L’America di Trump tra Europa e Russia. Populismi, paure e occasioni da cogliere. Conversazione con Sergio Romano

Letizia Airos (December 19, 2016)
Quella di Sergio Romano è una delle voci più autorevoli e ascoltate nel panorama italiano. Storico, commentatore e analista politico, è stato Ambasciatore d’Italia a Mosca negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Interrotta, per sua scelta, la lunga carriera ai vertici della diplomazia, si è dedicato allo studio e all’insegnamento. Il suo sguardo, anche quando non si condividono le sue opinioni, è illuminante, chiarificatore, a volte anticipatore. Nella nostra intervista parliamo di America, di Europa e di Putin, a cui è dedicato il suo ultimo libro.

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TRUMP: LE REAZIONI DELL'EUROPA

Ambasciatore, potrebbe descrivere per i nostri lettori americani le reazioni europee all'elezione di Trump? Questo risultato era inatteso anche in Europa? Perchè?

“Naturalmente gli europei leggono la stampa americana e hanno avuto l’impressione che la vittoria di Hillary Clinton fosse scontata. Abbiamo sbagliato, ma sulla base di analisi che arrivavano dagli Stati Uniti. Quanto alle reazioni europee alla vittoria di Trump, penso che siano di due tipi. Anzitutto gli europei si chiedono cosa accadrà alle relazioni con gli Stati Uniti. Questa domanda è legittima e giustificata, direi anche inevitabile. L’altra preoccupazione è piuttosto irrazionale, ma per certi aspetti anch’essa giustificata, cioè che l’elezione di Trump possa in qualche modo giovare a tutti i movimenti populisti europei. Perché? Non mi sembra che ci sia un collegamento necessario, però è un dato di fatto che tutti i movimenti populisti europei hanno salutato la vittoria di Trump come se fosse un incoraggiamento alla loro causa.”

E’ possibile che in Europa  ci si nascondesse questa paura? Insomma, chi temeva la vittoria di Trump ha rafforzato in modo più o meno inconsapevole la convinzione che Hillary Clinton avrebbe vinto? 

“Per la verità, molti analisti sapevano che Hillary Clinton era un candidato abbastanza debole, o quantomeno abbastanza vulnerabile. Lo si sapeva perché lei appartiene all’establishment e non c’è dubbio che la società americana, come tutte le società occidentali in questo momento, hanno nei confronti dell’establishment un sentimento di stanchezza se non di ripulsa. Inoltre, questa faccenda delle email gli europei non l’hanno capita molto bene. Però hanno avuto l’impressione che Clinton avesse qualcosa da nascondere. E quindi ci siamo tutti chiesti se questo avesse potuto avere una influenza sul voto degli americani.

Il fatto è che Hillary Clinton ha vinto la maggioranza del voto popolare, quindi non si può dire che sia andata male. Certamente ha perso il voto elettorale, computato su base geografica, che in uno stato federale è fondamentale. Forse questo gli europei non l’avevano capito abbastanza bene. La meccanica e soprattutto la “filosofia” del collegio elettorale, tipica degli stati federali, appare poco compresibile in Europa.

POPULISMI. EUROPEO. AMERICANO. DI DESTRA. DI SINISTRA

Lei ha accennato all’effetto dei movimenti populisti europei. L'Europa sembra al momento in crisi anche per l'effetto di movimenti "populisti" che spesso vengono associati allo stesso fenomeno di cui Trump sarebbe espressione in USA: una reazione populista agli effetti negativi della globalizzazione. Puo' aiutarci a mettere ordine in questi concetti?

“Le ricadute negative della globalizzazione hanno avuto certamente  una influenza sull’esito del voto sia negli Stati Uniti che in Europa. Da questo punto di vista i due fenomeni sono abbastanza paralleli. Ma credo che nel malumore europeo ci siano dei motivi diversi rispetto a quelli che giustificano il malumore americano. Noi attraversiamo effettivamente una fase difficile nel percorso dell’Euro e dell’Unione Europea. Questo è un problema che gli Stati Uniti non hanno. Però la vittoria di Trump è stata strumentalmente utilizzata dai leader populisti europei per fare un po’ di tutta l’erba un fascio e cercare di presentare la vittoria dell’imprenditore americano come l’annuncio di un loro imminente trionfo.

Negli Stati Uniti sta succedendo qualcosa anche sul fronte opposto a Trump. Penso ad esempio agli interventi pubblici del Sindaco di New York Bill de Blasio e del Governatore Andrew Cuomo, che sembrano voler bilanciare la retorica populista “di destra” di Trump con una retorica populista “di sinistra”, soprattutto sul tema dell’immigrazione. Anche qui, puo' aiutarci a mettere un po’ d’ordine?

“Penso che il problema americano dell’immigrazione clandestina e quello europeo abbiano caratteristiche diverse. Gli Stati Uniti hanno un problema soprattutto con gli stati dell’America Latina e certamente la frontiera col Messico è uno dei punti più caldi. Si tratta però di una immigrazione sociale. Questi immigrati non hanno motivazioni politiche come invece sta accadendo in Europa; non stanno fuggendo da situazioni politiche eccezionali, di emergenza, dovute guerre, ad esempio, e a guerre civili. Noi non sappiamo quanti dei nostri immigrati abbiano motivazioni sociali ed economiche, ma di sicuro si presentano con un profilo umanitario molto più scioccante. Queste navi che attraversano il mediterraneo, che bisogna assolutamente salvare!

In Europa non abbiamo ancora deciso come risolvere il  problema anche perchè, a differenza degli Stati Uniti, noi non abbiamo degli interlocutori di riferimento. Gli Stati Uniti possono sempre parlare al Messico, le conversazioni saranno più o meno soddisfacenti da un punto di vista americano, però la possibilità di dialogare con il governo messicano, costaricano o dell’Honduras ci sono. Sono stati che esistono e coi quali si possono fare degli accordi. Noi con chi parliamo? I nostri immigrati provengono in gran parte dalla Libia, dove non abbiamo interlocutori. Possiamo cercare di restituirli al paese d’origine, ma qual è il paese d’origine? Rischieremmo di essere colpevoli di una situazione umanitaria. Se gli USA respingessero degli immigrati oltre la frontiera messicana non accadrebbe niente sotto il profilo umanitario.

C’è forse anche un’altra differenza, non sempre detta. L’immigrazione, anche quella clandestina, fa ormai parte del tessuto economico del paese. Molti lavorano, anche se al nero, come camerieri, facchini, collaboratori domestici e autisti per le famiglie più ricche, i bambini vanno a scuola, i giovani in alcuni stati prendono la patente, si sposano e i loro figli sono cittadini americani. La città di New York ha istituito negli ultimi anni una sorta di carta d’identità, disponibile anche per queste persone che non hanno in realtà un permesso regolare. E il Sindaco rifiuta di fornire le liste al governo federale. Quindi la realtà di questo paese è veramente variegata e mi chiedo se ce se ne renda conto in Europa.

“Non credo. E’ ancora un’altra differenza questa. Bisogna capire di più.”

PUTIN E LA GRANDE RUSSIA

Lei ha appena pubblicato il suo libro con Longanesi EditorePutin e la ricostruzione della Grande Russia”, in cui parla della ascesa del premier russo, ci riassume la sua tesi?

Innanzitutto ho cercato di spiegare le motivazioni di Putin. Lui appartiene a una istituzione, il Kgb, che ha avuto e che ha tuttora, attraverso la struttura che gli è succeduta, un ruolo importante nella politica nazionale. Non credo che Putin sia stato un comunista di stretta osservanza, ideologicamente marchiato, credo piuttosto che sia stato marchiato dall’appartenenza a quella casa, che è una casa dalle caratteristiche particolari.

È stata indubbiamente il braccio armato di una politica molto spregiudicata e repressiva, ma è anche una casa in cui si imparano molte cose. Con un certo realismo conoscono il mondo, e sanno perfettamente quali sono i vizi del loro paese. Quindi hanno sempre avuto un ruolo segreto, misterioso, pieno di malizie e di pericoli, ma anche per certi aspetti anche un ruolo educativo. E credo che quella sia un po’ la caratteristica di Putin.

Lui è arrivato in politica dopo una esperienza negativa, che era stata quella di Dresda, dove aveva avuto l’impressione che lo stato russo si stesse sfaldando, e l’aveva vissuta come un’umiliazione, una sofferenza. Per cui non è sorprendente che abbia dedicato la sua politica alla restaurazione dell’autorevolezza dello stato russo. È questo il suo obiettivo e lo persegue coi mezzi di cui dispone. Non mi pare che questo sia stato sufficientemente capito dalle democrazie occidentali.

Come non hanno capito che la Nato, allargata nel modo in cui è stata allargata, non poteva non essere percepita a Mosca come una minaccia. La Nato non è una qualsiasi alleanza storica, è un’ alleanza costituita per combattere, per fare la guerra e per farla in funzione di un nemico identificabile geograficamente come aldilà della cortina di ferro. 
Se Mosca vede la Nato espandersi a oriente, superando addirittura i confini dell’ex Unione Sovietica, ne trae delle conclusioni. Non si è capito che l’Ucraina poteva avere un ruolo europeo importante se fosse stato un paese neutrale. E invece sostenendo quella parte dell’Ucraina, a mio avviso minoritaria, che voleva a tutti i costi divorziare totalmente dalla Russia, hanno finito per fare dell’Ucraina un paese conteso. E a questo punto è accaduto quello che tutti sappiamo. Ho cercato di spiegarlo.

Così come ho cercato di spiegare che Putin può essere molto utile alla politica europea e anche agli Stati Uniti, alle democrazie occidentali in generale. Il problema con l’Islam, ad esempio, che noi credevamo di essere i soli ad avere, i russi lo hanno avuto in modo per certi aspetti più drammatico, basti vedere quale rischio ha rappresentato l’islamismo ceceno radicale, fanatico, dalla scuola di Beslan al teatro di Mosca occupato dai terroristi, gli aerei che esplodevano in cielo. Noi ci siamo limitati a dire “Tutte queste cose le ha organizzate il Kgb”. Sono supposizioni non documentabili e non hanno nessuna importanza. Ho cercato quindi di spiegare dove avevamo sbagliato.

PUTIN, GLI STATI UNITI E L’EUROPA

Torniamo a Trump. Con questo presidente alla Casa Bianca, cambierà il rapporto tra Stati Uniti e Russia? È troppo presto per immaginare degli scenari?

In questo racconto dei rapporti Putin-Trump si sono dette cose non giustificate, che ad esempio Putin desiderasse entusiasticamente la vittoria di Trump. Non credo che le cose stessero in questo modo, credo piuttosto che i russi, così come i sovietici ieri, hanno sempre preferito i candidati repubblicani ai candidati democratici. E questo perché, sulla base della loro esperienza, il rapporto con un presidente repubblicano (come Reagan o Nixon ad esempio) è sempre stato più costruttivo, più positivo, meno ideologico. Un presidente democratico rischia invece di essere ideologico, come di sentirsi investito di una sorta di missionariato, cosa che a qualsiasi dirigente russo, non solo a Putin, dà fastidio.

La stessa politica repressiva di Putin nei confronti della società civile russa, le manifestazioni proibite, gli arresti, le violenze della polizia—cose che tutti noi che conosciamo e amiamo quel paese non possiamo non constatare con grande disappunto—si spiega in parte in questo modo. Non dico certo che si giustifica, ma si spiega anche con il fatto che in queste manifestazioni i russi come Putin ci vedono lo zampino dell’occidente, lo zampino degli Stati Uniti, che finanziano le organizzazioni non governative, che hanno una carattere democratico, umanitario ma fondamentalmente ostile al regime. Tutte queste cose non ci devono certo impedire di fare il possibile perché la Russia diventi un paese più democratico, ma sono cose che dobbiamo sapere, che dobbiamo capire. Perché se non le capiamo rischiamo di prendere la strada sbagliata.”

Secondo lei, le politiche di stampo “isolazionista” che Trump propone, se attuate, potrebbero avere un effetto negativo per l’Europa?

Se davvero Trump dovesse mantenere la linea che ha prospettato—una linea molto restrittiva in cui si dice all’Europa provvedere a proprie spese alla sua difesa—a me sembra un’occasione da cogliere! Il momento per fare a meno degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti sono governati da un presidente che non sembra avere interesse a difenderci, allora tocca a noi.

L’ Alto Rappresentante dell'UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’italiana Federica Mogherini, si sta muovendo nella direzione giusta in questo rapporto a quattro tra Spagna, Francia, Germania e Italia per il rilancio di una politica europea di difesa. Se davvero la politica americana sarà, diciamo così, isolazionista (tanto per dargli un’etichetta), questa può essere una occasione per noi.

UNO SCRITTORE CHIARO GRAZIE AL PADRE

Un’ultima domanda, più personale. Come si fa a mettere insieme la storia in modo così dettagliato e preciso e uno stile narrativo scorrevole come fa lei? Se dovesse spiegarlo a uno studente cosa direbbe?

[Ride] La risposta che le darò è banale, ma è anche la sola che riesco a dare a me stesso. Quando io ho cominciato a scrivere – come può accadere ai ragazzi a cui piace scrivere, cominciai presto – mi accadeva di far vedere a mio padre quelle cose, che fossero analisi o racconti. Lui leggeva e diceva “Non capisco, non ho capito”. Questo ha avuto un grande effetto sulla mia formazione, mi ha educato ad essere comprensibile.

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