L'Olocausto in un film Disney. Il bambino con il pigiama a righe
Mi sono imbattuto per caso ne Il bambino con il pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas), coraggioso film di Mike Herman tratto dal romanzo omonimo di John Boyne. Il film, prodotto dalla Disney, è uscito nelle sale italiane nel periodo natalizio; una scelta inusuale, dato il tema, per gli standard del colosso dell’animazione. E scelta che deve aver tratto in inganno più di uno spettatore, accorso con famiglia a vedere il consueto film natalizio, e trovatosi invece di fronte un racconto asciutto e privo di retorica sull’Olocausto. Vero è che il manifesto lasciava pochi dubbi sul contenuto: due bambini, di cui uno con indosso l’inequivocabile pigiama a righe del titolo, seduti l’uno di fronte all’altro ai lati opposti di un filo spinato. Che fosse un film sull’Olocausto, dunque, lo si poteva capire al primo sguardo. Che fosse crudo e tragico, e assai lontano dalla tradizione disneyana, era meno facile da immaginare.
Dire che il cinema si è occupato spesso della Shoah significa usare un eufemismo. Registi diversi in modi diversi hanno raccontato lo sterminio, spesso scegliendo di non nascondere nulla. Le torture, le umiliazioni, il tentativo sistematico di cancellare il volto umano e la dignità dei sei milioni di deportati: tutto è stato portato sullo schermo. Tutto mostrato, sezionato, fatto vedere.
Il bambino con il pigiama a righe segue una strada differente. Mike Herman decide infatti di portare sì lo spettatore dentro l’olocausto, nel cuore del campo di concentramento, ma riuscendo contemporaneamente a mantenerlo fuori da esso, estraneo e disorientato. Ne La vita è bella, Benigni aveva compiuto con mezzi diversi la medesima operazione. Anche il regista toscano porta infatti gli spettatori nel campo con Guido, Dora e il piccolo Giosuè, ma devitalizza ciò che avviene al suo interno trasformandolo in gioco. Lo spettatore vede nello stesso istante la violenza e la sua parodia, e il loro accostamento genera, più che sgomento, un dolente sorriso. La vita è bella è anche per questo un’opera poetica: cede alla necessità “narrativa” della nemesi finale. Giosuè esce dal campo con un grido di gioia, convinto di aver vinto. Lo sforzo del padre è riuscito, il bambino è salvo: è salva la sua umanità, la sua innocenza, salva la sua possibilità di crescere da persona libera, senza cicatrici. Il colpo di genio di Benigni esorcizza la tragedia, ne cancella le conseguenze. Lo spettatore esce dal cinema scosso ma rassicurato: il male è stato sconfitto.
Nella storia di Bruno e Shmuel, al contrario, non c’è consolazione né esorcismo: il male è il male, e l’innocenza da sola non basta ad arginarlo.
Nel film di Herman l’Olocausto non si mostra mai direttamente. È una realtà nascosta di cui di tanto in tanto appare traccia. L’effetto di straniamento raggiunto da Benigni con la parodia, il regista inglese lo ottiene legando per tutto il film lo sguardo dello spettatore a quello del piccolo protagonista, Bruno, c
he ha gli occhi grandi e limpidi del convincente Asa Butterfield. Costretto a lasciare la casa dove è cresciuto e i suoi amici a causa del trasferimento del padre, un comandante delle SS, Bruno si trova all’improvviso proiettato in un mondo sconosciuto in cui si muovono personaggi strani e avvengono fatti incomprensibili. La forza e la bellezza del film stanno in questo: la cinepresa non lascia mai il bambino, e così ciò che accade oltre i confini angusti della sua nuova casa si presenta, a lui come allo spettatore, come una serie spezzettata di episodi, apparizioni fugaci, violenze improvvise, smagliature nel tessuto ordinario della quotidianità che pure non compongono mai un quadro complessivo. Il loro carattere isolato, gratuito, è proprio ciò che li rende inspiegabili. Perché i contadini della fattoria che si vede dalla finestra di Bruno vanno in giro in pigiama? Perché non può giocare con i loro figli? Perché il vecchio Pavel, che serve in cucina, faceva il medico e ora si è messo a pelare patate? A cosa è dovuto il fumo che esce dal grande camino della fattoria e perché ha un odore tanto cattivo?
Lo spettatore lo sa per conoscenza pregressa. Ma se riesce a spogliarsi di questa conoscenza, come la struttura narrativa del film suggerisce, ecco che allora lo spaesamento di Bruno diventa il suo. Senza libri di Storia a rivelare la verità, tutto ciò che entrambi percepiscono è solo un’occasionale e vagamente fastidiosa interruzione della normalità domestica. Un’interruzione su cui Bruno si in
terroga e interroga gli adulti, che non danno risposta. “Papà, tutto questo ha a che fare con il tuo lavoro?”. “Tutto quello che devi sapere sul mio lavoro, Bruno, è che servirà a rendere il mondo un posto migliore per quando sarai grande”.
Bruno è però un appassionato lettore di libri d’avventura, e da grande vuol fare l’esploratore. Decide allora di cercare le risposte da sé. Per rompere la monotonia delle giornate solitarie a cui è costretto si allontana di nascosto sempre più da casa, fino a quando non si imbatte nella recinzione che delimita la fattoria, e in un bambino seduto a capo chino dietro di essa. Un bambino triste, che si nasconde, chiuso in un pigiama a righe troppo grande per lui. È Shmuel, ha otto anni, e come Bruno sembra aver bisogno di un amico.
Le visite a Shmuel diventeranno quotidiane, e il film trova nei dialoghi tra i due amici i suoi momenti più toccanti. Nessuno dei due comprende i comportamenti che gli adulti hanno al di là e al di qua della recinzione. Scoprono di essere uno ebreo e l’altro tedesco, hanno sentito dire che dovrebbero essere nemici, ma per loro “nemico” è una parola priva di significato. Giocano, ridono, si fanno compagnia: sono due bambini soli che le barriere degli adulti non riescono separare. La loro innocenza è la chiave del film, ed è anche ciò che lo rende difficile. La sfasatura tra la loro interpretazione ingenua e la realtà dei fatti che vivono – che trova un’espressione magistrale nell’ultima sequenza – è poetica e struggente, ed è anche il meccanismo narrativo che consente alla vicenda di procedere verso il suo esito finale. E sarà un esito tragico, perché in Herman, a differenza che in Benigni, il fraintendimento della realtà non è un biglietto d’uscita dal campo, ma di ingresso. E il male, nascosto fino ad allora, si manifesta alla fine nella sua burocratica e implacabile banalità.
Il bambino con il pigiama a righe è un film onesto, senza trucchi né orpelli. Ben girato, ben scritto, ben recitato. Ha il merito di parlare sottovoce di un argomento intorno al quale molti urlano, trattandolo con riserbo e delicatezza, scegliendo l’allusione e il silenzio piuttosto che la retorica. E crediamo che il punto di vista ingenuo e infantile da cui Herman sceglie di farci guardare l’Olocausto colga nel segno. Ad uno sguardo privo di pregiudizi, infatti, lo sterminio prima ancora che violento, crudele, o terribile – etichette poste in seguito dalla Storia – appare semplicemente, e umanamente, incomprensibile.
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