalieri, esibizioni di falconieri, tradizionali giochi e competizioni medioevali, percorsi del gusto con punti ristoro con menù medioevali, e infine un convegno organizzato dal GAL Conca Barese, incentrato sull'identità storica dei nove Comuni del comprensorio - Adelfia, Binetto, Bitetto, Bitritto, Cassano delle Murge, Grumo Appula, Palo del Colle, Toritto, Sannicandro di Bari - e sulle specificità locali, per sviluppare il turismo culturale a livello nazionale ed internazionale. Un convegno intitolato “Borghi rurali e nuovi profili: l'operatore turistico culturale”, per una figura professionale che sappia operare nel turismo rurale per la valorizzazione e promozione delle risorse ambientali e culturali rurali, per la gestione del patrimonio storico-artistico-archeologico e per la commercializzazione dei prodotti turistici. Accanto a questo evento di approfondimento c’è stata un’occasione di incontro tra la delegazione di ospiti stranieri e gli operatori economici, sociali e culturali del territorio, un workshop organizzato con la Camera di Commercio di Bari, con l’obiettivo di aprire nuovi sbocchi commerciali per le imprese e per le eccellenze produttive ed enogastronomiche, cifra della Conca Barese nel mondo.
     

    I luoghi, la Civitas, la Storia e i suoi riti

    Intervista a Domenico Conte, Sindaco di Palo del Colle
     
    Sindaco Conte, ci “presenti” Palo del Colle, la sua storia secolare, le sue tradizioni, con il Palio del Viccio che si è da poco tenuto.
     
    “Palo del Colle, la cittadina che mi onoro di rappresentare, è un comune che conta 21.716 abitanti, a 17 km. dal capoluogo pugliese. La messe di ritrovamenti archeologici del territorio - costituiti prevalentemente da tombe con il loro corredo funerario - sembra avvalorare l’origine preromana dell’abitato, plausibilmente da ascriversi a popolazioni italiche piuttosto che a coloni provenienti dalla Grecia (Francesco Polito - Per la storia di Palo del Colle, Ed. Liantonio, 1934). Alla presenza di tali insediamenti è stato ricondotto l’antroponimo Palionenses, citato nella Naturalis historia da Plinio il Vecchio tra gli antichi abitanti della Regio II. Secondo lo storico Cirielli, tale antroponimo andrebbe ricondotto al toponimo Palìon, mutato in epoca romana in Palium e poi in Palum. Unico nella zona, il centro abitato palese insiste su un colle dominato dal settecentesco “Palazzo Filomarino Della Rocca”, dall'edificio della Chiesa Matrice “Santa Maria La Porta” e dal trecentesco campanile in stile romanico pugliese, tra i più imponenti e maestosi di Puglia, indicato dai Palesi con il nomignolo: u Spiàun ("lo Spione"). Una delle più antiche tradizioni palesi è sicuramente il Palio del Viccio, un rito spettacolare della nostra cultura ancestrale connessa al ciclo agrario. Evento che rievoca un momento storico ben definito, ma pur sempre ricoperto da una patina di leggenda, come sempre avviene in questi casi per la labilità che lo scorrere del tempo ingenera nei “fatti” storici. Parliamo del passaggio della Regina Bona Sforza, della quale si narra che qui fece visita ai suoi allevamenti di cavalli.

    Ma la storicità della manifestazione affonda le sue radici in epoche antecedenti. A tal proposito, occorre far riferimento ad uno degli studiosi di storia locale che più si è dedicato al tema, il Prof. Dino Tarantino, che ha permesso di ricollocare, nelle sue opere, i diversi riferimenti storici presenti nei testi antichi, ricomponendo i diversi tasselli, un po’ come si fa in un puzzle. Precisa, infatti, che alla ricerca delle origini storiche del Palio del Viccio, taluni studiosi (F. Polito) hanno richiamato l’autore della colossale fatica enciclopedica “Naturalis historia”, Plinio il Vecchio (23 -79 d.C.) che ivi parla dei “ludi qui fiebant more Palensium” (giochi che si svolgevano secondo la tradizione dei Palesi). Un riscontro si troverebbe anche in un documento del 1546 dell’universitas di Palo, in cui si fa riferimento al Palio detto di S. Luca. Un altro autore, G. Birardi, osserva che la corsa dei cavalieri è sicuro indizio della presenza di molti cavalli “in loco” e collega l’istituzione del Palio con la tenuta di allevamento di cavalli nella difesa di Auricarro al tempo degli Sforza. Iniziato nel 1477 da Maria Sforza, che aveva una grande passione per i cavalli, l’allevamento fu largamente sviluppato da Ludovico il Moro, che – pur possedendo altre “difese” in diverse città pugliesi e calabresi – aveva in quella di Palo la “difesa” più preziosa e rinomata per le razze pregiate dei cavalli. Tanto da annotare che gli incaricati lo dissuadessero dall’istituirne di nuove perché “le iumente del V. Ex. Stano tanto bene, quanto dir se possa”. Se ne conclude che è in tale allevamento che la corsa del “viccio” affonda certamente le sue radici. Può essere avvenuto che, quando nel 1477 il Duca Sforza venne a Bari e fece una visita a Palo, gli addetti alla “difesa” vollero dimostrare la bontà e il grado di addestramento dei cavalli, oltre alla perizia di chi li montava, con l’esibizione di una corsa in salita, lungo il pendìo della collina che portava alla porta del Castello. Una gara nata, insomma, come dimostrazione di efficienza dell’allevamento. Senonché, se la presenza di allevamenti equini nel territorio potrebbe spiegare la forma di torneo cavalleresco assunto dal Palio, essa non chiarisce il ruolo centrale che in questo rito-spettacolo svolge il “viccio”, che, tra l’altro, compare più tardi”.
     
    Infatti, la denominazione del Viccio a cosa fa simbolicamente riferimento?
     
    In realtà, il protagonismo del gallinaceo, che è il vero oggetto del contendere e il fulcro attorno al quale ruota la giostra cavalleresca, spinge a cercare più indietro e a diverso livello l’origine del Palio. Esso trae la sua genesi nella cultura ancestrale dell’ambiente rurale ed è connesso alla ritualità, con la duplice funzione propiziatoria e apotropaica, legata al ciclo agrario. A tal proposito, se è vero che il “Viccio” – nome dialettale di origine onomatopeica – è giunto in Europa dopo la conquista del Messico, sua terra originaria, portato dal conquistatore Hernàn Cortés nel 1522, non è difficile ipotizzare che esso abbia sostituito la funzione del gallo che costituiva il suo antecedente. Il tacchino, cioè, altro non è se non la variante aggiornata e risalente appunto alla scoperta del Nuovo Mondo, del preesistente gallo. Pertanto, solo successivamente il Palio del Viccio ha acquisito una dimensione storica e religiosa. Quella storica, sublimata nel Corteo e nella rievocazione. Mentre quella religiosa era sottesa alla devozione della comunità che si traduceva nell’allestimento dei carri allegorici creati con la cartapesta. Attorno al “rito” del Palio la comunità ha costruito un’identità sociale. Difatti, tutt’oggi sono presenti in loco numerose scuderie con allevamenti di cavalli di razza locale. Di generazione in generazione, i cavalieri hanno trasmesso ai propri figli passione, abilità e destrezza. Ogni cavaliere simboleggia una famiglia, ma anche una comunità, un “rione” con una storia, i propri monumenti e i Santi protettori. Il Palio non rappresenta solo “puro folklore” che trova la sua dimensione caratterizzante nei riti di tipo carnevalesco - non a caso si svolge nell’ultimo giorno di Carnevale, ovvero il Martedì grasso -, bensì è importante per la poliedricità di significati etnologici ed antropologici.”
     
    Quali sono?
     
    “C’è anzitutto la componente della “tenzone cavalleresca”. Il Palio trova la sua cornice storica in Corso Garibaldi, chiamato precedentemente Via del Lago, l’arteria principale del centro cittadino che sfocia in Piazza Santa Croce. A metà strada viene posizionata una corda tesa tra due balconi cui vengono sospesi la gabbia con un tacchino (“u viccie” in dialetto) e, al centro, una vescica piena d’acqua. Obiettivo della giostra è riuscire a bucare la vescica con un’asta acuminata tendendo quanto più possibile il proprio corpo verso il “bersaglio” alzandosi sulle staffe. L’abilità e la destrezza del cavaliere sta nell’equilibrare e coordinare la velocità del cavallo (in netta difficoltà per la conformazione della strada in salita) con la tensione e la postura del proprio corpo: ciò lo porta ad esibirsi in una serie di gesti spettacolari e cavalcate emozionanti. Come in ogni Palio che si rispetti, la tensione emotiva è legata al tempo: in un crescendo di emozioni, gli spettatori s’immergono in una “storia”, anzi nella Storia, calandosi in un universo di significati che raggiunge il “climax narrativo” nella vittoria del cavaliere di turno, osannato dalla folla nel tripudio generale. All’attesa, al lento fluire del tempo, s’accompagna l’esplosione di gioia della massa concentrata nelle vie e nei budelli del centro Ciò crea la tensione della festa, così come narrano antropologi e sociologi. E per citare forse il più importante, l’antropologo delle masse, Elias Canetti. Il Palio è, indubbiamente, l’evento di maggior richiamo della nostra terra attorno al quale, nel corso degli anni, si è costruita e rafforzata un’identità locale ben definita. Difatti, l’edizione del Palio 2014, ha rappresentato l’inizio di una nuova e rinnovata stagione per la nostra comunità. A conclusione della giostra cavalleresca c’è stata la premiazione con figuranti in abiti storici e, a conclusione della serata, il concerto di Umberto Smaila e la sua band.”
     
    Sindaco Conte, la tradizione del Palio del Viccio ha origini antichissime, ma quest’anno avete voluto organizzare un’edizione un po’ speciale, con una ‘quattro giorni’ di eventi e manifestazioni che hanno spaziato dalla dimensione storica e culturale a quella enogastronomica, invitando opinion leaders e personalità anche dall’estero. Ce ne parli.
     
    “Per la Municipalità rilanciare questo grande evento ha significato coinvolgere non solo l’intero tessuto produttivo, culturale ed associativo locale, ma soprattutto si è avvertita la necessità di ‘fare rete’, creando un network di città che facessero sistema nel generare un circuito virtuoso, indispensabile per poter competere insieme in contesti ‘macro’ (macropolitici, macroeconomici e macrosociali), attraverso una sorta di marketing territoriale. In tale direzione, gioca un ruolo fondamentale l’azione locale del GAL Conca Barese, incentrata sull’identità storica di nove comuni del comprensorio: Adelfia, Binetto, Bitetto, Bitritto, Cassano delle Murge, Grumo Appula, Toritto, Sannicandro di Bari e ovviamente Palo del Colle. Tale realtà territoriale, in perfetta sinergia con la nostra amministrazione comunale, ha supportato e promosso il Palio in un’ottica di valorizzazione del prodotto-territorio in tutte le sue componenti. Il prodotto-territorio può essere definito come quell’insieme di componenti tangibili e intangibili - i beni storici, culturali, artistici, artigianali, paesaggistici, gastroenologici, le tradizioni - che conferiscono ad un’area territoriale un’immagine positiva, unica e particolarmente fruibile per la potenziale domanda imprenditoriale e turistica. Ovviamente, accrescere il livello qualitativo della manifestazione, vuol dire aprire una finestra sul mondo, facendola rientrare in un circuito di eventi a carattere storico, riconosciuti a livello europeo e non solo. Il Palio ha infatti ospitato delegazioni straniere: ambasciatori, sindaci, operatori economici, turistici, sociali e culturali, con l’intenzione di aprire nuovi sbocchi commerciali per le eccellenze produttive ed enogastronomiche che ci simboleggiano e rappresentano nel mondo. Vasta è stata anche la partecipazione di giornalisti ed operatori della comunicazione che, in un’azione di storytelling, racconteranno con la passione di chi ha vissuto in prima persona le affascinanti atmosfere del Palio del Viccio le bellezze del nostro territorio.
     
    Far rivivere la bellezza della storia medievale cittadina, è stata conferita all’evento una forte connotazione, frutto dello studio di un team di lavoro costituito da storici locali, archivisti, curatori di biblioteche, artisti, sarti e stilisti, rievocatori di professione, musicisti e chef. Ognuno si è dedicato alla cura di un ambito della manifestazione: rigorosa analisi storica, coerenza con gli usi e i costumi locali, congruità dei menù con quelli dell’epoca, allestimenti scenografici privi di anacronismi per scelta di materiale e di musicalità storicamente fondate. Il risultato è stato quello di veder rivivere le vie del borgo antico attraverso il mercatino medioevale, animato da numerosi figuranti-attori con banchi degli antichi mestieri: il ceramista, il cuoiaio, lo speziale, l’iconografo, la tessitrice, l’ingegnere militare, i giochi storici, l’armaiolo, il fabbro, l’arcaio, l’osbergaio, il cerusico, il candelaio e diversi popolani. All’interno del percorso giocolieri, mangiafuoco e musici. Anche Piazza Santa Croce è stata fortemente frequentata e vissuta dai Palesi e dagli ospiti, grazie ai tornei d’arme tra cavalieri appiedatie all’esibizione dei falconieri. Abbiamo allestito, inoltre, un’intera sala dedicata agli strumenti di tortura medioevali, realizzati da artigiani palesi. Ma non solo! Per la prima volta ha avuto luogo la cerimonia d’investitura dei Cavalieri associati a ciascuno dei dieci rioni - Madonna della Stella, Casale dei Greci, Auricarro, Castello, Lago S. Giuseppe, Porta reale, Rue Pleine, S. Sebastiano, S. Vito, S. Rocco - al fine di creare un legame sportivo ma anche emotivo col quartiere rappresentato: una comunità che riconosce ed acclama il proprio ‘eroe’ che porterà in alto i colori della contrada.”
     
    Prima di salutarci, sindaco Conte, congratulandoci per il successo dell’iniziativa - cui ha contribuito anche sua moglie Maria Antonietta che, con il garbo dell’ospite perfetta, ha fatto sentire tutti “a casa”, retaggio di cultura magnogreca per cui l’Ospite è sacro - ancora una domanda: altro “evento nell’evento” è stato il Palio dei Rioni. Ci spieghi di cosa si tratta e lo spirito collettivo che lo ha animato.
     
    “Sì, è una competizione a squadre, laddove i concorrenti, in rappresentanza dei Rioni, si sono sfidati in giochi medioevali: l’albero della cuccagna, la corsa a staffetta nei sacchi e il tiro alla fune. Ad ogni squadra/rione, inoltre, è stato affiancato (per estrazione) un arciere esperto in tiro con l’arco storico, al fine di rendere ancora più avvincente la gara. Al rione vincitore, distintosi per abilità ed audacia, è spettata la facoltà di scegliersi il miglior cavaliere! Il tutto in un clima di grande partecipazione cittadina, ciascuno coinvolto con le proprie competenze, esperienze e passioni, ha potuto riscoprire il senso di una identità forte, riconosciuta e condivisa, ancorata ad un’immagine positiva del territorio e ad una visione di sviluppo che, ci auguriamo vivamente, porterà il contesto locale nella rete di Città turistiche italiane. Restituendo a tutti noi la speranza di una pronta ripresa economica di respiro locale e, speriamo, anche internazionale. Noi ce la stiamo mettendo tutta in questa direzione. E naturalmente siamo aperti a collaborazioni e sinergie.”

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  • L'altra Italia

    La Puglia. Tra emigrazione ed internazionalizzazione (Parte 1)

    CELLINO SAN MARCO (Brindisi) - Si è conclusa nei giorni scorsi, con grande successo e attenzione da parte delle Istituzioni, del mondo diplomatico e dei media, la Settimana di promozione della Puglia nel mondo “Ospitalità: dalla Terra dei Messapi al Salento” – svoltasi dal 27 luglio al 3 agosto – con l’organizzazione di un Educational Tour volto alla scoperta e alla valorizzazione del territorio salentino, sempre più mèta - per il suo patrimonio storico, architettonico, artistico, culturale, paesaggistico ed enogastronomico – d’un turismo appassionato al quale si uniscono i pugliesi emigrati nel mondo con i loro “Viaggi del Ritorno”, per quel sempre vivo senso d’appartenenza e orgoglio delle proprie radici. Un mix che nella Settimana pugliese ha richiamato a Cellino San Marco, in provincia di Brindisi, l’attenzione di opinion leaders e personalità della cultura, della diplomazia e dell’imprenditoria internazionale. Già l’emblematico titolo del Progetto, “Ospitalità: dalla Terra dei Messapi al Basso Salento”, rimanda ad una delle più connotative caratteristiche di questa terra le cui origini magnogreche - nel segno d’una dimensione migratoria e culturale che sin dal VIII sec. a.C. presentava quel fenomeno della mescolanza di elementi etnici comune a quasi tutte le colonie greche - evocano e conferiscono humus, in risonanza, al radicato senso dell’ospitalità della gente di Puglia. Caratteristica storico-identitaria di apertura all’Altro, allo “Straniero”, o all’Ospite - a seconda della prospettiva e delle categorie di osservazione ontologico-ermeneutiche adottate - che, dal passato al presente, vedono in colui che arriva da un Altrove, una straordinaria occasione per esprimere un “comportamento mentale” capace di ampliare la propria ‘visione del mondo’, richiamandosi a quella legge etica e morale non scritta, eppure sempre presente, del valore sacrale dell’Ospitalità.
     

    Caratteristica autorevolmente confermata, molti secoli dopo, dalla Presidenza della Repubblica che il 10 maggio 2000 ha conferito alla Puglia la Medaglia d’Oro al Merito Civile - onorificenza che si tributa a Città, Comuni,  Province,  Regioni, decorate con Medaglie al Merito Civile, a fronte di specifici atti di straordinaria abnegazione delle comunità durante la guerra, le calamità naturali o altre tragedie - con una motivazione che rende orgogliosi tutti i Pugliesi, in Italia e nel mondo: “In occasione dei massicci e ripetuti episodi di immigrazione clandestina, l’intera popolazione della Puglia dava prova collettiva di civismo e di forza morale. Con straordinaria abnegazione privati cittadini, comuni, province e Istituzioni offrivano il loro determinante contributo e incondizionato impegno in soccorso dei numerosissimi profughi arrivati sulle loro coste in condizioni disperate. Operando generosamente per accorrere in aiuto dei più deboli, la Comunità tutta offriva alla Nazione splendido esempio di grande solidarietà sociale e nobile spirito di sacrificio”. Un’onorificenza emblematica alla comunità pugliese che, estensivamente, per il suo credo nell’Accoglienza e nell’Ospitalità, diviene assimilabile, sul piano della scala valoriale degli universali ideali etici e solidaristici, alla straordinaria comunità di Lampedusa, che non a caso Papa Francesco - nella forte simbologia d’ogni sua azione - ha scelto come mèta della sua prima visita, scagliandosi contro “la globalizzazione dell’indifferenza” e rendendo quel lembo di terra affacciata sul Mediterraneo non più l’ultima frontiera d’Italia, ma la prima tappa del suo primo viaggio. Il gesto pregnante di un Pontefice “rivoluzionario” ci indica - nel suo costante invito alla compartecipazione inclusiva verso l’Altro - l’unica via possibile per abitare il cambiamento verso una società “mondiale”, più aperta e solidale. L’unica via per saper autenticamente essere al mondo. In questo senso, la solennità della motivazione che nel 2000 ha accompagnato il prestigioso riconoscimento decorando la Puglia  con la Medaglia d’Oro al Merito Civile, nel dare misura d’una non comune vocazione culturale e comportamentale di questa regione, non è meno significante della solennità del patrimonio di cui la regione è portatrice sotto molteplici e ulteriori aspetti, tutti ugualmente incardinati nel suo denso, fecondo, archetipico genius loci. 

    Genius loci come identità fondativa che nutre il Sé di una comunità, come le radici fondanti che strutturano e plasmano la ‘visione del mondo’ di un popolo. Come l’identità pugliese, che può vantare una stratificata e impareggiabile storia millenaria contrassegnata dall’architettura barocca a Lecce e in tutta l’area salentina, sviluppatasi per un secolo e mezzo a partire dalla fine del XVI secolo, oggi inserita nelle “Tentative Lists” dell’UNESCO in attesa che le città del Salento entrino a far parte del Patrimonio dell’Umanità. Come le importanti tracce gotiche della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, accanto alla quale spicca il Romanico pugliese, che raggiunse il suo massimo splendore tra XI e XIII secolo. Come l’impareggiabile impronta della Magna Grecia, custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto, che si fregia d’una collezione di manufatti dell’epoca tra le più grandi, tra cui i famosi Ori. Come la Valle d’Itria con i suoi caratteristici trulli di Alberobello, le tipiche abitazioni in pietra a forma di cono. O la superba rete castellare sveva, dove Castel del Monte è ambita mèta turistico-culturale. Come pure, cambiando scenario, il patrimonio paesaggistico e naturalistico della Puglia, che vanta due Parchi nazionali e diverse aree marine protette, insieme alle famose Grotte di Castellana, all’arcipelago delle Tremiti a largo della costa garganica, al Golfo di Taranto, che vede oggi ritornare i delfini nelle proprie acque, grazie a un progetto di ricerca scientifica universitaria di valorizzazione della flora e della fauna nel Mar Ionio denominato “I delfini di Taranto”, premiato all’ultimo Big Blu, Salone internazionale della Nautica e del Mare tenutosi a Roma nel febbraio 2013. Dal mare alla terra: la Puglia e le sue distese di olivi millenari, paesaggi oggi considerati “monumenti” e pertanto candidati all’UNESCO a diventare parte del “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, ma da sempre fonte di reddito agricolo e testimonianza storico-culturale e ambientale di questa regione, fino a diventare “cifra” estetico-antropologica non meno dei caratteristici e inconfondibili ‘muretti a secco’ di Puglia, tra i primi esempi di manufatto umano, presenti in tutte le culture del pianeta per delimitare poderi, uliveti e vigneti, e qui punteggiati da rigogliosi grappoli di fichi d’India giallo-arancione o sanguigno rosso porpora, caratterizzando il paesaggio pugliese e, con esso, il Mediterraneo di cui questa regione è sempre più decisivo e splendente baricentro geografico-culturale.

    Opportunamente ispirato a tale sfaccettato e ricco patrimonio identitario, il Progetto “Ospitalità: dalla Terra dei Messapi al Salento” vede tra i propri obiettivi quello d’accrescere l’offerta turistica in Puglia attraverso l’organizzazione dell’Educational Tour che, ideato e realizzato dal Comune di Cellino San Marco e da alcune località delle province di Brindisi e Lecce, ha promosso la valorizzazione del territorio salentino, peraltro già molto apprezzato in Italia e all’estero. L’Ambasciatore della Repubblica d’Albania, Neritan Ceka, il critico d’arte Vittorio Sgarbi, il cantante Al Bano Carrisi, il critico musicale Mario Luzzatto Fegiz, la giornalista scrittrice e studiosa di emigrazione, Tiziana Grassi, di origini tarantine, sono stati tra gli ospiti invitati a questa iniziativa di respiro culturale internazionale, accomunati da un vivo, partecipe interesse per il Salento e le sue potenzialità. Un’iniziativa organizzata in concomitanza della festa patronale nota anche come “Festa dell’Emigrante” di Cellino San Marco, con i festeggiamenti del Patrono, San Marco appunto, che ha visto ritornare nei luoghi natii - come antica tradizione d’ogni terra di emigrazione - numerosi cellinesi sparsi nel mondo. Un gesto di grande sensibilità ed attenzione da parte della Municipalità di Cellino San Marco verso la propria comunità che risiede all’estero. L’Emigrazione e le “Feste del Ritorno”, densa e ampliante categoria antropologica: perché l’emigrazione – e lo sa bene chi quest’esperienza performativa la porta sulla propria pelle attraverso il tempo, lo spazio e le generazioni – è stata in passato per gli Italiani, come lo è oggi per gli immigrati, un lungo cammino fatto di ‘viaggi’, nella duplice dimensione materiale e spirituale. Viaggi interiori, che assumono il significato - nella navigazione a vista dell’esistenza umana - di ‘cartografia dell’anima’, inquieta e palpitante bussola di orientamento verso nuove mappe migranti cognitivo-esperienziali.

    Durante i 7 giorni del Progetto “Ospitalità: dalla Terra dei Messapi al Salento - Educational Tour”, gli ospiti sono stati accompagnati in percorsi che hanno spaziato dalle visite al sito archeologico di Muro Tenente, a Mesagne, alle Colonne Romane di Brindisi, dai trulli di Alberobello al Barocco di Lecce, dal Museo Messapico di Cavallino  al Parco Naturale Regionale “Costa Otranto - Santa Maria di Leuca”, infine accolti nelle lussureggianti Tenute di Al Bano Carrisi - prestigioso testimonial internazionale della Puglia - tra eleganti filari di ulivi in prospettiva, vini prodotti dallo stesso Al Bano, piscine e ottima cucina locale. Un Progetto, dunque, che sullo sfondo dell’innato senso d’accoglienza e ospitalità di questa terra, ha tenuto necessariamente conto di ogni aspetto di Marketing integrato del Turismo, per in buon esito dell’interessante iniziativa di promozione della Puglia e del Salento in particolare. Ma il successo di questa “Settimana pugliese” non è stato solo il frutto d’un attento, lavoro organizzativo di servuction, branding o concept test. Il patrimonio storico-architettonico, culturale, paesaggistico ed enogastronomico di un luogo, con la matura offerta di servizi ricettivi, pur con il proprio imprescindibile status attrattivo, da solo non può avere potere aggregante. L’appeal di un luogo - come gli studiosi di Geografia umana osservano, in ordine al complesso rapporto tra Uomo e territorio - è espresso certamente nella storia e nella cultura d’uno specifico spazio geografico, di un’area, d’un sito, di una regione. Ma il valore aggiunto che ne determina la visibilità, l’ulteriore slancio proattivo, la sua peculiare vocazione attrattiva, in definitiva il successo e la fama, risiedono in maniera rilevante nel capitale umano che quel luogo esprime; ovvero nelle persone che, con le proprie empatiche capacità relazionali, la cura e l’attenzione nei rapporti con l’Altro, hanno spiccata vocazione a saper mettere in comunicazione autentica ed emozionale persone e situazioni. Sollecitando, favorendo e vivificando scambi, collaborazioni, convergenze, adesioni e quindi propulsive sinergie, in un clima di genuina ed avvolgente accoglienza, per la quale è piacevole “sentirsi a casa”. Li chiamano “facilitatori”: sono persone speciali e preziose - tanto più in una società contemporanea contrassegnata dalla moltitudine di “linguaggi” e quindi obbligata a coerenti interpretazioni - perché, nel loro essere partecipi e informati sulle culture e sullo specifico professionale dei singoli ospiti, ma soprattutto dei nativi a cui spesso appartengono, accolgono l’evento, lo vivificano e lo ottimizzano, osservando con attenzione il contesto di riferimento, cogliendo bisogni e aspettative dell’Altro - espresse ed inespresse – e hanno cura di ogni partecipante affinché, singolarmente e insieme, tutti possano sentirsi veramente dentro le cose, parte e protagonisti.

    Un ruolo cruciale, dunque, che va ben oltre quello delle formali “Pubbliche Relazioni” e che, in occasione di questa intensa “Settimana pugliese”, è stato svolto con particolare eleganza e competenza, nel raccordo inter-relazionale, sia dalla docente di Piano e Canto, concertista e direttore d’Orchestra di fama internazionale,  Aksinja Gioia Xhoja, co-organizzatrice della “Settimana pugliese” e prezioso trait d’union tra ilComune di Cellino San Marco e l’Ambasciatore d’Albania, Neritan Ceka, sia dal valente Sottufficiale dei Carabinieri Angelo Giovanni Capoccia, originario di Squinzano, in provincia di Lecce.Insieme ai numerosi rappresentanti della Municipalitàdi Cellino San Marco, il Brigadiere Capoccia – grazie alla sua trentennale esperienza nell’Arma, dedicata con slancio e competenza all’organizzazione d’importanti eventi istituzionali –per la sua solare“pugliesità” e in una generosa e volontaria opera di“facilitatore” di rapporti tra gli Ospiti presenti,ha contribuito a fare gli onori di casa all’Ospite d’onore,l’Ambasciatore d’Albania Neritan Ceka, insigne docente e archeologo di fama mondiale.

    L’Ambasciatore così si è espresso sulla manifestazione pugliese e sulla sua multiforme valenza antropologico-culturale, quasi evocando un antico e nuovo “Patto di Fratellanza” tra le due sponde dell’Adriatico, in una prospettiva di rapporti bilaterali tutti da promuovere o accrescere: “La Puglia era, ed è, la regione italiana più conosciuta in Albania. Dall’altra sponda, quando noi pensiamo all’Italia, la prima cosa che ci viene in mente è la Puglia. Abbiamo sempre avuto contatti con voi. Dell’arrivo - nei decenni scorsi - delle navi cariche di migliaia di profughi albanesi si conserva l’immagine indelebile, encomiabile e commovente delle vostre coste che ci hanno accolto con amorevole solidarietà e senso civico. Pugliesi sono stati i primi italiani ad aprire imprese da noi. Non è un caso, infatti, che l’unica rappresentanza diplomatica-commerciale rappresentativa dell’Italia in Albania sia pugliese. Una rappresentanza, attraverso la Camera di Commercio, che rappresenta tutta l’Italia, con sede a Tirana. Si tratta quasi di una sorta di propulsiva ‘missione’ diplomatica di vostri validi imprenditori. E i principali investimenti da noi sono pugliesi. Con l’Italia, con la Puglia in particolare, c’è una collaborazione luminosa in corso anche nel settore culturale, con l’Università di Bari, con il Politecnico, che ha realizzato studi sull’Urbanistica di Tirana, con studenti albanesi, e l’Università di Lecce, con la Facoltà di Archeologia e una Scuola di Specializzazione frequentata da tanti albanesi. Queste propulsive sinergie, dal settore scientifico a quello culturale e commerciale, sono diventate le nuove condizioni per più sistematiche collaborazioni che vanno verso il grande Progetto di Macroregione Ionico-Adriatica: progetti che vedono la partecipazione dell’Unione Europea e che aprono prospettive di rapporti sempre più forti tra le nostre due sponde nel campo dell’Energia, del Turismo, dell’Agricoltura, della Cultura scientifico-universitaria. E penso anche al grande Progetto TAP, Trans-Adriatic Pipeline, volto alla costruzione di un nuovo gasdotto che connetterà Italia e Grecia via Albania, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio, e, potenzialmente, del Medio Oriente. Un gasdotto che arriverà in Puglia indirizzandosi verso diversi settori e Paesi rappresentati da numerosi vice ministri esteri. Ma ci sono altri importanti legami tra la Puglia e l’Albania, e mi riferisco all’Istituto di Agronomia Mediterranea che ci vede interagire grazie alle simili e favorevoli condizioni climatico-agronomiche.”

    “E poi c’è Al Bano!, - ha continuato S.E. Neritan Ceka - un “ambasciatore” di Puglia straordinario e amatissimo da tutti noi albanesi. Dunque posso dire che sono molto forti e profondi i legami, anche umani, tra la Puglia e il nostro Paese, come conferma la presenza di migliaia di cittadini italiani da noi, tutti totalmente integrati nella nostra vita economica, sociale e politica. Trovo importante e significativo anche il fatto che tutti gli albanesi che arrivano in Italia passino, prima di arrivare nei vari luoghi di destinazione migratoria, dalla vostra accogliente regione, grazie a traghetti che ogni sera partono da e verso l’Albania. Quindi sono maturi i tempi per liberarci con consapevolezza dagli stereotipi del passato, da quell’epoca “da film del Novecento” con gli albanesi migranti stipati sulle navi verso l’Italia. La Puglia è una terra di paradiso dove l’attività umana è perfetta, tutta la terrà è lavorata con cura, le città sono pulite, in ordine, Cellino San Marco è un piccolo museo a cielo aperto con la sua architettura, e il calore della sua gente. Si sente nell’aria, ed è piacevole notarlo, questo facile e naturale contatto umano che c’è qui da voi. E’ emozionante vedere al tramonto, nelle stradine dei vostri paesi, passeggiando su quelle pietre bianche di antica eleganza, la gente che con amore porta le sedie davanti alla propria porta e quando tu passi davanti alle loro case ti dice ancora, accompagnandolo con un sorriso, un caloroso <Buonasera!>. Questo piace molto ai turisti che tutto il giorno sono in contatto con la modernità, con la velocità. Anche le feste, come questa a cui ho partecipato in questi giorni in onore del Santo patrono locale … Che meravigliosa partecipazione corale! E che emozione vedere tutte quelle accurate e gradevolissime luminarie, ascoltare la banda in processione per il paese, vedere quanta autentica e fervente partecipazione c’è stata nella comunità cellinese. Trovo questa coesione umana un valore straordinario del Sud, un valore che manca nelle grandi città, dove ormai si vede soprattutto gente distratta e di corsa che porta in giro il suo cane”.

     
    Continua >>>