Jaqueline Greaves Monda. Vivere (con un) italiano a New York
Che cos'è l'italianità per uno straniero? Come l’avverte?
Ci sono certo degli stereotipi astratti. Si dice per esempio che gli italiani siano simpatici, amiconi, belli, passionali, mammoni, che sanno amare e divertirsi.
Poi ci sono delle immagini che automaticamente riportano all’Italia, come la Ferrari e Prada, Venezia e Firenze, la Fontana di Trevi e il Vesuvio di Napoli, la pizza, e la pasta …
E ci sono, si sa, anche stereotipi negativi: gli italiani sono spesso considerati rumorosi, disordinati, rissosi e collerici, e c’è ancora chi sottolinea la “M-word” magari, aiutato da fatti di cronaca…
Ho così pensato, per affrontare il tema più nel concreto, di parlarne direttamente con uno straniero che vive il suo quotidiano con un italiano.
Cosa vuol dire per un non-italiano “vivere italiano” tutti giorni? Farlo con un italiano e in un contesto italiano, anche se fuori dall’Italia?
Parlo di Jacqueline Graves, Jamaicana, e Antonio Monda, italiano, scrittore, professore di cinema alla NYU, e direttore della Festa del Cinema di Roma.
Una coppia presente e attiva, spesso insieme, in diversi luoghi vivi culturalmente: dalla Morgan Library alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della NYU, dal TriBeKa Film Festival al Lincon Center, al MoMA e tanti altri.
Ma Jacqueline e Antonio sono anche noti per l’ospitalità nella loro casa nell’Upper west Side, dove si incontrano spesso scrittori, giornalisti, attori, critici, artisti americani e italiani. Il loro appartamento è diventato un vero “laboratorio di idée ”.
Jacqueline Graves Monda, dunque, ci farà da guida in questo viaggio nell’italianità vista da uno straniero. Famiglia, cibo, senso della religiosità e la grande virtù dell’ospitalità. E poi il ‘vizio-virtù di parlare, parlare, parlare—sempre e di tutto.
Avere tanto in comune
L’incontro innanzitutto. A New York grazie ad amici. Era il 1985, lui era in giro in cerca di location per un documentario. Lei in città con la famiglia. Sapeva poco dell’Italia, Jacqueline, ne conosceva però l’arte, l’opera, la musica, come tanti.
Si sentono subito vicini. Lui parla ancora poco l’inglese. “Ho imparato prima io l’italiano partendo da zero – ci dice sorridendo – grazie ad una full immersion con la sua famiglia in Italia, mentre lui era in viaggio!”
Bella, solare, i tratti jamaicani esaltati da un modo di vestire molto personale, ma sempre al passo con tempi. Porta con se la sua terra sempre, in ogni movimento, sguardo, gesto e lo fa con una naturale gentilezza. E' facile intuire il fascino che deve avere avuto sul quel giovane ragazzo italiano.
Ma cosa hanno in comune? “Domanda fin troppo facile”, mi risponde senza esitazione. “Il rispetto della tradizione, della famiglia, dei valori che contano, dell’ospitalità.”
E poi la religiosità, anche se il percorso non è stato lineare.
“La mia famiglia è protestante, una religiosità rigida rispetto a quella cattolica”, dice Jacqueline. “Una mia zia ha sposato un prete anglicano che è diventato vescovo della capitale della Jamaica. Ho frequentato un scuola religiosa. Vicino ad Antonio sono diventata cattolica, anche perchè credo che sia importantissimo crescere insieme i figli con lo stesso credo.”
E un altro elemento che li unisce è stato certo l’interesse per la cultura, la musica, la letteratura, l’arte. “Vengo da una famiglia molto colta, ho vissuto tra i libri, mio nonno leggeva il greco antico, a casa si sentiva tanta musica classica…”
Ospitalità come stile di vita, 'a way of life'
Ma il vero, potremmo dire fatale, punto d’incontro con Antonio è stato in quel “saper accogliere”, così legato poi alla loro vita qui a New York.
“Gli italiani sono simili ai jamaicani. Ero abituata con miei nonni, mia mamma, ad aver sempre la casa aperta a gente di tutto il mondo. Ricordo le feste bellissime che faceva mia nonna in giardino, le tavolate con le frutta di stagione. Quando Antonio mi ha portato per la prima volta in Calabria ho ritrovato subito tutto questo. Anche se ancora non parlavo italiano.”
Come racconta anche il New York Times, la casa dei Monda è frequentata da personaggi illustri: Philip Roth, Robert De Niro, Martin Scorsese, Zadie Smith e tanti altri ... Essere ospitati da loro è un'esperienza sempre speciale. Ma riuscire a far “sentire a casa propria” personaggi così diversi non deve essere facile. “Sono me stessa – dice Jaqueline – mi viene naturale accogliere chiunque.” E da splendida padrona di casa si divide tra cucina e ospiti con grande semplicità. E a volte, se siete fortunati, può capitare anche di vederla ai fornelli con mamma di Antonio. Sono momenti di una visibile e calda intesa.
E, parlando di fornelli, viene fuori un importante segreto di questa ospitalità giamaico-italiana.
La cucina con cui Jaqueline è diventata famosa, una vera sintesi italo-jamaicana che presto troveremo raccontata anche in un suo libro. “Sì, un libro di cucina ‘a modo mio" ci dice "Osservo quello che mi piace intorno. Trovo sempre degli ingredienti che creano un equilibrio. Piano piano ho inventato una mia cucina. Ma ci tengo a dire che la mia non è cucina Fusion – la odio!”
Unire le culture usando il cibo
Ma come nasce qusta passione? Non a caso viene dall’ambiente italiano… “Ti faccio ridere. Devo dirti che da ragazza non sapevo cucinare. Vivevo con mia mamma, una brava cuoca, e così non ne avevo bisogno. Poi tutti gli italiani in famiglia hanno cominciato a chiedermi ‘Ma come, davvero tu non sai cucinare?’ Nella famiglia di Antonio si dava una grande importanza a questo aspetto. E così piano piano mi sono messa ai fornelli. Marilù, mia suocera, ed Elvira mia cognata sono state favolose nell’aiutarmi.”
Cucinare per degli italiani… deve essere una sfida ardua per una non-italiana…
"Infatti per molti anni ho avuto paura di cucinare la pasta agli italiani!” ci confessa. “Oggi non è più così, tutti mi chiedono di cucinare la pasta. Mi piace inventare. I sapori che creo sono basati sui ricordi. Molto della mia cucina viene dalla memoria, dal tempo passato con mia nonna. E poi è semplice, cerco di crearla con pochi e naturalii prodotti. Ora è più facile trovare ingrendienti di qualità a New York, ma ricordo che nel ‘94, quando ho cominicato a cucinare, non c’era neanche un mazzetto di basilico decente.”
NYC rende tutto più facile
E la famiglia? Cosa vuol dire crescere dei figli in una famiglia bi-cuturale? Jacqueline e Antonio ne hanno tre e a casa loro si respira un senso della famiglia inconfondibile.
“New York è il posto migliore per crescere i figli di due culture. I nostri figli sono andati ogni estate in Italia, hanno sempre sentito parlare italiano. A New York sono stati vicino a mia madre e ad altri miei parenti: hanno vissuto la mia cultura anche se non siamo andati spesso in Jamaica. Qui ci sono poi tanti eventi jamaicani, concerti, balli folkloristici, mostre, e ci andiamo sempre. New York è una città speciale, permette di rimanere quello che si è. E’ un concentrato di accoglienza.”
Italianità = "free" speech. Gli italiani parlano sempre di tutto!
Mi diverto un pò a provocarla. “Cosa non sopporti degli italiani?”
“Mi metti nei guai… gli italiani parlano sempre: di tutto, tanto. Sopratutto di politica. Nel mio mondo non si faceva. Mio nonno diceva: ‘Non si deve parlare con nessuno di religione e di politica’. Pensa che differenza! Ricordo che impressione i primi anni... e mia mamma perplessa che non capiva la lingua e sentiva sempre parlare, parlare, parlare...
Ma poi rispondendo alla tua domanda mi accorgo che amo questa libertà di parlare. Mia madre dice che sono cambiata e che non mi riconosce più in questo. Ma amo questa libertà di espressione che voi italiani avete.”
Ed in quale momento si sente più italiana, Jaqueline?
“Forse quando parlo con mia figlia Caterina. Lei si sente proprio italiana. Vuole parlare sempre italiano e lo fa così velocemente che a volte al telefono non riesco a capirla!”
L’ultima domanda ritorna al suo Antonio. Le chiedo quale è il segreto alla base del loro stare insieme oggi, “Lavorare ogni giorno con un costante bisogno l’uno dell’altra. Si deve dare ma anche prendere, essere generosi …”
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