Crescendo con Sanremo. Cosa rimane della tradizione?
SANREMO – “A tavola, la cena è pronta!”. Quella sera il rituale richiamo di mia madre aveva un sapore speciale. Erano gli anni Ottanta quando io e la mia famiglia ci riunivamo davanti alla tv per vedere il Festival di Sanremo. Per una sera eravamo tutti spettatori di uno stesso programma, in religioso silenzio. Come quando con la nascita della televisione italiana negli anni Cinquanta un intero condominio si radunava a casa di chi poteva permettersi l’acquisto di un televisore, all’epoca molto costoso. E incantati dalle luci dello schermo tutti guardavano quell’unico canale in bianco e nero.
Alle 22.45 del 27 gennaio 1955 c’erano otto milioni di persone ad attendere il primo Festival trasmesso contemporaneamente anche dalla TV dopo i titoli di coda del varietà di Tognazzi e Vianello "Un, Due, Tre". Un evento eccezionale visto che la prima vera edizione della kermesse canora nel 1951 andò in onda in radio, su Rete Rossa, per tenere compagnia ai giocatori d’azzardo. Costava 500 lire il biglietto d’ingresso del Salone delle Feste del Casinò di Sanremo e tra una scommessa e l’altra, il pubblico ascoltava le venti canzoni in gara eseguite da soli tre cantanti: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano.
1984. I miei primi frammenti di memoria del Festival. Gli artisti cantavano in playback totale ma a me, ancora bambina, poco importava. Ero affascinata dalla scenografia luminosa, dalle lunghe scalinate laterali del palco e dai fiori colorati. Romina e Albano, giovani e innamorati, vinsero con “Ci sarà”. Era anche la prima volta che il Festival veniva trasmesso in diretta negli Stati Uniti, grazie a una rete radiofonica di New York: la INC.
Nel 1986 si tornava a cantare dal vivo. Lo ricordo bene perché la voce graffiante di Loredana Bertè e il suo look aggressivo un po’ mi inquietavano. In abito corto e aderente, tacchi a spillo e giacca borchiata, la Bertè non rinunciava alle provocazioni: si esibiva con la canzone “Re” indossando un finto pancione.
Nulla in confronto allo scandalo che suscitarono un paio di anni più tardi il salto di spallina e il seno nudo dell’ospite internazionale Patsy Kensit, cantante degli Eight Wonder e il brano Etienne, della francese Guesh Patti con un testo pieno di espliciti riferimenti sessuali.
E pensare che da piccola bastavano il viso scavato di Anna Oxa, le pettinature ingessate dalla lacca e il suo fisico scheletrico ad urtare la mia sensibilità. M’impaurivo e ascoltavo l’audio coprendomi gli occhi. Inoltre negli anni Ottanta le scenografie dei Festival erano molto scure, dominavano il blu e il verde. Il colore, un privilegio concesso ai telespettatori solo dal 1977 quando il Festival abbandonò il bianco e nero e venne trasmesso per la prima volta dal teatro Ariston.
Ben presto la Festa della Canzone superò i confini di spazio e tempo. Lo sapeva bene il primo e storico conduttore Nunzio Filogamo che apriva le serate del Festival con il consueto saluto “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate”. Un invito a sentirsi parte della tradizione italiana, in qualunque posto e in qualunque momento.
Già, la tradizione. Perché il Festival ha scritto le pagine della cultura del Bel Paese, ne ha fotografato l’evoluzione sociale, ha scandito gli eventi. Alle elementari ballavo insieme ai miei compagni di scuola “Papaveri e papere”. Non potevo sapere che quel brano, cantato nel 1952 da Nilla Pizzi, fu accusato di essere un inno di propaganda politica del Partito comunista italiano: i “papaveri alti alti” erano i dirigenti della Democrazia Cristiana, le papere il popolo. C’è chi disse invece che quel motivetto allegro voleva ironizzare sulla condizione femminile del tempo.
Nilla Pizzi and Mina in "Papaveri e Papere" |
Il Festival degli anni Settanta arrivò persino a dettare le mode: l’acconciatura a cespuglio di Marcella Bella, che esordì con “Montagne verdi”, divenne una mania fra le adolescenti. Per non parlare delle minigonne mozzafiato di Sabrina Salerno e Jo Squillo, in coppia nel 1991 con “Siamo donne”.
Crescevo, il Festival cambiava. Ma restava un appuntamento da non perdere. La musica mi piaceva sempre di più, il pubblico si affezionava ai cantanti. Vasco Rossi diventava un icona del rock, ben diverso dal rock’n’ roll dei “24 mila baci” di Adriano Celentano.
Negli anni Novanta il panorama musicale si arricchiva di nuovi talenti: Andrea Bocelli, Giorgia, Laura Pausini.
Adoravo la musica sì, ma altrettanto forte era il mio amore per la scrittura. Da qui nacque il mio sogno nel cassetto: un giorno sarei stata un’inviata a Sanremo.
Dieci anni più tardi ero lì. Giravo per le strade che odoravano di tulipani, girasoli, rose, orchidee. Nella tasca un taccuino, nelle mani una video camera per catturare ogni istante. Ero fra centinaia di giornalisti in sala stampa.
Davanti a me il palco calcato da Pippo Baudo e Mike Bongiorno. Quello su cui si erano esibiti Domenico Modugno, Claudio Villa, Luigi Tenco, Mina e Giorgio Gaber. Davanti a me l’orchestra che suonava dal vivo. La musica mi arrivava dritta allo stomaco e poi al cuore fino a farmi commuovere. Un’emozione troppo grande da contenere, troppo forte da raccontare.
A distanza di sessant’anni il Festival, ormai adulto come un padre, sembra aver perso il senno, la genuinità, la magia di una tradizione che passa per le orecchie, lo sguardo e s’imprime sulla pelle. Quella degli italiani.
Oggi, nel 2010, c’è bisogno di dimenticare i problemi quotidiani. E il pubblico fischietta già alla seconda serata il ritornello di una delle canzoni in gara, “Malamorenò” di Arisa. Una simpatica ventottenne, un po’ bruttina, che somiglia a un cartone animato. Con occhiali enormi e labbra rosso fuoco, sdrammatizza sul futuro. Perché in fondo “Può scoppiare in un attimo il sole, tutto quanto potrebbe finire, ma l’amore, ma l’amore no!”. Per non farsi mancare niente Arisa si fa accompagnare dalle sorelle Marinetti, tre coristi uomini vestiti da donne. Un chiaro riferimento alle Sorelle Bandiera (Tito Leduc, Neil Hansen e Mauro Bronchi), il trio comico e musicale di travestiti che spopolavano sul piccolo schermo negli anni Settanta.
Sono finiti i tempi di Modugno, quando nel 1958 la platea batteva i piedi a ritmo di “Nel blu dipinto di blu”. E quando un anno dopo la sua “Piove” conosciuta come “Ciao amore ciao” divenne un tormentone. Fu scritta quasi per caso durante la sua tournèe in America, nella stazione di Pittsburg dopo aver visto l’addio disperato tra due fidanzati.
Tra le note oggi si parla di corruzione, eutanasia, di disoccupazione e crisi mondiale. “Meno male che c’è Carla Bruni” recita la canzone di Simone Cristicchi. Una voce controcorrente che elenca i difetti e non le virtù di un’Italia in balia della mala informazione. Dove ciò che conta è il gossip, perché alla fine fa sorridere.
E ci ritroviamo in gara un terzetto pittoresco composto da Pupo, il tenore Luca Canonici ed Emanuele Filiberto di Savoia, erede della dinastia cacciata dall’Italia con l’istituzione della Repubblica e poi tornata dopo più di mezzo secolo. A quanto pare il principe biondo, occhi azzurri, ma senza calzamaglia né cavallo bianco conquista le fanciulle e domina i palinsesti.
Vincitore dell’ultima edizione del programma “Ballando con le stelle”, sbarca persino al Festival di Sanremo. Non sa cantare, ma impugna l’asta del microfono come una rockstar. Messo lì non a caso. E’ popolare, è ormai un personaggio.
Corsi e ricorsi storici, che strano scherzo del destino! La giuria lo elimina, il televoto da casa lo salva.
La gente nel teatro Ariston fischia, urla e si alza in piedi. L’orchestra si ribella al giudizio, lanciando gli spartiti in segno di protesta
. E’ caos. Graziato tra finalisti colui che canta “Sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio”.
Non c’è dubbio, sono i numeri dell’Auditel a trionfare, non la qualità. E tra le ruffianate di chi inneggia alla patria e l’imitazione mal riuscita di un divino Freddy Mercury, la spunta Valerio Scanu, nuova scoperta di un talent show.
Il suo brano “Per tutte le volte che” si classifica al primo posto.
Insomma dov’è finita la tradizione italiana? Chissà cosa direbbe Nunzio Filogamo in occasione del sessantesimo anniversario. Forse sospirerebbe deluso: “Miei cari amici vicini e lontani…questa è l’Italia!”.
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