Articles by: Goffredo Palmerini

  • L'altra Italia

    Mario Fratti. Un libro tra italiano ed inglese



    L’AQUILA – E’ uscito di recente, pubblicato da REA Edizioni (L’Aquila, 2015), un interessante volumetto di 118 pagine curato dall’anglista Emanuela Medoro: “Mario Fratti fra italiano e inglese”, un mini laboratorio sulla ricerca linguistica del grande drammaturgo italo-americano, nato a L’Aquila, che dal 1963 vive a New York. Il volume, in formato digitale (€ 2,99 e-book), è acquistabile sulle maggiori agenzie di vendita on line, mentre in formato cartaceo si può richiedere direttamente all’editore (www.reamultimedia.it - [email protected]). Il lavoro della Medoro non ha la pretesa d’essere un Saggio linguistico tout court. Piuttosto vuole offrire solo un esempio di come Mario Fratti abbia dedicato una particolare attenzione alla ricerca del linguaggio, attingendo in modo certosino da svariate fonti e, più assiduamente, da quella giornalistica. 
     
    “L’Inglese non è la prima lingua di Mario Fratti - scrive Emanuela Medoro nell’introduzione al volume -, è una lingua presa in prestito in età adulta, cui ha dedicato attenzione e cure documentate da una ampia raccolta di frasi, prese prevalentemente dal New York Times, ma anche da romanzi e testi teatrali. Una decina di grossi quaderni, manoscritti sempre con lo stesso ordine, con una grafia ordinata e sistematica sono il risultato di questa paziente ricerca portata avanti con passione nel corso degli anni vissuti a New York. A proposito di questa attività di ricerca M. Fratti dice: «L’Inglese non è la mia prima lingua. Ho cominciato a scrivere in Inglese cinquant’anni fa. Durante la mia lunga carriera ho trovato che ci sono molte espressioni o modi di dire in Inglese che, a causa della unicità del loro costrutto, non saranno mai facilmente usate da quelli la cui prima lingua non è l’Inglese. Per far sì che le traduzioni in Inglese dei miei lavori suonassero più autenticamente “Inglese” (o Inglese-Americano), ho dato la caccia ed ho collezionato molte frasi Inglesi, costrutti grammaticali, che sono in qualche modo così idiomatiche che non saranno mai ovvie per i traduttori la cui prima lingua è diversa dall’Inglese. La raccolta è durata circa quarant’anni.» In prima lettura la raccolta si presenta come una massa caotica di frasi ritagliate da contesti diversi, l’alto mare aperto dell’inglese, la realtà infinita ed inafferrabile per non nativi della lingua parlata e scritta dalle persone colte, che comunicano in modo pieno e idiomatico. Attraverso queste frasi il lettore può compiere un viaggio affascinante che esplora usi e abitudini americane nello spazio dell’isola di Manhattan, può entrare nel cuore di New York.”
     
    “Ho notato particolare interesse - aggiunge Emanuela Medoro - per frasi che toccano i temi ricorrenti nell’opera di Mario Fratti drammaturgo: persone e atteggiamenti, idee e sentimenti, conflitti, bugie e inganni, relazioni sociali, il lavoro e gli affari, vincitori e vinti, la politica, lo spettacolo. Questi concetti sono diventati le aree tematiche che raggruppano le frasi della raccolta seguente. Da notare che non sempre è stata facile l’attribuzione di una frase all’una o all’altra area, accade che alcune frasi siano inserite perché interessanti dal punto di vista linguistico, anche se non precisamente appartenenti al tema del gruppo. È bene notare che questa raccolta di frasi, pur spaziando all’interno della lingua inglese, idiomatica, parlata e scritta dalle persone colte, non va letta come un dizionario che illumina i significati e gli usi più comuni delle parole e delle combinazioni di esse. Invece essa acquista significato come un capitolo, invero molto singolare, dell’opera complessiva di Mario Fratti, poeta, drammaturgo ed anche filologo. Infine sottolineo che, poiché manca il contesto da cui sono ritagliate le frasi, le mie traduzioni sono solo delle proposte e spero di aver centrato il loro significato fondamentale e più usato.”
     
    Ho accolto volentieri l’invito dell’autrice a scrivere la Prefazione al suo libro. Qui di seguito la riporto, magari può essere minimamente utile a trarre un’idea del buon lavoro di Emanuela Medoro, linguista, ma anche giornalista di talento.
     
    Scrivo volentieri questa breve presentazione al prezioso lavoro di Emanuela Medoro. Un piccolo esempio del fecondo giacimento linguistico raccolto dal drammaturgo Mario Fratti nelle quotidiane letture di giornali - in primis il New York Times - e riviste americane, annotando con cura certosina frasi idiomatiche della lingua inglese, non altrimenti reperibili. In oltre cinquant’anni di vita culturale nella Grande Mela - dove era giunto nel 1963 per una sua opera messa in scena da Lee Strasberg, poi per insegnare alla Columbia University e all’Hunter College, quindi per un’intensa attività drammaturgica - Mario Fratti rivela, con questa curiosità d’indagine sulla qualità della lingua inglese, una passione che va ben oltre l’interesse verso un idioma. Una lingua, l’inglese, che in più occasioni ha dichiarato d’amare, esaltandone l’efficacia e la spigliatezza.
     
    D’altronde, la sua stessa capacità d’armeggiarla in maniera brillante nella sua produzione di commedie e drammi teatrali è la rappresentazione icastica che la padronanza di quella lingua è diventata così forte patrimonio, al pari dell’italiano, da avergli conquistato l’ammirazione degli americani per il suo teatro. Asciutto, tagliente, imprevedibile il suo teatro, dove la costruzione letteraria e drammaturgica è talmente aderente al costume e alle abitudini di quel popolo da avergli procurato apprezzamenti e successi talvolta ben più significativi di quelli che gli americani hanno riservato a giganti della loro drammaturgia, quali Tennessee Williams, Arthur Miller, Thornton Wilder, Edward Albee, Eugene O’ Neil.
     
    E la cifra del successo di Fratti sta proprio nella sua capacità di scrivere teatro con un fraseggio dialogico che non ricorre a fronzoli, a giri di parole, ma è diretto, penetrante, fulminante, quando con finali del tutto inattesi e sconcertanti riesce sempre a stupire. Eppure, alla straordinaria fecondità della produzione teatrale, il drammaturgo aquilano, ormai trapiantato a New York, ha coltivato un insospettato interesse filologico, un’attenzione alle qualità e alle raffinatezze della lingua inglese, da portarlo ad annotare con regolarità e passione frasi e locuzioni singolari, con il relativo significato in italiano, che hanno riempito una mole impressionante di pagine di quaderni.
     
    In questo pelago di ricchezze idiomatiche si è avventurata Emanuela Medoro. Non senza qualche incertezza e dubbio, all’inizio, se non altro per la difficoltà d’operare una selezione tra tanta disponibilità. Se posso fare un’annotazione personale, io l’ho certamente incoraggiata in questa iniziativa. Per almeno tre ragioni. Non posso osare nel riconoscerne un valore filologico, non avendo la necessaria conoscenza dell’inglese per dare questo giudizio. Eppure questa potrebbe essere una prima ragione. La seconda è quella di mostrare, di Mario Fratti, un interesse spinto fino alla scoperta d’ogni dettaglio della caratura idiomatica d’una lingua, che peraltro passa per l’essere semplice e stringata. La terza ragione credo di significarla nel rilevante valore di quest’accurata documentazione linguistica di Mario Fratti, che immagino non abbia precedenti.
     
    Mi spingo a ritenere che tale mole di patrimonio idiomatico sia anche il modo di certificare, attraverso la singolare e duttile modularità del fraseggio, l’anima profonda d’un popolo, e l’indole, che traspare dalla fioritura della sua parola. Fratti l’ha rinvenuta ed archiviata meticolosamente nei suoi quaderni, l’anima del popolo americano, dentro la ricchezza linguistica magari difficile da trovare in letteratura e che invece è rinvenibile nella lingua quotidiana, che sia di strada o delle élite culturali, riportata nelle pagine dei giornali.
     
    Qui sta anche la preziosità di questa piccola opera d’arte di Emanuela Medoro. Non era e non è intenzione dell’autrice dare senso esaustivo a questa iniziativa di documentazione sull’opera del nostro insigne concittadino. Al più, vuole tentare di dare solo saggio del rilevante cespite linguistico accumulato da Mario Fratti, sottoponendo ai lettori desiderosi di scoprire la lingua degli americani un esempio della ricchezza espressiva, che è anche sintomo della cultura d’un popolo. Una piccola ma significativa selezione espunta da una dotazione rilevante di locuzioni, che ad altri - linguisti, filologi ed accademici - potrebbe interessare compiutamente per studio e trattazione. Resta sicuramente illuminante la doviziosa curiosità che alimenta l’intensa vita culturale del nostro concittadino Mario Fratti. Che ci fosse noto come uno degli autori di teatro più grandi e famosi nel mondo, è del tutto acclarato. Mentre è per noi sicuramente una sorpresa scoprirlo nell’inconsueto sconfinamento: un Fratti così particolare ed imprevedibile anche nel campo della ricerca filologica, come solo il suo teatro poteva averci abituato.       
     
    Mario Fratti, professore emerito presso l’Hunter College, è un drammaturgo e critico teatrale di fama internazionale. Autore di oltre ottanta opere per il teatro, commedie e drammi, tradotte in una ventina di lingue e rappresentate in seicento teatri di tutto il mondo, è meglio conosciuto per il suo musical Nine (ispirato dal famoso film di Fellini, 8 e mezzo), che nella sua produzione originale del 1982 ed in quelle successive ha vinto numerosi premi, tra cui 7 Tony Award, che per il teatro è come l’oscar per il cinema. Mario Fratti è nato a L’Aquila il 5 luglio 1927. Vive a New York dal 1963. Oltre ai suoi scritti drammaturgici, di recente Fratti ha pubblicato il romanzo “Diario proibito” (Graus Editore, Napoli 2013), ambientato nella sua città natale, e la silloge poetica “Volti” (Edizioni Tracce, Pescara 2014). Scrive note di critica teatrale per America Oggi, il più diffuso quotidiano italiano negli Stati Uniti, e per nove giornali europei.
     


  • L'altra Italia

    6 aprile 2009 - terremoto dell'Aquila. Un ringraziamento e un augurio


    Oggi è il 6° anniversario del terremoto dell'Aquila, il 6 aprile 2009 alle ore 3:32. Mentre il pensiero va commosso alle 309 vittime del sisma - molti i giovani e i bambini -, alle sofferenze morali e materiali di una città lacerata nel profondo, forte si avverte il senso di gratitudine verso tutti i Volontari che da ogni parte d'Italia vennero a soccorrerci, o che da ogni angolo del mondo ci furono vicini con la solidarietà e l'affetto.


    Eccezionale fu la vicinanza delle comunità abruzzesi nel mondo, cui va il nostro pensiero riconoscente e grato. 
     
    Questa Pasqua di Resurrezione ci fa sperare sulla rinascita di una città che sta già risorgendo, tra tanti problemi ancora. Ci fa pensare alle giovani generazioni, al loro futuro nella città e nei suoi borghi ricostruiti.


    Tra le tante difficoltà che bisogna affrontare - e anche qualche squallore! -  non viene meno la speranza e la determinazione di riconquistare la bellezza di una città straordinaria di preziosità artistiche e culturali, ma anche una comunità che sappia, nella concordia, lavorare insieme per il proprio destino. Memoria e futuro, dunque, superando le difficoltà innumerevoli del presente. Affido l'anelito di speranza al messaggio contenuto in questo video, realizzato da adolescenti, oggi, ancora bambini in quel 6 aprile del 2009 >>>
     
     
     
    Un buon augurio per la tua rinascita, L'AQUILA, coraggio e buona fortuna a tutti gli Aquilani!


  • L'altra Italia

    L'Uomo Carbone e Marcinelle


    L’AQUILA – Sabato 21 marzo è una bella giornata di sole all’Aquila. L’inizio della primavera è splendente, nel parco del Castello cinquecentesco. Molti giovani si godono l’insolito tepore in attesa dell’apertura dell’Auditorium progettato da Renzo Piano, dove alle 10 il Teatro Sociale di Pescara porta in scena “L’Uomo - Carbone”, un dramma scritto nel 2010 da Michele Di Mauro e Federica Vicino. L’iniziativa, promossa dalla prof. Luciana De Paolis e prontamente accolta dalla dirigente Serenella Ottaviano, è destinata agli studenti degli Istituti Superiodi di Studi “Leonardo da Vinci” e “Ottavio Colecchi” dell’Aquila. Gli studenti possono così conoscere un pezzo di storia dell’emigrazione italiana in Belgio, attraverso il drammatico racconto della vita nelle miniere di carbone, fino a quel tragico 8 agosto del 1956, quando nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle esplose la tragedia che fece 262 vittime, tra cui 136 italiani.
     
    Pagina luttuosa della nostra emigrazione, purtroppo non la sola - quest’anno ricorre il 50° anniversario della tragedia di Mattmark, in Svizzera -, che richiama la responsabilità di far conoscere la diaspora italiana per il lavoro nei cinque continenti. Ora all’estero sono 80 milioni gli oriundi italiani delle varie generazioni. Un’altra Italia, più grande di quella dentro i confini, che ha saputo farsi apprezzare, conquistando rispetto e prestigio in ogni angolo del mondo dove il talento e la creatività dei nostri emigrati si sono affermati in ogni campo. E’ necessario, quindi, che il rilevante fenomeno migratorio italiano, con i suoi risvolti sociali, economici e politici, entri finalmente nelle scuole e nelle università.
     
    Ecco, dunque, l’importanza di questa iniziativa, germinata l’anno scorso a Torricella Peligna durante il Festival “Il dio di mio padre” dedicato a John Fante, dove nel focus riservato all’emigrazione venne presentato il romanzo “L’Uomo - Carbone” (SensoInverso Edizioni, 2013) di Michele Di Mauro, che lo stesso autore ha scritto dopo aver composto, nel 2010, l’omonima in pièce teatrale. In quell’occasione, presente la prof. Luciana De Paolis, nacque con lo scrittore l’idea di proporre l’opera agli studenti aquilani, ora diventata realtà grazie anche alla collaborazione delle docenti Ventura Cinque, Sara Ricci, Marcella Gigante e Nadia Drago che sul tema delle migrazioni hanno svolto con gli studenti una puntuale progetto di studio e riflessione, del quale hanno dato un saggio come anteprima allo spettacolo, esponendo i lavori della loro ricerca. Ma veniamo all’opera di Michele Di Mauro, con lo stesso autore nelle vesti di attore, rappresentata con forte intensità dagli attori del Teatro Sociale di Pescara, per la regia di Federica Vicino, che collaborò alla stesura del testo.
     
    Una performance davvero eccellente. Un pugno allo stomaco. Commovente. Gli attori fanno il miracolo di portare all’attenzione e al silenzio gran parte degli studenti che, durante l’esposizione del loro lavoro di ricerca prima dell’inizio dello spettacolo, non facevano altro che parlare tra loro, creare disturbo o immergersi nella contemplazione dei loro telefonini. Poi il dramma li ha assorbiti e coinvolti, in un silenzio assoluto e con l’emozione che si taglia a fette. Potenza della drammaturgia e del suo linguaggio, che sa portare le storie direttamente al cuore degli spettatori, in quel colloquio diretto, quasi carnale, che solo il palcoscenico riesce a stabilire tra attori e pubblico. Forte la recitazione di Michele Di Mauro e dei suoi colleghi attori. Un lungo, convinto applauso liberatorio scioglie il groppo in gola che ha preso gran parte del pubblico, talmente coinvolgente è stata la narrazione scenica della vita in miniera attraverso la vicenda umana dei due fratelli minatori, Antonio e Sandro - la pièce racconta una storia vera -, fino a quella mattina dell’8 agosto 1956, quando si consumò la tragedia. Sandro si salvò solo per non essersi svegliato in tempo per scendere a lavorare nel Pozzo numero 1 della dannata miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle.
     
    Nel secondo dopoguerra, tra Italia e Belgio, il 20 giugno 1946, fu stipulato un accordo che prevedeva l’invio di 50mila lavoratori in cambio di carbone. Il Belgio concedeva quindi la possibilità di occupazione nelle sue miniere di carbone, riconoscendo all’Italia per ogni lavoratore la fornitura di un certo quantitativo di carbone. Questo romanzo di Michele Di Mauro, e l’opera teatrale da cui è ispirato, ci proietta sotto terra insieme ai minatori che hanno versato sudore e sangue per inseguire i loro sogni, scoprendosi poi come topi in gabbia, in condizioni di lavoro disumane e senza vie di scampo. “L’Uomo-Carbone”, sia il romanzo che il dramma teatrale, racconta con grande efficacia la miniera, attraverso la narrazione di Antonio e Sandro, due fratelli originari di un piccolo paese d’Abruzzo. Dopo un tragico incidente in miniera, in cui il padre perde la vita, i due fratelli acquisiscono come risarcimento il diritto di andare a lavorare in Belgio. Mentre Antonio, il maggiore, è entusiasta di questa opportunità, Sandro – diverso dal fratello per carattere e inclinazioni, sognatore ed amante dei libri – vive invece tale situazione con rabbia, considerandola uno squallido baratto, persone contro carbone. Una volta in Belgio, nella miniera dove sono destinati, conoscono molti connazionali, discutono di sogni ed aspettative, ma si scontrano con la cruda realtà delle condizioni di lavoro, con le vessatorie clausole del contratto, con la diffidenza dei cittadini belgi. La lettura del libro, come lo spettacolo, rivelano efficacemente l’altro di questa storia. Michele Di Mauro, autore del volume e del dramma teatrale, è nato nel 1973 a Lesina, in provincia di Foggia. Si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Chieti. Cardiologo e cardiochirurgo, con un forte impegno sui temi sociali, dagli anni ’90 Di Mauro si è dedicato al teatro, come autore ed attore. Nel 2006 ha fondato, insieme a Federica Vicino, il Teatro Sociale di Pescara, che produce pièces teatrali inedite a carattere storico, sociale e civile. Considera come una specie di missione civile portare, dal 2010, nelle scuole e nei teatri questo dramma “L’Uomo Carbone”. Con tutte le motivazioni possibili, se ripercorriamo la storia.
     
    L’8 agosto del 1956 la tragedia nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, rivelò con i numeri del disastro - 262 morti di cui 136 italiani - l’immane dimensione del sacrificio abruzzese, con 60 vittime, in gran parte originarie di Manoppello, Lettomanoppello, Tuttivalignani, Roccascalegna, Farindola. Una tragedia sul lavoro che denunciò la sommarietà se non l’assenza delle condizioni di sicurezza in miniera, la lacunosità della previdenza e dell’assistenza ai lavoratori, il vergognoso contratto tra i due Stati, per il quale i lavoratori destinati in miniera avevano rilevanza solo per assicurare le forniture di carbone all’Italia. La tragedia, con la dolorosa eco che immediatamente si diffuse in Italia e nel mondo, costrinse i parlamenti e i governi a scrivere norme per la sicurezza sul lavoro e la previdenza. Quella data e quella tragedia sono ora state riconosciute nella memoria collettiva del nostro Paese, come Giornata del lavoro italiano nel mondo.
     
    Ci sono stato io, a Marcinelle, due anni fa. Sono stato un’intera giornata nella miniera di Bois du Cazier. Mi sono fermato a riflettere, nella stanza del Memoriale delle vittime. Ho letto i nomi delle 60 vittime abruzzesi: 23 erano di Manoppello, 6 di Lettomanoppello, 6 di Farindola, 9 di Turrivalignani, 6 di Roccascalegna, 2 di Castel del Monte, e una vittima ciascuno di Alanno, Elice, Rosciano, Casoli, Castevecchio Subequo, Sant’Eusanio del Sangro, Ovindoli e Isola del Gran Sasso. Le altre vittime italiane provenivano dalla Calabria (4), Campania (2), Emilia Romagna (5), Friuli Venezia Giulia (7), Marche (12), Lombardia (3), Molise (7), Puglia (22), Sicilia (5), Toscana (3), Veneto (5) e Trentino (1). Al processo che seguì, l’unico condannato, in appello, fu il direttore dei lavori. Nel locale delle testimonianze sono apposte le targhe commemorative, da tutta Europa. La miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, per preservarne la memoria imperitura contro i tentativi di cancellarne la storia, trasformando la destinazione d’uso del luogo, è stata riconosciuta dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Tante cose sono cambiate da quegli anni, per i nostri emigrati in Belgio. Oggi l’Abruzzo può andare fiero d’un fatto straordinario: il figlio d’un emigrato abruzzese di San Valentino, in provincia di Pescara, è diventato Primo Ministro del Belgio. Elio Di Rupo è motivo d’orgoglio per l’Italia e per l’Abruzzo, terra dei suoi padri.
     
    Il progetto di ricerca che le due scuole aquilano hanno sviluppato e la rappresentazione teatrale “L’Uomo-Carbone” sono state iniziative importanti per far conoscere agli studenti una piccola parte della storia dell’emigrazione italiana, attraverso la tragedia di Marcinelle e il lavoro nelle miniere. Credo che nei viaggi d’istruzione le scuole italiane dovrebbero inserire una giornata a Marcinelle, al Bois du Cazier. A cominciare dalle scuole superiori dell’Abruzzo. Si dovrebbe studiare quella tragica vicenda e visitare quella miniera. Una pagina nera del lavoro italiano all’estero, non la sola purtroppo. Oggi siamo portati a celebrare la parte gloriosa dell’emigrazione italiana, i tanti successi raggiunti dai nostri emigrati. Ma talvolta sfugge ciò che c’è dietro in termini di sacrifici, pregiudizi, umiliazioni e morti, prima che gli italiani abbiano potuto finalmente affermarsi, riscattare una vita dignitosa, conquistare stima e prestigio per il loro talento e la voglia di farcela. E’ un compito, questo, che spetta alle istituzioni, cancellando quella specie di rimozione dalla memoria del fenomeno migratorio italiano. Spetta alle scuole e alle università studiare e fare ricerca sulla nostra emigrazione. Non è più accettabile che la storia dell’emigrazione, che ha coinvolto milioni d’italiani a cavallo di due secoli, non entri ancora pienamente nella Storia d’Italia.   



  • L'altra Italia

    La lingua italiana è uno spettacolo

    FIRENZE - Qual è lo stato di salute della lingua italiana? In questi tempi di massiccia contaminazione con linguaggi imposti dal web, di migrazione verso altre lingue e di  fastidiosi barbarismi, l’interrogativo rimbalza spesso sui media, suscitando intriganti dispute
    tra esperti e cittadini preoccupati di una costante erosione della nostra bella lingua. Ma l’argomento è anche croce e delizia delle comunità italiane all’estero, da un lato fortemente interessate a tutelare e promuovere la nostra lingua, con una passione senza pari, insieme alle istituzioni culturali e in primis la Dante Alighieri; dall’altro mortificate dal crescente disinteresse dei vari Governi che fanno a gara nel contrarre le già magre risorse destinate alle politiche culturali all’estero. E pensare che proprio sull’espansione della lingua e della cultura italiana si rafforza l’interesse verso il nostro Paese e il Made in Italy. Quanto di più crescerebbe il richiamo verso l’Italia se solo s’investisse un po’ di più all’estero su lingua e cultura, stimolando ancor più l’attenzione già innata verso il Belpaese. Malgrado la disattenzione e le grame risorse, oggi l’italiano si colloca al quarto posto tra le lingue più studiate al mondo. Orbene, proprio nell’ambito dell’azione di tutela, diffusione e valorizzazione in Italia e nel mondo della nostra amata Lingua, la società Dante Alighieri di Firenze ha promosso, in collaborazione con la Compagnia delle Seggiole, un originale evento teatrale dal titolo “Sao ko kelle terre”, su testo di Marcello Lazzerini.  

    Già giornalista Rai, Marcello Lazzerini ha scritto numerosi libri - tra i quali “La leggenda di Bartali”, Premio Bancarella Sport 1993 - e vari lavori teatrali. Tra questi ultimi mi piace ricordare “Celeste e Galileo”, che debuttò nell’ottobre 2010 a New York nell’ambito delle iniziative per il Mese della Cultura italiana,  per iniziativa del grande drammaturgo Mario Fratti. Alla “prima” di quello spettacolo, al Theater of the New City, anche chi scrive ebbe l’opportunità di partecipare, apprezzandone la forte suggestione e il successo che il dramma raccolse, con una superba interpretazione di Sandro Carotti e Laura Lamberti. Un elegante, sofisticato dramma basato sulla vita di Celeste che, religiosissima, ama suo padre Galileo e soffre per la persecuzione cui la Chiesa sottopone lo scienziato pisano. E’ un testo di grande finezza, ispirato alla corrispondenza effettivamente avvenuta tra Celeste e suo padre, nel decennio precedente il 1633, l’anno del processo al grande scienziato e della condanna per eresia, che poi lo condusse all’abiura delle sue teorie astronomiche.

    Marcello Lazzerini ha inoltre scritto una serie di “Faccia a faccia improbabili” per la Radio Vaticana, quali Galileo, Vespucci, Lorenzini, La Palla, Monna Lisa, e il Ventaglio. Queste opere su singolari colloqui con personaggi del passato sono state riproposte dal vivo e con successo dalla stessa Compagnia, la quale ha messo in scena anche altri testi dell’autore, dedicati al dialogo tra Shakespeare e Galileo e tra Galileo e Leonardo, rappresentati in occasione dei 90 anni della Radio ( “90 anni on Air”) nella sede della Rai Toscana, ai “Salotti di Firenze Capitale”. Su questa nuova produzione teatrale “Sao ko kelle terre” rivolgo qualche domanda all’autore Marcello Lazzerini.

    Marcello, come è nata l’idea di dedicare uno spettacolo alla Lingua italiana?

    “Dal desiderio di conoscere lo stato di salute della nostra lingua e di metterne in luce – di fronte ai barbarismi ed agli eccessivi anglismi che denotano, diciamolo, un certo provincialismo, i tanti colori e le mille sfumature che costituiscono la sua ricchezza, l’armonia, la musicalità, in una parola la bellezza, di cui dovremmo essere orgogliosi. Quale dunque miglior modo dunque se non quello di chiederlo direttamente a lei, alla ……Signora Lingua!”

    Si tratta, dunque, di un’intervista ( in) credibile alla …Signora Lingua, secondo il tuo ormai collaudato schema?

    “Anche, ma non solo. L’ insolito e, diciamo pure, originale dialogo con la Signora Lingua è il filo conduttore di uno spettacolo magistralmente interpretato dagli attori della Compagnia delle Seggiole, che unisce l’elemento divulgativo al divertimento, ripercorrendo i momenti salienti della sua vita, dalla nascita ai nostri giorni, che narra delle sue gioie e dei momenti difficili, nonché delle sue aspettative circa il futuro.”

    Perché quel titolo non a tutti comprensibile?

    “Perché è il certificato di nascita della lingua, sancito in un atto giuridico, il  Placito Capuano, in cui è riportata per la prima volta non in latino ma in volgare la nota frase “Sao ko kelle terre, per kelle fini que qui contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”. E’ la testimonianza in base alla quale il giudice confermò l’assegnazione di alcune terre della piana tra Capua e Benevento, rivendicate da un privato, ai monaci dell’Abbazia di Montecassino. Parliamo del 960 dopo Cristo. Da qui prende le mosse lo spettacolo.

    Che, se ho ben capito, è una sorta di bignami della storia della letteratura. Come si sviluppa?

    “Fabio Baronti, capocomico della compagnia, veste i panni di un giornalista a colloquio con una “Signora” (Sabrina Tinalli, che cura anche la mise en espace) elegante e raffinata, ma anche ciarliera e talvolta spudorata: è proprio lei, la Lingua Italiana nelle sue mille sfaccettature. Il dialogo tra i due è originale, sin da subito la donna rivela di non provare alcun fastidio per i “barbarismi” subiti da parte delle innovazioni mediatiche: il tutto comunque contribuisce alla sua diffusione; in fondo anche in epoche passate è stata vittima di angherie e corruzioni, non solo nell’ultimo secolo! Durante l’intervista viene rappresentata la scena del Placito e da lì si ripercorrono le tappe salienti della vita della lingua italiana, grazie anche all’ausilio di immagini, filmati e contenuti musicali, la cui proiezione è intervallata dalle appassionate interpretazioni delle opere dei maggiori autori della letteratura italiana interpretate dagli attori della compagnia (Fabio Baronti, Marcello Allegrini, Luca Cartocci, Andrea Nucci, Silvia Vettori). Del gruppo fanno parte anche Vanni Cassori, per i contenuti musicali, e Daniele Nocciolini, tecnico video, mentre i contenuti video sono di Andrea Nucci. Il tutto si snoda - questo il giudizio di quanti lo hanno visto ed accolto con entusiasmo - con garbo e leggerezza, ma senza tralasciare nessuno dei nomi che hanno dato lustro al nostro paese. Un ringraziamento particolare va dato anche ad Antonietta Ida Fontana, Presidente della Società Dante Alighieri di Firenze - ed ex Direttrice della Biblioteca Nazionale - per la preziosa collaborazione al testo e per la disponibilità della sede. Infatti, proprio nel suggestivo oratorio di San Pierino, in via Gino Capponi a Firenze, abbiamo messo in scena le prime rappresentazioni: la più recente il 24 febbraio scorso.”

    E’ uno spettacolo esportabile?

    “Certo, ovunque in Italia e all’estero, come tutti gli altri che sono nel repertorio della Compagnia, che ha al suo attivo un’importante tournée a Kyoto con Mandragola e che opera soprattutto in luoghi storici e museali, quali Palazzo Corsini, Casa Martelli, Villa La Petraia, il Corridoio Vasariano, gli Uffizi, la Certosa, Palazzo Davanzati e tanti altri. Penso anzi che “Sao ko kelle terre” potrebbe interessare le varie Società della Dante Alighieri sparse nel mondo, gli Istituti di Cultura, le istituzioni scolastiche. La bellezza della nostra lingua è un segno della nostra identità.”

    Altri spettacoli in programma?

    I “Salotti di Firenze Capitale”, nella ricorrenza dei 150 anni (qui mi sono avvalso anche della testimonianza di un giovane Edmondo De Amicis), e mi auguro nuove repliche di “Celeste e Galileo” a Villa Il Gioiello, ultima  dimora del grande scienziato e, spero, dell’altro spettacolo “Divento vento”. Tutti lavori che hanno ottenuto calorosi consensi.”

  • L'altra Italia

    A Roma, la prima Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina

     Prende avvio a Roma la Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina, la prima edizione  della serie che si celebrerà il 25 febbraio d’ogni anno, per fare il punto sullo scambio culturale tra i due Paesi alimentato attraverso i processi migratori.

    Appuntamento alle ore 18, dunque, per “Il giorno di Stefano” presso Casa Argentina, in Via Veneto 7, sede del Consolato Generale d’Argentina. Una riflessione a più voci sul rilevante patrimonio culturale addensato in due secoli di migrazioni tra l’Italia ed il grande Paese latino americano, il più italiano del mondo per cultura ed entità degli italici in seno alla sua popolazione. “Il giorno di Stefano” è un evento promosso ed organizzato dall’omonima Associazione culturale, alla cui presidenza è Marina Rivera.

    Con questa iniziativa l’associazione intende avviare, in collaborazione con Casa Argentina, una serie di attività culturali, didattiche e artistiche per favorire una migliore conoscenza reciproca ed incrementare lo scambio tra i due popoli, le cui migrazioni sono stati indotte da guerre mondiali, esodi politici e situazioni economiche, sociali e culturali.

    Il nome metaforico della Giornata nasce dal romanzo “Stefano” della scrittrice argentina Maria Teresa Andruetto - prossima l’uscita anche in Italia, con l’editore Mondadori - che, ispirata dalla storia di suo padre, narra le difficoltà vissute da un ragazzo italiano costretto ad emigrare in Argentina.

    Intenso il programma. La Giornata, dopo il saluto e la presentazione dell’evento a cura dell’Addetto Culturale dell’Ambasciata d’Argentina, Federico Gonzalez Perini, e delle organizzatrici Marina Rivera e Cristina Blake (Associazione Culturale “Il giorno di Stefano”), prevede alle 18:15 un breve video di Maria Teresa Andruetto e letture in spagnolo di brani del libro “Stefano”; alle 18:30  “Italia, andata e ritorno.

    La traduzione del viaggio di Stefano” a cura di Ilide Carmignani, introduce Simona Cives (Casa delle Traduzioni - Comune di Roma), e reading di brani del libro “Il viaggio di Stefano”; alle 19:00 la Tavola rotonda “Culture migranti tra Italia ed Argentina.

    Narrazioni e immagini”, introdotta e coordinata da Virginia Sciutto (Università del Salento), con gli interventi di Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, Maria Rosaria Stabili (Università Roma Tre) e Claudia Zaccai (Università di Roma La Sapienza); alle 19:40 “Culture migranti tra Italia e Argentina. Voci e Musica”, un concerto dell’Artificio Vocal Ensemble diretto dal M° Alberto De Sanctis.

    Casa Argentina si trova in uno dei luoghi più suggestivi del centro di Roma, in un palazzo dal famoso architetto Gino Coppedè e costruito negli anni Venti. Considerato patrimonio artistico e culturale, è sotto la tutela del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le attività della Casa Argentina rispondono ai principi ed alle finalità che ne ispirarono la creazione: non solo la promozione e la diffusione in Italia dei diversi aspetti della cultura e della realtà del grande Paese sudamericano, ma anche il mantenimento dei legami con la propria nazione per gli argentini che per qualunque ragione si trovino in Italia. Le attività abituali riguardano corsi di lingua spagnola e di cultura argentina, stage di tango, corsi di teatro in spagnolo, ed altre iniziative culturali. Casa Argentina dispone, peraltro, di una preziosa biblioteca con oltre 4000 volumi. Ma ora torniamo brevemente a focalizzare le migrazioni che hanno interessato Italia ed Argentina

    “Quasi tutto in Argentina può essere collegato agli italiani”, scriveva Luigi Einaudi in un saggio pubblicato nel 1900 a Torino. “L’Argentina sarebbe ancora un deserto, le sue città un impasto di paglia e fango senza il lavoro perseverante, senza l’audacia colonizzatrice, senza lo spirito d’intraprendenza degli italiani. Figli d’Italia sono stati coloro che hanno creato il porto di Buenos Aires, che hanno colonizzato intere province vaste come la Francia e l’Italia; sono per nove decimi italiani quei coloni che hanno dissodato l’immensa provincia di Santa Fé, dove ora si diparte il grano che inonda i mercati europei; sono italiani coloro che hanno intrepidamente iniziato la coltura della vite sui colli della provincia di Mendoza, sono italiani moltissimi tra gli industriali argentini, ed italiani i costruttori e gli architetti dell’America del Sud, e italiano è quell’imprenditore il quale, emulo degli inglesi, ha costruito sulle rive del Plata per più di mezzo miliardo di opere pubbliche […]”. L’ardore del giovane Einaudi appare un po’ fuori misura, specie quando parla di colonizzazione dell’Argentina da parte degli emigrati italiani. Anche se sicuramente rilevante, e talvolta determinante, è stato il contributo italiano alla crescita e allo sviluppo d’un Paese sconfinato, ricco di enormi risorse naturali e di potenzialità economiche, sulle quali il talento e l’ingegno degli italiani hanno egregiamente operato. Come pure la cultura e il gusto italiano si sono fortemente innervati nelle espressioni culturali autoctone, determinando quella reciproca contaminazione che è cifra dell’attuale valenza culturale dell’Argentina. Certo è che di passi in avanti l’Argentina ne ha fatti dall’alba del Novecento, tra alterne vicende politiche ed economiche. L’America latina tutta è stata infatti l’approdo d’una straordinaria moltitudine d’italiani, a cavallo di due secoli, che hanno fortemente contribuito in quel continente alla formazione degli Stati, dal punto di vista economico, politico e culturale. L’Argentina è uno dei casi più eclatanti di questo processo. Basti pensare al fatto che oltre metà del Paese è di origine italiana, la percentuale più alta al mondo, con una comunità italiana in termini assoluti stimata in 20 milioni di oriundi, seconda solo a quella presente in Brasile. E davvero si riconosce, in Argentina, l’impronta italiana: nelle architetture, nello stile, nelle più varie espressioni culturali. E nella lingua e nella letteratura, come nella musica e nelle arti.

    Ben annota, infatti, Delfina Licata sul Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (SER ItaliAteneo, Roma 2014), nel lemma “Argentina”, uno dei tanti redatti dalla grande studiosa di migrazioni sull’opera ideata e diretta da Tiziana Grassi, della quale lei è stata coordinatore scientifico: “[…] Singolare è il grado di integrazione che gli italiani hanno raggiunto in questa nazione in tutti gli ambiti professionali e culturali. Il 50% della popolazione argentina, compresi diversi ex Presidenti, vanta un’origine italiana. Ancora oggi a Buenos Aires si parlano il cocoliche e il lunfardo, nati dalla fusione di più dialetti italiani con parole di origine spagnola. L’Argentina è ancora il primo paese per numero di cittadini italiani residenti (più di 665 mila) - iscritti all’Aire, ndr - e il secondo, dopo il Brasile, per numero di italo-discendenti. Si tratta di una comunità, allo stesso tempo, giovane – grazie ai riconoscimenti di cittadinanza e alle nascite all’estero – e anziana a causa delle tre ondate migratorie che videro centinaia di migliaia di italiani imbarcarsi dai porti della Penisola con destinazione Buenos Aires, la prima tra l’Ottocento e l’inizio della Grande Guerra, la seconda tra i due conflitti mondiali e l’ultima nel secondo dopoguerra fino al calo degli arrivi e all’inversione di tendenza dei flussi. […] L’emigrazione italiana in Argentina risale però a molto prima addirittura dell’annessione, nel 1815, della Liguria al Regno di Sardegna, evento che spinse i liguri, abili navigatori, ad affrontare il lungo viaggio spinti dal desiderio di arricchirsi. L’emigrazione italiana in Argentina, quindi, non iniziò per opera di modesti lavoratori, ma con gli intellettuali, esuli dei moti del 1820-21 e delle rivoluzioni del 1848. La presenza dei genovesi sul Rio de la Plata divenne in pochi anni così massiccia che indusse il Regno Sardo Piemontese a inviare, nel 1835, un primo diplomatico per rappresentare, almeno in teoria, gli interessi del commercio, della marina e degli stessi sudditi. […]”

    Allora ben venga questa prima Giornata delle Culture migranti tra Italia ed Argentina, dove “galeotto” è il libro di Maria Teresa Andruetto, la storia d’un adolescente in fuga dalla povertà, che nel primo dopoguerra emigra dall’Italia verso l’Argentina. Dopo l’addio ai suoi affetti, Stefano parte per un lungo viaggio con la valigia piena di sogni e di ricordi. La gita in barca e il naufragio, il lavoro nei campi, ma anche il circo e la musica popolare italiana fanno da sfondo alla storia. Una lunga avventura, l’adempimento di una promessa. Dice l’autrice: “Se un libro è un modo per conoscere, un modo di penetrare il mondo e trovare il posto che ci appartiene, Stefano mi ha permesso di avvertire il senso della fame, dello sradicamento, dello straniamento di uomini e donne, come di coloro che oggi, migranti, vanno in cerca di una vita migliore”. Si tratta quindi d’una delle tante piccole storie che compongono lo sterminato bagaglio di esperienze umane intinte nella grande Storia dell’emigrazione italiana. Una storia narrata con una prosa limpida, coinvolgente, da una scrittrice feconda e sensibile qual è Maria Teresa Andruetto. Nata nel 1954 ad Arroyo Cabral, discendenza piemontese, insegnante di scuola primaria e poi secondaria nella provincia di Cordoba, Maria Teresa Andruetto è autrice di romanzi, poesie, opere teatrali, saggi e letteratura per l’infanzia. Argomenti a lei cari sono la ricerca delle origini, la diversità culturale, la costruzione dell’identità individuale e collettiva, l’universo femminile, le conseguenze inferte al suo Paese dalla dittatura. Numerose le opere pubblicate, tra le quali 6 romanzi, 6 volumi di poesia, 15 libri di narrativa infantile, diversi saggi e pièces teatrali, contributi di narrativa e liriche in molteplici antologie. Molti i riconoscimenti alla scrittrice, tra i quali spicca il prestigioso Premio “Hans Christian Andersen”, conferito nel 2012 dall’IBBY (Organizzazione Internazionale del Libro Giovanile), il più alto riconoscimento internazionale nell’ambito della letteratura per l’infanzia, considerato nel settore come una sorta di premio Nobel.    

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    Omaggio alle Costituenti abruzzesi, Maria Federici e Filomena Delli Castelli


    PESCARA – E’ stato il sindaco di Pescara, Marco Alessandrini, ad aprire i lavori dell’annuale Convegno che ANFE e CIF hanno dedicato a due abruzzesi straordinarie, Maria Federici e Filomena Delli Castelli, componenti dell’Assemblea Costituente e poi della Camera dei Deputati. Ieri, peraltro, ricorreva esattamente il quarto anniversario della scomparsa di Filomena Delli Castelli, mentre Maria Federici era deceduta nel 1984 a L’Aquila. Non formale il saluto del sindaco Alessandrini alle due Costituenti, del loro contributo alla nascita della Carta costituzionale e della democrazia italiana, richiamando il dovere d’essere vigili rispetto ai valori di libertà in una giornata segnata dalla notizia dell’arresto di 14 terroristi neofascisti di Ordine Nuovo, operato in diverse città italiane dalla Procura dell’Aquila.


    L’introduzione al tema dell’incontro è stato svolto da Cinzia Maria Rossi, presidente ANFE di Pescara. La relatrice ha reso un omaggio alle due Costituenti abruzzesi che hanno fatto parte di quella grande stagione politica e che, insieme alle altre 19 "Pioniere della parità" (democristiane, comuniste, socialiste e dell'Uomo qualunque) hanno contribuito a dare all’Italia la più bella Carta costituzionale del mondo. Le 21 donne della Costituente, infatti, pur provenendo da "mondi" molto diversi - per cultura politica, studi ed per estrazione sociale - collaborando trasversalmente alla stesura della Costituzione italiana, hanno contribuito fortemente a sancire i diritti fondamentali di parità per tutti, sul lavoro, nella famiglia e nella società.

     
    All’introduzione di Cinzia Maria Rossi, peraltro perfetta coordinatrice di un’intensa serata, sono poi seguiti gli interventi e le testimonianze. Intanto il saluto del presidente dell’ANFE Abruzzo, Goffredo Palmerini, soffermatosi sul valore del contributo delle 21 donne della Costituente alla nostra Carta fondamentale, e delle due abruzzesi in particolare, quando per la prima volta, con il voto del 2 giugno 1946 a loro finalmente esteso, le donne erano entrate nelle Istituzioni. Lo storico Licio Di Biase, con essenziali tratti, ha illustrato la vita e l’opera di Filomena Delli Castelli, chiamata affettuosamente Memena dagli Abruzzesi, sia nella Costituente che nell’attività parlamentare, politica e di amministratore, come sindaco di Montesilvano. Un’opera sapiente ed illuminata, talvolta di frontiera, per la quale subì poi un’emarginazione nel partito in cui militava, la Democrazia Cristiana. Ma che ella comunque continuò, sia come docente che come giornalista nella Rai. Interessante la testimonianza di Francescopaolo D’Adamo, mostrando un documento originale che di Memena Delli Castelli dimostrava il valore, una lettera invito a votarla dell’on. Giuseppe Spataro, personalità di spicco in Abruzzo e nella politica nazionale, indirizzata ad un esponente politico locale. Quando il voto poteva davvero essere una scelta, con le preferenze, contrariamente all’attualità che ci ha consegnato un esercito di nominati, ha concluso D’Adamo.
     
    Altra testimonianza quella del sindacalista Geremia Mancini, già segretario abruzzese dell’Ugl e per qualche mese segretario generale di quel sindacato. Mancini, peraltro con la sua organizzazione sempre dimostratosi attento all’emigrazione, incontrò Filomena Delli Castelli. Sebbene in avanzata età, ella dimostrò un’eccezionale giovinezza intellettuale e un grande interesse per i giovani e per la loro formazione. A Filomena Delli Castelli, infatti, l’Ugl conferì l’Arcolaio d’Argento, un riconoscimento a Personalità abruzzesi distintesi in campo sociale e culturale.  L’attrice Rosamaria Binni ha quindi letto due stralci di loro scritti, uno per ciascuna Costituente, tratti dai volumi “Scritti ed interventi di Maria Federici” di Alberto Aiardi (Ed. Andromeda), “Filomena Delli Castelli, una donna abruzzese alla Costituente” di Giovanni Verna – Cinzia Maria Rossi (Ed. Edigrafital). Il musicista Luigi Blasioli, al contrabbasso, ha accompagnato le letture con brani musicali di forte intensità.
     
    Camillo Chiarieri, guida turistica ed autore con Pierpaolo Di Simone del volume “La bella Pescara”, ha esposto il contesto politico e sociale della Pescara del secondo dopoguerra, passata da città turistica per le sue bellezze di città giardino, che aveva richiamato élite intellettuali da tutta Italia e che aveva scelto un grande urbanista come Luigi Piccinato per il suo Piano regolatore, alla Pescara dei distruttori della bellezza e degli scempi edilizi della seconda metà del secolo scorso. In quel contesto Filomena Delli Castelli si distinse per la lungimiranza del suo pensiero politico, attenta all’ambiente e alla qualità urbana, come dimostrò nella sua attività di sindaco. Franca Peluso Aloisi, presidente regionale del CIF, ha portato la sua testimonianza riguardo a Maria Federici, che del CIF fu fondatrice, e del valore culturale e sociale dell’opera di Filomena Delli Castelli. La chiusura del Convegno, oltre che dalle note struggenti del “Theme from Schindler’s List”, eseguite al contrabbasso da Luigi Blasioli, è stata affidata alla relazione conclusiva di Carlo Fonzi, vicepresidente regionale dell’ANFE. Nella Sala “La Figlia di Iorio”, nel corso del convegno, esposte alcune opere della pittrice pescarese Cinzia Napoleone.



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    AMYGDALUS. Radici, natura e colori dell'Abruzzo montano

    L’AQUILA – Un tempo, prima che la grande emigrazione prosciugasse di braccia queste aride terre dell’Abruzzo montano, l’altipiano che si snoda dai resti dall’antica città vestina di Peltuinum fino al magnifico borgo di Navelli, era un giardino di mandorli in fiore, a primavera. Perle bianche tenuamente tendenti al rosa ingioiellavano i campi distesi sull’acrocoro. E più ancora gli acclivi che nei due lati ne erano cornice, trapuntati di borghi dalle splendide architetture e vestigia d’antichi castelli e fortezze sulle sommità dei colli, a presidio di quelle comunità. Sulla piana, in sequenza, magnifiche chiese di pietra, le facciate squadrate, indorate dal sole.
     

    Correva, lungo l’altipiano dove da secoli si coltiva l’oro rosso più buono del mondo, l’antico“tratturo magno”, la grande via della transumanza. Era largo oltre centodieci metri. Prendeva avvio dai contrafforti amiternini, già patria di Caio Crispo Sallustio, superando di lato il colle dove nel 1254 venne fondata L’Aquila, e si dispiegava come “un erbal fiume silente” fino alla Puglia, alla Capitanata di Foggia, dove le greggi dai monti andavano per otto mesi a svernare. Dunque su quel tratturo, dalle terre dei Sabini e dei Vestini - gli antichi popoli italici di questa parte d’Abruzzo -, per oltre due millenni e fino a qualche decennio fa, i pastori hanno scritto storie di fatica, sofferenze, relazioni umane e commistioni di culture, accompagnando le loro greggi verso le campagne del Tavoliere pugliese. Vita dura, grama, specie in queste terre sassose dell’Abruzzo interno da cui negli scorsi due secoli fiumi d’emigranti sono partiti per le Americhe, poi per l’Europa e l’Australia. E con loro sono partite le braccia, quelle stesse che dalle balze inerpicate verso l’imponente catena del Gran Sasso prima carpivano dai sassi scampoli di terra da coltivare, per il parco nutrimento di famiglie ricche solo di bimbi, o che pascevano le greggi dei grandi armentari.

    La lunga falda che dal tratturo sull’altipiano arrampicava verso la grande catena montuosa, nel suo versante meridionale, era territorio dell’antica Baronia di Carapelle, un ampio dominio feudale nato a cavallo tra il Duecento e Trecento e comprendente i borghi di Carapelle Calvisio, Santo Stefano di Sessanio, Calascio e la sua Rocca, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte e Barisciano. Un territorio florido per la pastorizia, che per quattro mesi nutriva le greggi sui pascoli in quota del Gran Sasso, per gli altri otto alimentava la transumanza verso la Puglia. Decine di migliaia di pecore, alcune di razza “carfagna”, così pregiate per la loro particolare lana scura da spingere nel 1579 i Medici di Firenze ad impiantare una cospicua presenza a Santo Stefano di Sessanio per controllare in loco la produzione della lana, poi lavorata in Toscana ed avviata ai mercati di tutta Europa. Un territorio che, dopo gli anni del prosciugamento migratorio e dell’abbandono, oggi finalmente riparte offrendo meraviglie architettoniche, artistiche e ambientali. A cominciare proprio da Santo Stefano di Sessanio, entrato nel club dei Borghi più belli d’Italia. Vi si sale da Barisciano, a Santo Stefano, lungo la strada che tra un’infinita serpentina di curve giunge fino a Fonte Vetica e Campo Imperatore, vestibolo delle grandi cime della catena del Gran Sasso, da Monte Camicia a Monte Prena, fino a Corno Grande, la vetta più alta dell’Appennino.

    Sulla via per Castel del Monte e Campo Imperatore, Santo Stefano di Sessanio è il primo centro abitato che s’incontra, a 1250 metri d’altitudine. Appare quasi d’improvviso su un cocuzzolo, con la cilindrica torre trecentesca dominante sulla sommità, ornata di merlature.

    Ora Santo Stefano è diventato un caso d’accademia, dopo che l’architetto d’origini svedesi Daniele Kihlgren, acquistando vecchie case abbandonate e rimaste immacolate negli originali materiali costruttivi, va restaurando gran parte del borgo ad albergo diffuso. Kihlgren ha cura del recupero certosino dei fabbricati mantenendone la qualità edilizia originaria, mentre l’inserimento impiantistico si dissimula senza soverchie apparenze. Ne parlano i giornali di tutto il mondo di Santo Stefano, pagine intere gli ha dedicato il New York Times. E intanto va crescendo un turismo di qualità che ama il silenzio, la bellezza dei luoghi, gli straordinari scenari che la natura espone, la singolarità del borgo con un impianto urbano integro da devastanti manomissioni. Santo Stefano di Sessanio sa ben recitare il suo fascino, con la sobria variabilità delle architetture che mitiga il parossismo delle abitudini nei grandi centri urbani. Insomma, tutto concilia verso una ricettività ospitale e tranquilla, in un contesto ambientale che mozza il fiato.

    Le viuzze lastricate s’intrecciano nel borgo, che dispiega la varietà tipologica delle abitazioni tutte in pietra calcarea, che solo i secoli hanno colorato, in un contesto urbano dove tutto si tiene ed è armonia. Dall´erta scalinata che costeggia la Chiesa di Santa Maria in Ruvo, risalente alla fine del Duecento, un intrico di budelli s’infila tra le case fino alla sommità del colle dove s’erge la Torre, con un percorso a tratti infilato a tunnel sotto i fabbricati.

    Un singolare sistema costruttivo per proteggersi dalla neve e dai rigori dei venti invernali. Appartengono al dominio dei Medici i loggiati dalla linea elegante, i portali ad arco con formelle fiorite, le finestre in pietra finemente lavorate e decorate da mani esperte, le stupende bifore e le mensole dei balconi. Sulla porta a sesto acuto, accesso di sud-est, risalta lo stemma della Signoria di Firenze, quasi un’impronta di raffinatezza.

    Pur in assenza di mura difensive, il borgo è contornato da un continuum di costruzioni che rivelano la funzione di case-mura, evidente dalla rarità di aperture ad eccezione di piccole finestre. Nel borgo s’ammirano alcune abitazioni quattrocentesche, tra cui la Casa del Capitano, la Torre risalente al Trecento, chiamata impropriamente medicea a retaggio della presenza della Signoria fiorentina, la chiesa di Santo Stefano Protomartire, edificata tra XIV e XV secolo, monoaula a cinque campate caratterizzata da un’insolita area presbiterale su cui si aprono le cappelle e un’abside semicircolare. Interessante anche la Chiesa della Madonna del Lago, del XVII secolo, che sorge subito fuori le mura, sulle verdi rive d’un minuscolo lago.

    Si ritiene che il nome “Sessanio” sia una corruzione di Sextantio, un piccolo insediamento romano situato nei pressi dell´attuale abitato, probabilmente distante sei miglia da un più importante pagus. Le prime documentazioni fanno risalire la storia di Santo Stefano di Sessanio all’anno 760,  quando il re longobardo Desiderio donò la località di Carapelle Calvisio al monastero di San Vincenzo al Volturno. Fino al Mille la storia di Santo Stefano fu collegata a queste due località. In quegli anni l’attività degli ordini monastici, benedettini e cistercensi, portò ad un aumento delle terre coltivabili, fino ad alta quota, oltre alla creazione di borghi fortificati in posizioni elevate. E infatti al 1308 risalgono le prime documentazioni certe dell’esistenza del borgo fortificato di Santo Stefano di Sessanio, territorio facente parte del feudo della Baronia di Carapelle.

    La Baronia ricorre spesso nei documenti, in particolare nel Chronicon Volturnense. La prima citazione nel placito del 2 marzo 779, dove si racconta la visita di Dagari, inviato dal Duca di Spoleto a dirimere una vertenza tra la gente di Carapelle ed i monaci di San Vincenzo al Volturno che, nella valle del Tirino, possedevano la cella di San Pietro ad Oratorium e numerosi beni. Uno dei periodi significativi nel processo di trasformazione del territorio s’ebbe con il nuovo assetto creato dai Normanni. Il placito del 779 riferisce per quel territorio un’economia di pura sussistenza, un paesaggio dominato da selve spontanee, la resistenza dei monaci alle attività di disboscamento. La riforma dei Normanni creò un nuovo disegno nel paesaggio, sia a livello difensivo che sull’economia del luogo. E’ da presumere, infatti, che a tale periodo risalga l’incastellamento sul territorio di Carapelle. Dal Catalogus Baronum s’apprende che Signore delle terre della Baronia di Carapelle fu Oderisio da Collepietro, che aveva possedimenti anche nell’altro versante del Gran Sasso. Dopo il dominio di Svevi e Angioini, nel 1384 il tenimento venne assegnato al Conte di Celano. Solo nella seconda metà del Quattrocento entrarono in scena i Piccolomini, che l’ebbero fino al 1579, i quali infine lo cedettero ai Medici di Firenze, che vi rimasero fino a metà del Settecento.

    Sarà stato l’eccezionale contesto ambientale ed urbano di Santo Stefano di Sessanio a far uscire dalla sua riservatezza artistica Bruna Bontempo Cagnoli, pittrice feconda, appassionata dai colori della nostra terra, ma finora mai lambita dal desiderio d’epifania. Nasce così AMYGDALUS, la prima Mostra personale di questa Artista sensibile e raffinata. Aprirà per l’appunto a Santo Stefano di Sessanio, dal 13 al 23 dicembre, presso il Palazzo dell’Opificio, in Via degli Archi. Vernissage alle ore 17 del 13 dicembre. L’amore per questi borghi, cresciuto con le assidue frequentazioni di Calascio e della sua magnifica Rocca - per National Geographic uno dei 15 castelli più belli del mondo - s’insediò nell’Artista dopo il tragico terremoto dell’Aquila, quando suo figlio, Franco Cagnoli, musicista e scrittore, vi andò a vivere. Molte le giornate passate lassù, in compagnia di Franco e Mimì, uno degli ultimi pastori calascini. Al pastore Mimì, e al suo gregge, l’Artista dedica infatti la sua esposizione. Quelle esperienze hanno accentuato in lei l’innata passione per la ricerca del colore, attinto dalla Natura al suo stato puro, in una percezione visiva di forte coinvolgimento. E la ricerca del colore en plain air e il suo tratto sulla grezza tela, a volte su semplice iuta, in Bruna Bontempo affondano radici nella storia di queste comunità montane, segnate nel bene e nel male dagli aspri luoghi delle greggi. Nella pastorizia e nelle faticose transumanze. Nella natura incontaminata e cangiante. Nei suoi ritmi e nelle impareggiabili cromie. I suoi dipinti rivelano il cordone ombelicale con la storia di queste terre d’Abruzzo, l’ancoraggio nell’ancestrale essenzialità della cultura rurale della gente di montagna.

    Nascono così i tratti del colore sulle sue tele. Intensi. Una pudica espressione dell’anima. La sapida trascrizione del vissuto atavico di queste genti e dei loro antichi rituali quotidiani. Un’umanità forte e schietta. Semplice e gelosa della sua terra, che tra immani fatiche e laceranti solitudini aveva tuttavia la sapienza d’attendere il ritmo del tempo, conosceva rumori ed odori della natura, apprezzava come un dono il cambio delle stagioni vivendo le diverse declinazioni del lavoro. Infine, assaporava lo stupore per i salti cromatici che dal candore delle cime innevate volgevano alle esplosioni dei colori in primavera, quando proprio i mandorli in fiore anticipavano come una rivelazione l’imminente risveglio della natura. E poi la cornucopia di tonalità cromatiche che l’autunno contrappuntava all’estate. “Un mondo magico – dice l’Artista – che ha visto uomini e greggi immergersi nella natura incontaminata e cangiante, nei suoi colori e nei suoi ritmi. Un racconto di vita, di sostentamento e di bellezza, che la memoria non deve mai abbandonare o far cadere nell’oblio, ma tenere desta l’attenzione perché tutto possa vivere, raccontarsi come Amygdalus, che torna a fiorire a primavera, in una rinascita continua di colori, di stagioni e di bellezza”. 

    La natura incorrotta. Selvaggia. Misteriosa. Sulle tele di Bruna Bontempo diventa scenario di gioco fantastico, poetico. Lirismo cromatico generoso e sensuale, eppure fine e delicato, come il rispetto verso luoghi e genti di questa terra. Una tacita narrazione di storie, d’umanità e di memoria, attraverso il colore. Il portato d’una densa sensibilità artistica e culturale, che sa attingere al vissuto intenso delle genti di questa incantevole porzione d’Abruzzo con l’umiltà di chi cerca l’autenticità vera, libera dai condizionamenti e dalle consuetudini delle comunità “evolute”, imprigionate dalle schiavitù della modernità. Ne deriva una pittura altrettanto libera da canoni estetici preordinati, dove il tratto cromatico rivela ogni volta spontaneità e il colore ostenta una sua purezza non formale. Questa - così credo di poterla descrivere, senza pretese critiche che esulano dalla mia competenza, ma solo quale manifestazione d’una emozione - mi pare l’indole artistica di Bruna Bontempo, formatasi nel crogiuolo culturale aquilano fatto di musica, teatro, cinema e cenacoli letterari, attraverso gli studi condotti tra la Facoltà di Lettere del nostro ateneo e l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Un’indole, tuttavia, che riesce a spiccare il volo grazie alla versatilità d’un animo attento all’Uomo e ai suoi retaggi culturali. Un’attitudine sincera a ricercare e comprendere i valori veri della nostra gente, laddove essa vive da secoli. Un talento, quello di Bruna Bontempo, non sepolto nella terra per semplice conservazione, bensì espresso a piene mani nella ricerca premurosa della dimensione profonda dell’Uomo.   

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    Presentato il Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni italiane nel mondo

    GENOVA – Questa volta è stata la Città della Lanterna, così fortemente legata alla storia della nostra emigrazione, ad ospitare il Seminario di presentazione del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (DEMIM), pubblicato da SER ItaliAteneo con la collaborazione scientifica della Fondazione Migrantes.

    L’emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento è stata al centro del Seminario, tenutosi il 5novembre scorso all’Archivio di Stato di Genova. L’evento, promosso dal CISEI  (Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana) partner scientifico del Dizionario, ha visto tra i relatori Tiziana Grassi, ideatrice e direttrice del progetto, motore ed anima dell’opera, e del direttore editoriale Enzo Caffarelli. Un folto pubblico ha seguito i lavori del seminario, nonostante l’ Allerta Uno sulla città, gravemente flagellata da violenti nubifragi. Una partecipazione motivata, attenta, a conferma che l’emigrazione, sebbene persista un’inconcepibile distrazione di Istituzioni e classe politica del Paese su un fenomeno così significativo per la nostra storia, è tema centrale e quanto mai attuale, tra nuove mobilità che dall’Italia tornano a varcare i confini alla ricerca di lavoro, e gli 80 milioni di oriundi italiani nel mondo. Dunque una riflessione a tutto campo, quella tenutasi a Genova, stimolata delle tematiche trattate nel monumentale Dizionario sull’epopea migratoria italiana, resa possibile dall’iniziativa del CISEI in collaborazione con l’Archivio di Stato di Genova, il MuMa (Museo del Mare e delle Migrazioni), l’Università di Genova, l’Autorità Portuale e la Fondazione Casa America. Preceduto dalla firma del Protocollo di collaborazione scientifica tra CISEI e Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, sottoscritto dal presidente del CISEI Fabio Capocaccia, e dal Soprintendente Maurizio Galletti, il seminario ha preso il via con il saluto del direttore dell’Archivio di Stato di Genova, Francesca Imperiale, che presentando il convegno ha espresso vivo apprezzamento per la ricchezza di contenuti del Dizionario Enciclopedico, al quale l’Archivio di Stato ha dato un rilevante contributo con il proprio patrimonio storico-documentale, come banche-dati, liste passeggeri, registri d’imbarco e giornali nautici. Tasselli rilevanti che contribuiscono a ricostruire l’ampio mosaico conoscitivo sulla Grande Emigrazione.

    Maria Paola Profumo, presidente del MuMa - il più grande Museo marittimo del Mediterraneo - presente nel DEMIM con i cataloghi documentali relativi a mostre sulle migrazioni, nel suo saluto ha focalizzato le costanti che riguardano le partenze e i transiti transnazionali, dal passato al presente. Una dimensione che accomuna sia le attività scientifiche del MuMa, sia la costellazione semantica che il Dizionario ha affrontato nel curare lemmi di impianto ontologico come l’identità, la memoria, la nostalgia, lo spaesamento-sradicamento, il lutto migratorio, stereotipi e pregiudizi, costruzione di nuove territorialità. La parola è passata poi a Fabio Capocaccia, presidente del CISEI. Promotore dell’evento e moderatore del Seminario, l’ing. Capocaccia ha portato anche i saluti di Luigi Merlo, presidente dell’Autorità Portuale di Genova e di Roberto Speciale, presidente della Fondazione Casa America.

    Quindi è entrato nel vivo, sottolineando come la presentazione del DEMIM rappresenti il punto di arrivo d’una collaborazione che dura da oltre dieci anni tra Tiziana Grassi e il CISEI, “da quando Tiziana ci invitava in Rai International, a Sportello Italia, il programma di servizio per gli italiani all’estero di cui era autrice, una pietra miliare nel panorama informativo verso i nostri connazionali, a quando, nel 2009, presentammo a Genova presso il Museo Galata la sua opera multimediale in dvd “Segni e sogni dell’Emigrazione”, con Catia Monacelli e Giovanna Chiarilli (Eurilink, Roma 2009), opera alla quale il CISEI aveva collaborato sul piano scientifico e documentale. Un’opera che lei aveva fortemente voluto, come contributo originale alla valorizzazione del patrimonio di memorie e di cultura che l'emigrazione rappresenta per il nostro Paese. Da quel dvd nasce il progetto di questo Dizionario - ha proseguito Capocaccia - impresa veramente impegnativa, importante, che ha richiesto 5 anni di lavoro ad un team di 170 autori, tra studiosi, accademici e ricercatori. Il CISEI, che dalla sua fondazione dedica la propria attività alla costruzione di un Database computerizzato sui nomi e le vicende degli emigrati italiani, ha partecipato al progetto del Dizionario insieme ai migliori esperti nazionali, ritenendolo uno strumento prezioso, direi indispensabile, per tutti coloro che si avvicinano all'emigrazione, come terreno di studio,  di ricostruzione storica, o più semplicemente ricerca delle origini della propria famiglia. E’ nostra intenzione dotare progressivamente il Database, che attualmente conta oltre 4 milioni di schede di emigrati italiani, di ogni utile riferimento, come un link naturale al Dizionario, allo scopo di realizzare un sistema multimediale integrato, con libero accesso da parte di studiosi e appassionati”. 

    “Porto di Genova, Archivio Centrale dello Stato, Archivio Ligure della Scrittura Popolare, CISEI, banche-dati, liste passeggeri, giornale nautico - diario di bordo, agenti di emigrazione, compagnie di navigazione, partenze, albergo degli emigranti, stazione marittima, biblioteche di bordo, medico di porto, nave, traversata, Navigazione Generale Italiana, oceano, solitudine, luoghi-simbolo, coraggio, orgoglio, sogni, resilienza, ritorno… Sono solo alcuni dei lemmi del racconto della Grande Emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento raccolti in questo Dizionario e che sono fortemente connessi a Genova e alla sua storia e identità. Città alla quale sono molto legata per il suo essere luogo simbolo per eccellenza della diaspora italica che ha visto partire milioni di connazionali - ha dichiarato Tiziana Grassi nel suo intervento, illustrando genesi, impostazione e struttura del volume -, una città i cui studiosi di emigrazione hanno dato un significativo contributo di pensiero e competenze a quest’opera e che ringrazio per gli amplianti orizzonti disciplinari che hanno reso il Dizionario «una vera e propria summa di un fenomeno che ha segnato indelebilmente la storia del nostro Paese», come l’ha definito il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo Saluto di apertura all’opera. Questo volume enciclopedico, che peraltro ho curato insieme ad altri 4 curatori , si pone come un continuum di ricerca con la mia precedente opera multimediale “Segni e sogni dell’Emigrazione”, passando dalla prospettiva semiotica - dei segni intesi nella doppia dimensione di lacerazioni interiori nella persona migrante ma anche come simboli archetipi delle migrazioni - alla dimensione semantica, ovvero al significato espressivo delle parole legate all’universo migratorio. Nell’opera il magmatico portato della nostra epopea viene affrontato non nella lineare sequenzialità temporale cui sono improntate le numerose pubblicazioni sulla storia dell’emigrazione, ma come mosaico multidisciplinare, composto dai numerosi tasselli conoscitivi che vanno dalla letteratura alla musica, dalla linguistica alla fotografia, dall’antropologia alla devozione, dal cinema all’arte, passando per statistica, associazionismo ( la vera sfida storico-culturale che oggi vive la Grande Emigrazione nelle sue generazioni e che non dobbiamo trascurare nei effetti di lungo periodo) e genealogia, alimentazione, storie di eccellenza. E ancora l’economia, la promozione del sistema Paese, il Made in Italy, l’internazionalizzazione delle imprese italiane, lemma curato dall’esperto di rapporti bilaterali Angelo Giovanni Capoccia, uno degli autori del Dizionario oggi qui presente, che ha focalizzato tutto il potenziale, anche economico, che più sistematiche e strutturate relazioni tra le ‘due Italie’ potrebbero mettere a frutto. Argomenti e prospettive disciplinari che ho voluto affidare allo ‘specifico’ di 169 studiosi ed esperti e che appartengono tanto agli aspetti teorici, ai sistemi valoriali, ai segni e ai simboli, ai sentimenti e alla psicologia, quanto a luoghi, fatti, oggetti concreti, ben circoscritti nel tempo e nello spazio”.

    “Con molti degli autori - ha aggiunto Tiziana Grassi - ho stimolanti collaborazioni professionali sin dai tempi di Rai International e, tra tutti, penso al prof. Mario Morcellini dell’Università “La Sapienza” di Roma, che sin dall’inizio di questo mio progetto ha generosamente affiancato il progressivo strutturarsi del volume con un folto gruppo di studiosi del suo ateneo e che ha curato la smagliante Prefazione al Dizionario. Un volume complesso che ha richiesto cinque anni di intenso lavoro e che si articola in 1.500 pagine con 700 lemmi-articoli, 160 box di approfondimento, 17 appendici monotematiche e 500 illustrazioni e documenti storici che per anni ho cercato in musei, archivi, centri di ricerca e fondazioni, ottenendo anche numerosi patrocini di atenei italiani ed esteri, tra i quali mi fa qui piacere ricordare l’Università di Genova. Il Dizionario, con il coordinamento scientifico della sociologa Delfina Licata, che ha guidato anche il Comitato scientifico del Dizionario composto da 50 studiosi ed accademici, ha un taglio scientifico e al tempo stesso divulgativo, in una dimensione di servizio che è sempre stata il mio punto di riferimento sin dall’impostazione dell’opera e che ho condiviso con gli altri curatori del Dizionario, tra cui cito con particolare gratitudine Mons. Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes: una dimensione inderogabile per trasmettere alle comunità italiane all’estero, ai discendenti degli emigrati rimasti o tornati in Italia, a scuole, giovani, amministratori pubblici ed operatori culturali una pagina fondativa del nostro Paese. Una pagina troppo spesso trascurata, se pensiamo alla sua perdurante marginalizzazione nei testi scolastici e ai tagli ai finanziamenti che le istituzioni le riservano, mentre 80 milioni di connazionali nel mondo ci osservano e, nel registrare l’inquietante miopia da parte di questa Italia dentro i confini, sono in attesa di segnali d’una più matura e consapevole attenzione. Questo Dizionario, nei miei auspici - ha concluso la Grassi - ha anche l’obiettivo di risvegliare la coscienza collettiva sul nostro importante e ineludibile passato migratorio, che per molti aspetti è anche presente, come ha ricordato Maria Paola Profumo, e palpita nella complessità e nelle contraddizioni di un tempo ad alto tasso di nomadismo transnazionale”.    

    Sulla complessità e l’impegno necessari per realizzare un’opera così ampia ed articolata, è intervenuto Enzo Caffarelli, direttore editoriale del DEMIM, nonché tra i suoi curatori ed autori. “La realizzazione del Dizionario - ha sottolineato il prof. Caffarelli - ha presentato numerose sfide, che sta ora agli studiosi, ai protagonisti in ogni settore del fenomeno migratorio e al pubblico in genere stabilire se siano state superate o no. La prima era quella di coniugare lo stile del Dizionario con il carattere dell’enciclopedia, cercando di raccontare e analizzare più temi possibili, ma con il rischio di dimenticare o di sottovalutare alcuni aspetti. La seconda era quella di utilizzare, moltiplicato per 169 autori, un linguaggio che fosse utile e accettabile da parte degli specialisti come da parte del pubblico generale. E di trovare una sufficiente armonia, una coerenza stilistica nell’offrire un’opera che vuol essere, ovviamente, di servizio. Una terza sfida era raggiungere alcuni target che ai curatori e agli autori, oltre che evidentemente all’editore, stanno particolarmente a cuore. Per esempio le scuole, considerando quanto poco i giovani sanno delle migrazioni del passato e del presente. Per esempio i Comuni, attraverso in particolare le biblioteche, perché sono fra i principali protagonisti del grande fenomeno migratorio. Per esempio le associazioni di/per gli emigrati italiani all’estero, superando le barriere della lingua, della distribuzione e del costo dell’opera”.

    L’intervento del prof. Fabio Caffarena, direttore dell’Archivio Ligure della Scrittura Popolare dell’Università di Genova, che ha aperto la sequenza dei contributi degli studiosi genovesi che in misura rilevante hanno collaborato alla realizzazione del DEMIM, ha sottolineato da una parte il ruolo svolto dall’Archivio Ligure della Scrittura Popolare (ALSP), attraverso la sua attività e il suo gruppo di lavoro, nell’ambito del Dizionario, dall’altra il patrimonio documentale conservato dall’ALSP, partner scientifico dell’opera, e le modalità di trattamento delle fonti. Il focus si è concentrato, attraverso un caso-studio particolarmente efficace, su un epistolario d’emigrazione ritrovato casualmente nella spazzatura, salvato proprio grazie al ruolo di presidio sul territorio che ormai svolge l’ALSP. Il prezioso ritrovamento - ha osservato Caffarena - ha consentito di sottrarre alla distruzione documenti di estremo interesse, appunto il caso d’una famiglia migrante le cui tracce sono state ritrovate anche nella banca dati dei partenti del CISEI, incrociate con le testimonianze orali e i ricordi ancora disponibili, rimontando così, non senza qualche sorpresa, una storia esemplare e al tempo stesso eccezionale di emigrazione. In tale contesto il Dizionario funziona come ‘risorsa quadro’, come strumento di consultazione da cui partire per orientarsi tra i temi e le problematiche che anche l’epistolario in questione pone. Se l’ALSP e altre istituzioni simili funzionano come rete - archivistica, ma non solo - il Dizionario fornisce le coordinate per muoversi all’interno di un ‘mondo migrante’ fatto di tracce e documenti labili, di lemmi da inseguire”.  

    Ancora centrale l’ALSP con il prof. Federico Croci, che trattando le migrazioni italiane tra accoglienza e contaminazioni culturali, ne ha tematizzato alcune parole chiave, curate dallo studioso per il ponderoso volume enciclopedico. Un intervento incentrato sul ruolo svolto dai luoghi-simbolo delle migrazioni italiane nelle Americhe e sulle marcate interrelazioni culturali rilevabili attraverso l’analisi delle lingue parlate degli emigrati nei Paesi ospiti. “Nei principali porti di destinazione dell’emigrazione transoceanica - ha osservato Croci - per ricevere gli emigranti in arrivo venivano allestite strutture dedicate all’accoglienza che espletavano le formalità burocratiche relative all’ingresso nel Paese ed i controlli igienico-sanitari. Castel Garden ed Ellis Island a New York, Pier 21 ad Halifax, l’Hotel de Inmigrantes a Buenos Aires, Ilha das Flores a Rio de Janeiro o Angel Island a San Francisco erano dunque i luoghi-simbolo dell’attraversamento dei confini e, in certa misura, l’ultima fase di un rito di passaggio, dalla condizione di cittadino a quella di migrante, iniziato nei porti d’imbarco. Spesso queste strutture venivano presentate come confortevoli e al servizio degli emigranti. In realtà si trattava di luoghi in cui le persone venivano ammassate allo scopo di essere selezionate, si trattava cioè di luoghi nei quali le politiche e le aspirazioni al controllo della mobilità umana da parte degli Stati nazionali assumevano le forme concrete della selezione dei migranti sulla base del gradimento politico, etnico, razziale, religioso ed eugenetico. Le gendarmerie nazionali fungevano da filtro o da sbarramento contro gli emigranti considerati indesiderabili. Spesso con accanita diligenza cercavano di far rientrare un mondo di sogni, speranze, strategie, progetti di vita e aspettative all’interno di maglie che potevano restringersi a seconda del governo in carica o del momento politico e che corrispondevano al modello di migrante ideale che le élite nazionali immaginavano facilmente e docilmente integrabile nella società ospite. Così come questi luoghi-simbolo rimandano ad un momento fondativo del processo migratorio, carico di elementi simbolici, le lingue parlate dai migranti, dal ‘broccolino’ al ‘cocoliche’, dall’ ‘australitalian’ al ‘carcamano’, sono il prodotto di un atteggiamento duplice da parte dei migranti. Si tratta di lingue che sono il frutto di un intreccio tra i dialetti d’origine, la lingua italiana e la lingua del Paese ospite; testimoniano la determinazione a mantenere la propria identità linguistica, a conservare le proprie tradizioni e, al tempo stesso, l’adattamento all’italiano dei prestiti di lingue altre, documenta un’apertura alla lingua della cultura dominante, certifica un processo di trasformazione. Convivono in queste parlate conservazione e innovazione, resistenza identitaria e integrazione. In esse si possono ritrovare frammenti di storie di sradicamento ed estraneità, di esclusione e isolamento, schegge di affetti, appartenenze e radici travolte dalle trasformazioni che il meccanismo migratorio ha inesorabilmente innescato. In ultimo, possiamo rinvenire l’estrema vitalità della cultura popolare capace di innovazioni, re-invenzioni creative e di una efficacissima potenza espressiva. Il Dizionario Enciclopedico - ha concluso lo studioso - è, in fondo, anche questo: un intreccio di percorsi multidisciplinari che aprono spunti di riflessione e stimolano ulteriori filoni di ricerca su uno dei fenomeni che hanno costruito la nostra identità nazionale”.

    Genova principale porto di partenza dell’epopea italiana e “archivio della memoria” delle migrazioni italiane tra Otto e Novecento, è stato il focus dell’intervento del prof. Carlo Stiaccini, ricercatore del CISEI, che ha sottolineato quanto “la presentazione del Dizionario Enciclopedico sia l’occasione per illustrare il rapporto che esiste tra le voci del Dizionario, che ho avuto il privilegio di scrivere, e gli archivi storici presenti a Genova. L’occasione per tentare di fare, in breve, il punto sul patrimonio archivistico presente in ambito genovese, utile a ricostruire i rapporti tra il territorio ligure, le sue istituzioni pubbliche e private, e il fenomeno migratorio italiano, a partire almeno dal XIX secolo e dal ruolo appunto che in questo lungo periodo ha avuto Genova come porto d’imbarco e luogo fra i più trafficati in Italia sulle rotte tra Europa e Paesi Americani. Voci come Liste di imbarco, Giornali nautici - Diari di bordo, Agenti di emigrazione, Porto di Genova, Navi-Pisoscafi, rimandano ad un giacimento di documenti e di memoria unico in Italia. La serie di registri conservata presso l’Archivio di Stato di Genova denominata ‘Spedizione passeggeri’, prodotta dall’Ufficio di Sanità Marittima del porto, sono uno dei pochissimi esempi oggi presenti in Italia, se non l’unico, di registrazione delle partenze da un porto italiano. Così i Giornali nautici, meglio conosciuti come Diari di bordo sono un documento prodotto dai comandanti dei piroscafi e sono una fonte preziosissima e possono essere considerati a tutti gli effetti dei racconti di viaggio, capaci di restituire informazioni per nulla scontate sulle vicende legate a quel fenomeno straordinario di mobilità che ha riguardato nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento le due sponde del l’Oceano e che indirettamente ha visto protagonisti anche i comandanti dei piroscafi. I giornali nautici, più di 12.000 esemplari conservati a Genova, sono una fonte preziosa non solo evidentemente per la storia del trasporto marittimo ma anche per una storia sociale delle migrazioni per mare in età contemporanea. Non possiamo non dire qualcosa sulla voce Porto di Genova, voce altrettanto strettamente collegata a documenti conservati all’Archivio di Stato. Basti pensare, per esempio, alle serie prodotte dalla Prefettura in epoca pre-post unitaria (sicurezza e ordine pubblico in città e nel porto, rilascio passaporti per l’estero ecc.). Genova e il suo porto sono stati per almeno un secolo la “Porta per le Americhe”, ovvero l’imbarco scelto da milioni di persone dirette oltreoceano. Il Dizionario, mi sento di dire anche per questo suo forte rapporto col territorio - ha concluso Stiaccini -, può essere inteso come una straordinaria mappa di parole che rimandano a formidabili depositi della Memoria utili a capire meglio, e più a fondo, un tema centrale della storia italiana recente, che sovente si è tentato di normalizzare, semplificare e uniformare ad una serie di stereotipi ben noti”.

    Una prospettiva sociologica e linguistica di approfondimento, quella introdotta dal prof. Stiaccini, ampiamente affrontata nel Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni italiane in numerosi lemmi interconnessi, tra discriminazioni, razzismo e xenofobia, termini dispregiativi e denigratori, nomignoli gergali, soprannomi con cui gli italiani sono stati designati all’estero e che risentivano della stigmatizzazione di attributi culturali e sociali, di natura alimentare, storica, politica o linguistica, professionale o ideologica, spesso legati alle caratteristiche fisiche o alle origini etniche dei nostri connazionali. Ma sul sistema concettuale di ipersemplificazione per stereotipi su comportamenti e caratteristiche ritenuti tipici di un determinato gruppo etnico o nazionalità, e sull’indesiderabilità dei nuovi venuti espressa dalla popolazione ospitante, il celebre studioso di emigrazione Gian Antonio Stella, in un suo saggio (L’orda, Rizzoli, Milano 2002) che affronta un puntuale confronto tra passato e presente, tra emigrazione italiana all’estero e immigrazione straniera in Italia, osserva: “Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. «Loro» sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. «Loro» si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che ‘gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi’. «Loro»  vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all’asta nei mercati d’oltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con l’accusa di rubare il lavoro agli altri. Fanno troppi figli rispetto alla media italiana mettendo a rischio i nostri equilibri demografici? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. […] La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità”. Ieri, all’estero, eravamo mangiamaccheroni, wog (virus, parassita), babis (rospi) o bat (pipistrelli). Oggi etichettiamo gli “altri” con un sommario e spregiativo vu cumpra’. Corsi e ricorsi storici. In assenza di Memoria.

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  • L'altra Italia

    Il terremoto del 1915 nella Marsica, nel racconto del danese Johannes Jørgensen

    L’AQUILA - L’evento è previsto per le ore 13 del 9 novembre 2014, presso la Sala Blu del Palazzo dei Congressi di Pisa, sede del Festival che vedrà presenti 150 editori italiani e stranieri. La presentazione avverrà nel contesto della manifestazione, alla sua XII edizione, che registra un crescente interesse in Italia e che quest’anno riserva alla letteratura dei paesi scandinavi il ruolo di protagonista. Insieme all’editore, parteciperanno alla presentazione del libro Antonio Bini e Bruno Berni, che ha curato la traduzione del testo, grazie anche alla collaborazione dell’Associazione Culturale “Johannes Jørgensen” di Svendborg, città natale dello scrittore. 

    Quel tragico 13 gennaio 1915 Johannes Jørgensen si trovava in Italia, a Siena. Appresa lanotizia del terribile terremoto che devastò tragicamente la Marsica, egli volle immediatamente raggiungere l’area colpita, e in modo particolare Civita d’Antino, per conoscere di persona le conseguenze del sisma nel borgo della Valle Roveto così caro a molti danesi, da oltre trent’anni sede estiva della scuola d’arte del maestro Kristian Zahrtmann. Da Siena arrivò a Roma, poi con un auto presa a noleggio, seguì l’itinerario per Tivoli, Tagliacozzo, Cappelle dei Marsi, Avezzano, Capistrello, Civitella Roveto, la stazione ferroviaria di Morino Civita d’Antino, per poi raggiungere finalmente Civita, erta sul colle, dolorosa tappa finale del suo viaggio in Abruzzo. Quella di Johannes Jørgensen, grande biografo di San Francesco d’Assisi, costituisce un’eccezionale testimonianza, lucida e al tempo stesso intensa e commovente, del dramma vissuto dalle popolazioni della Marsica, della devastazione provocata dal sisma, dei morti e feriti, ma anche della generosa opera di volontari e militari. Drammatica e prolungata la descrizione di Avezzano, interamente distrutta. Scriverà riferendo icasticamente d’aver avuto l’impressione d’essere tornato da un campo di battaglia.

    Il suo racconto, pubblicato a Copenaghen nel 1915, aveva in particolare l’obiettivo d’informare i tanti danesi che conoscevano molto bene Civita d’Antino attraverso le tante opere dipinte da decine di artisti, amici o allievi di Zahrtmann. La notorietà del paese abruzzese in Danimarca è d’altra parte implicita nel titolo del racconto. Oltre alle migliaia di vittime, il terremoto segnò la fine d’una straordinaria stagione artistica, poi scivolata lentamente nell’oblio. La nuova edizione è curata da Antonio Bini, come la prima d’altronde, edita nel 2005 e andata subito esaurita, e segna una ripresa d’interesse nei confronti della scuola d’arte danese, frequentata anche da pittori svedesi, norvegesi e finlandesi. Il racconto viene riproposto all’attenzione del pubblico dopo le numerose richieste del volume che era andato ormai esaurito. La nuova edizione è ulteriormente arricchita dal saluto dell’Ambasciatore di Danimarca in Italia, Birger Riis Jørgensen. Un saluto non formale il suo, considerato che è stato il primo rappresentante ufficiale del paese natale di Zahrtmann ad aver visitato Civita d’Antino.

    Nella sua nota di saluto inserita nel volume, l’ambasciatore Birger Riis Jørgensen scrive: “Per il pittore danese Kristian Zahrtmann e i suoi tanti allievi e amici artisti nordici, Civita d’Antino ha rappresentato per molti anni un rifugio meraviglioso, dove crescere artisticamente, essere sfidati dalla luce e dai motivi, seguire la vita del paesino nel quotidiano e durante le festività, instaurare amicizie con i cittadini e scoprire una cultura tanto differente da quella dei propri paesi d'origine. Quest’età d'oro è durata per circa 30 anni, lasciando tante tracce sia in Italia che nei paesi nordici. Civita d’Antino vive oggi in dipinti bellissimi che è possibile ritrovare in alcuni musei danesi ma anche in altri paesi. Anche l’Italia conserva tanti ricordi di Zahrtmann e dei suoi colleghi. Il terribile terremoto del 1915 segnò la fine di questa avventura e fu devastante per i migliaia di uomini che ne furono colpiti. Il diciannovesimo secolo aveva già portato eventi dolorosi in Italia e altri ne sarebbero seguiti presto. Molti anni dopo, il terremoto dell’Abruzzo è stato descritto come una delle catastrofi più tragiche della storia italiana.[…] Vale veramente la pena – annota infine l’Ambasciatore - dedicare un po’ di tempo alla lettura di questo racconto dello scrittore Johannes Jørgensen, il quale aveva già scritto una bellissima biografia su Francesco d’Assisi. Il racconto può sembrare quasi un reportage di un giornalista di guerra, con tutto il suo orrore e la sua disperazione. Ma il racconto porta anche il lettore a Civita d’Antino che non tornò mai più ad essere quel luogo d’incontro prezioso per i tanti artisti nordici.”

    Ed in effetti Civita d’Antino, per opera del pittore danese Kristian Zahrtmann, era diventata davvero un vero e proprio cenacolo per centinaia di artisti scandinavi. L’artista vi era giunto nel giugno del 1883. Quel paese di montagna, la sua gente semplice e schiva, i ritmi della vita cadenzati dal lavoro nei campi, furono per Zahrtmann una scoperta che gli avrebbe cambiato l’esistenza. Così scrisse, in una lettera del 22 giugno, al suo amico Frederik Hendriksen: “Sono innamorato della montagna e del carattere che dona alla gente che l’abita. Dovresti vedere i giovani lavoratori tornare dai campi. Con le zappe in spalla, canticchiando allegri le loro melodie del Saltarello. Avresti detto con me che in nessun teatro s’era mai sentito un coro più bello. Questo perché tutti cantano di cuore, così che la loro gioia sale dritta nell'aria come una bolla scintillante”. Fatto sta che egli elesse proprio quello sperduto borgo come sua seconda patria, trascorrendovi ogni anno l’estate, fino al 1911. Entrò presto in comunione con quella gente, nella sua semplicità ricca di gentilezza e di valori dal sapore antico. D’ogni cosa che riguardasse la quotidianità di Civita d’Antino, le tradizioni e la religiosità, Zahrtmann rimase intrigato, tanto da amarla fortemente. Un amore certamente ricambiato, copioso di premure e d’affetto dei suoi abitanti, tanto da vedersi tributato, nel 1902, il conferimento della cittadinanza onoraria di Civita.

     
    Non fu un caso isolato il fascino che questo borgo esercitò su Zahrtmann. Uguale folgorazione aveva subìto nel 1877 il pittore danese Enrik Olrik e prima ancora - scrive Antonio Bini in un suo libro - nel 1843 Edward Lear, inglese di nascita ma di genitori danesi, “landscape painter” com’egli si definiva e viaggiatore attento, che pagine superbe avrebbe vergato proprio sull’Abruzzo. Ebbene, proprio Kristian Zahrtmann, di sua iniziativa, fece nascere a Civita d’Antino una vera e propria scuola estiva per artisti scandinavi, che poi prese il suo nome, completamente innovativa nei programmi e nei metodi formativi, in aperta contestazione con le politiche dell’Accademia delle Arti danese. Da quel momento quel borgo della Valle Roveto divenne punto di riferimento per centinaia d’artisti dal nord Europa. “Proprio questo felice isolamento - scrive Antonio Bini - sembra essere stato apprezzato da Zahrtmann, il cui tormentato carattere ritrovava semplicità e vitalità creativa tra le montagne abruzzesi, dedicandosi interamente alla pittura e trasformando il piccolo paese in un laboratorio en plein air, dove si dipingeva dalla prima mattina fino al tramonto, con tanti modelli a disposizione, in un clima di spensierata amicizia e di sorprendente integrazione”. 

    E tuttavia una vicenda così straordinaria sarebbe stata sepolta dalla polvere dell’oblio, o rimasta nota a pochi spiriti eletti, se l’indomita passione di Antonio Bini, sopra tutto, non l’avesse riportata alla luce. Si deve infatti proprio a Bini la promozione d’una serie d’iniziative per rinverdire la splendida avventura, culturale ed umana, di Kristian Zahrtmann, della sua Scuola a Civita d’Antino, e delle centinaia d’artisti scandinavi che per oltre trent’anni vi passarono, fin quando il terremoto del 13 gennaio 1915 non sconvolse la Marsica, con le sue distruzioni e con le trentamila vittime, determinando anche la fine di quella meravigliosa esperienza artistica.

    “[…] La riedizione, condivisa dall’amico Sitg Holsting, presidente dell’Associazione Jørgensen di Svendborg, - scrive Antonio Bini nella prefazione al volume “Civita d’Antino” - è dedicata alla memoria delle persone scomparse tragicamente a seguito del terremoto del 1915, ricordando con gratitudine quanti si adoperarono per soccorrere le popolazioni colpite, manifestando la loro solidarietà in diversi modi, a cominciare dagli stessi Jørgensen, Daniel Hvidt, Zahrtmann e i loro amici danesi, legati a Civita. Il racconto profondamente umano di Johannes Jørgensen segnala ad Avezzano, epicentro del sisma, l’encomiabile presenza dei Vigili del Fuoco di Bologna, che operò a supporto dell’esercito, ma anche di infermieri giunti da Roma in treno, di parroci e di tante persone. Nei paesi intorno ad Avezzano i soccorsi arriveranno più tardi, come nella stessa Civita, dove però lo stesso Jørgensen non mancò di cogliere l’operosità dei sopravvissuti e anche i primi segnali di ripresa, come sottolinea l’ambasciatore di Danimarca in Italia Birger Riis Jørgensen nel suo saluto, che arricchisce la presente edizione. Forme di solidarietà si manifesteranno anche nella successiva fase di ricostruzione, come ricorda, ad esempio, una targa apposta nell’attuale sede comunale di Civita d’Antino, un tempo scuola, edificata grazie alla solidarietà della popolazione di Genova che forse nulla sapeva di quel lontano paese tra le montagne abruzzesi, mentre l’Italia era in guerra”.

    Antonio Bini, con la pazienza del ricercatore, ma anche con l’amore di chi fa le cose per pura passione, non s’è fermato ed ha portato, come in questo caso, ulteriori e preziosi contributi alla conoscenza delle singolarità della nostra regione. Egli meglio di chiunque altro sa che l’immagine dell’Abruzzo, il suo appeal all’estero, affonda le radici certo sulle bellezze naturali, sulla storia millenaria della sua gente, sul grande patrimonio artistico e architettonico delle città d’arte e degli splendidi borghi, sulla qualità della cucina abruzzese e dei prodotti tipici di questa terra. Ma anche sa bene che nel mondo il successo turistico della regione poggia anche su storie come questa dei pittori scandinavi, dalla quale ebbe origine anche il racconto di Johannes Jørgensen. Aspetti e singolarità che destano forte interesse e curiosità, che la migliore stampa internazionale non manca di cogliere.

  • L'altra Italia

    In scena a Roma "Madam Senato". Musical di Mario Fratti

    ROMA – In prima assoluta in Italia andrà in scena a Roma,il 31 maggio alle ore 21, al Teatro Greco - in via Ruggero Leoncavallo 10 -, l’opera musical Madam Senator di Mario Fratti, con le musiche originali di Tiziano Bedetti e la regia di Giosiana Pizzardo. Commedia musicale in due atti dal forte sapore politico, Madam Senator  ci porta in una competizione elettorale per eleggere un Premier, dove le donne, in un contesto satirico e grottesco intriso di rivendicazioni e contestazioni contro il maschilismo imperante, tentano la scalata al potere. Madam, la protagonista, maîtresse  in un bordello, mobilita le sue prostitute in una campagna elettorale senza esclusione di colpi che richiama l’attenzione di tutti, combattendo l’ingiustizia e la corruzione dilagante nel Paese, la violenza e i soprusi commessi contro le donne. Una pièce ricca di colpi di scena, quale da sempre sa essere il teatro di Mario Fratti che delle tematiche politiche e sociali, dove l’imprevedibilità domina, ha fatto la cifra della sua scrittura drammaturgica e in fondo la ragione del suo straordinario successo.

     

    Lo scrittore abruzzese da quarant’anni trapiantato a New York, tra i grandi del teatromondiale, in quest’opera s’ispira alle commedie classiche di Aristofane, Lisistrata e Le donne in parlamento, attualizzando alcuni temi, dando rilievo e voce alle donne e ai loro diritti. I protagonisti della commedia sono eroi positivi, credono fortemente di poter cambiare la loro condizione e di progredire, sono alla conquista di ogni spazio di libertà e della sua affermazione. Un’opera brillante, dunque, come Fratti ci ha abituato, ironica e mordace, divertente ma nell’essenza assai seria. In un tempo di politica confusa e guasta per corruzione, Madam Senator porta infatti a riflettere sulla necessità di recuperare i valori morali e sul dovere etico d’ogni cittadino nell’impegno civile. Tiziano Bedetti, compositore delle musiche originali, riesce a creare una sintesi unitaria tra le forme classiche dell’opera (ouverture, aria, duetto e tecnica dei leitmotiv che caratterizzano i principali personaggi) e il musical americano (forme della canzone e numeri danzati). Molteplici sono le suggestioni e i generi cui egli si ispira, spaziando dal country western al rhythm and blues, dal rock al gospel sino al rap e alla disco music. Lo spettacolo s’avvale della bravura di professionisti e giovani artisti e della regia di Giosiana Pizzardo, anche in veste di attrice protagonista. Al compositore Tiziano Bedetti rivolgo alcune domande su quest’opera musicale, scritta in stretta collaborazione con Mario Fratti, scrittore italoamericano - è nato a L’Aquila nel 1927 e dal 1963 vive a New York - considerato il più grande drammaturgo vivente, pluripremiato in tutto il mondo, vincitore di ben 7 Tony Award, il massimo riconoscimento per il teatro, come l’Oscar lo è per il cinema.

    Come è nato questo importante incontro artistico?

    “Da diverso tempo cercavo un testo teatrale per un’opera. Mi colpì una commedia in inglese intitolata Madam Senator, scritta da Mario Fratti, l’autore di Nine, il famoso musical che si ispira al film 8 e ½ di Fellini, che ha avuto più di duemila repliche a Broadway, portato sul grande schermo qualche anno fa da Rob Marshall nella versione cinematografica. Contattai Fratti tramite un docente universitario americano che aveva curato la pubblicazione di suoi testi. Dopo alcune lettere e telefonate intercorse, lo incontrai personalmente all’Aquila, sua città natale, nel 2008. Gli esposi il mio progetto, che subito lo convinse. Mi incoraggiò ad andare avanti e a portarlo a termine.”

    Che cosa ti ha colpito del testo di Fratti?

    “La sua immediatezza, l’attualità e i temi sociali. Fratti, ispirandosi a Pirandello e Brecht, ha sviluppato un teatro civilmente impegnato, caratterizzato dalla costante denuncia dell’ipocrisia che connota la società contemporanea. In questa pièce sono presenti molte tematiche forti: i diritti, lo sfruttamento e la violenza sulle donne, la battaglia  contro il maschilismo dominante, il riscatto sociale, la lotta alla corruzione della politica. Fratti ha la capacità di saper trattare temi molto impegnativi con ironia e freschezza e i suoi personaggi sono eroi positivi che lottano per riscattare la loro condizione sociale, anziché farsi annichilire dal fato. Madam, la protagonista dell’opera, diventa infatti paladina dei diritti delle donne, lottando contro il maschilismo, capovolgendo la sua condizione e quella di altre donne, trovando la possibilità di alzare la testa e di rifarsi una vita. Rimasi colpito dalla caratterizzazione reale dei personaggi, che parlano un linguaggio semplice e spontaneo, fatto anche di equivoci divertenti e doppi sensi, da colpi di scena e dalle trasformazioni che avvengono nel corso degli atti. Un teatro dell’imprevedibile, insomma. Sfogliando le pagine del libretto, mi rendevo conto che i personaggi sembravano vivi e avrebbero potuto presto cantare e duettare sulla scena.”

    E il drammaturgo, com’è di persona?

    “Un grande, un uomo pieno di energia, di entusiasmo e generosità. Dal punto di vista umano, uno degli incontri più straordinari che ho avuto. Mi ha subito dato fiducia e ha creduto in me, nel mio progetto, trasmettendomi una carica positiva. Gli sono davvero grato. All’inizio, avevo molto riguardo nel proporre le mie idee e le soluzioni al suo testo, dettate dalla necessità di trasformare una commedia nata negli anni ’70 per un teatro di off Broadway, fatto di pochi personaggi, in un’opera moderna cantata, adatta per il pubblico italiano. Poi, ho capito che il Maestro aveva la mia stessa curiosità nel vedere il suo soggetto prendere vita in una nuova versione. Così, mi regalò alcune vecchie foto del primo allestimento di Madam e una recensione tratta dal New Yorker Theater, firmata da un autorevole critico americano, il quale auspicava che il lavoro fosse sviluppato, in futuro, con più personaggi. Fratti è stato con me, da sempre, disponibile a discutere sulle mie idee, sulle modifiche e sui tagli che proponevo. Ci siamo scambiate molte lettere al riguardo. Ancora adesso mi pare incredibile di aver avuto la possibilità di collaborare con uno dei massimi autori teatrali che tra drammi, commedie e musical, al suo attivo ha più di ottanta opere pubblicate, tradotte in 21 lingue e rappresentate in quasi 700 teatri, dall’America all’Australia, dalla Cina alla Russia, dall’India al Giappone. Nella sua lunga vita, ha conosciuto personalmente miti come Arthur Miller, Marilyn Monroe, Tennessee Williams, Katherine Hepburn e i principali attori di Hollywood come Raul Julia, Antonio Banderas, Nicole Kidman, Daniel Day-Lewis, Marion Cotillard, Penelope Cruz e Sophia Loren, i quali sono stati interpreti dei suoi lavori. Ha reso omaggio, recentemente, anche al Presidente Barack Obama, dedicandogli uno degli ultimi suoi drammi.”

    Come si è svolto il tuo lavoro?

    “E’ durato sei anni. All’inizio ho tradotto il testo dall’inglese all’italiano. A seguire, ho scritto una prima serie di canzoni e orchestrazioni. Poi, studiando e meditando sul libretto, ho proposto a Fratti l’inserimento di alcuni nuovi personaggi (il Senatore Johnny, moralizzatore, dal carattere ambiguo e corrotto e la sua sciocca moglie, Concetta, creando, così, la coppia di antagonisti). Tutti sono caratterizzati da leitmotiv, come nell’opera. Abbiamo quindi lavorato sul libretto insieme alla regista, mettendo ulteriormente a fuoco i caratteri, il loro intreccio, le scene e le ambientazioni, apportando altri cambiamenti. E’ stato proprio attraverso gli ultimi due anni di studio che ci siamo resi conto che l’opera stava prendendo vita. Ora sono presenti ben sedici personaggi sulla scena e tra attori, ballerini e comparse, siamo complessivamente arrivati ad avere trenta persone sul palco.” 

    E lo stile delle musiche?

    “Il personaggio principale, Madam, è un soprano lirico, entra in scena con dei vocalizzi come nell’opera. La sua indole e filosofia di vita è l’essere ottimista, il saper lottare con tenacia contro le avversità della vita. Chuck, uno scrittore dalla personalità calda e affascinante, si presenta nella tradizione dei crooner americani alla Dean Martin e Frank Sinatra. Sua Eccellenza, invece, si scatena in un finale funky gospel. I personaggi più giovanili adottano uno stile più moderno che va dal rock, al rap e alla disco music. Ho cercato di sintetizzare il linguaggio dell’opera lirica e del musical attualizzandoli, ispirandomi anche ai film musicali e alla rivista cinematografica. Alcuni temi, richiamano i western perché rappresentano una metafora della scalata sociale e, se vogliamo, il Far West di certa politica!”

    Il lavoro debutta con la regia di Giosiana Pizzardo, che interpreterà anche il ruolo di Madam. Come ti sei trovato a lavorare con lei?

    “Molto bene. Giosiana ha nel teatro un’esperienza a 360 gradi, avendo ricoperto ruoli principali come cantante ed attrice, sia nel campo dell’opera e dell’operetta, che della commedia musicale italiana e del musical. Ha avuto la fortuna di lavorare a fianco di Garinei e Giovannini, Tato Russo, Roberto De Simone, Johnny Dorelli, Massimo Ranieri, Christian De Sica. Ha ereditato un grande artigianato e una professionalità che le permettono di avere un’immediata visione d’insieme. Si è subito appassionata a questo lavoro e mi ha chiesto di poter interpretare il ruolo di Madam. La sua idea è stata di costruire un’ambientazione senza riferimenti geografici e al di fuori del tempo, quasi a voler raccontare una favola moderna. Giosiana, inoltre, essendo una delle poche maestre italiane che insegnano il canto lirico e il moderno, ha seguito personalmente la scelta del cast e tutta la preparazione degli attori-cantanti, costituita da professionisti dello spettacolo e da giovani artisti.”

    Illuminante questa breve intervista al compositore Tiziano Bedetti sulla genesi dell’intrigante avventura teatrale. Telefono a Mario Fratti. Negli orari per lui consueti, fino a metà mattinata, è sempre al suo posto di lavoro. Conosco a menadito le sue abitudini. E infatti lo trovo. Dopo un aggiornamento su come vanno le cose all’Aquila, che apre di norma le nostre telefonate, gli faccio tre domande sul musical.
     
    Mario, come trovi l’adattamento della commedia realizzato da Tiziano Bedetti? Sei soddisfatto? 
     
    “La musica di Bedetti è eccellente.”
     
    L’Italia, diversamente dagli States, non ha una grande tradizione nella commedia musicale. Credi che Madam Senator ed altri innesti di musical americani possa sviluppare una migliore sensibilità ed attenzione da parte del pubblico italiano?
     
    “Venti anni fa gli italiani avevano disprezzo per le commedie musicali americane. Ora vengono a New York, copiano, cercano di essere perfetti, convincono gli italiani che non hanno visto la perfezione delle produzioni  Usa. Ora a New York c’è Rugantino. Per  tre  giorni. Non ebbe successo cinquant’anni fa. Bisogna insistere ed imparare. Lo dico sempre ai giovani autori. Vale la pena. Madame Senator ebbe un bel successo a New York.”
     
    Sarai presente, a Roma, alla “prima” italiana di Madam Senator ? 
     
    “Mi piacerebbe tanto vedere la produzione italiana, ma non posso venire, sfortunatamente. Sono molto impegnato in questi giorni a New York, con due produzioni teatrali. Noi invece ci vedremo ad ottobre, qui a New York, per il Mese della Cultura italiana, come mi hai confermato. Il tuo libro “L’Italia dei sogni” sta avendo molti apprezzamenti. Già gli Istituti di studi italiani di due università hanno manifestato l’intenzione di programmare una conversazione con te. Un caro saluto a te e a tutti gli aquilani!”
     
    Fa dunque piacere a Mario Fratti questa produzione italiana di Madam Senator. Trova buona ogni occasione per tornare in Italia, anche se non gli mancano certo impegni che lo tengano ancorato nella Grande Mela, come in questa occasione. O come avvenuto di recente, con la presentazione del suo romanzo “Diario proibito” all’Istituto Italiano di Cultura di New York, alla presenza del nuovo direttore Giovanni De Santis, del Console generale Natalia Quintavalle e del prof. Francesco Bonavita, della Kean University, che ha curato la relazione introduttiva. E’ stato un incontro molto partecipato, per un fatto davvero singolare, quale la presentazione dell’unico suo romanzo, edito l’anno scorso da Graus mezzo secolo dopo da quando fu scritto, ambientato a L’Aquila negli anni della dittatura fascista, della liberazione e dell’avvio della democrazia. L’incontro con l’autore ha raccolto un notevole interesse. E ancora con un altro importante evento in suo onore, che si è tenuto al Theater for the New City - uno dei teatri dell’era leggendaria di New York, nell’East Village - con un riconoscimento che ha voluto premiare il valore e il prestigio di Mario Fratti nel portare alto il nome del teatro italiano negli States e nel mondo. La serata è stata una vera e propria celebrazione del drammaturgo, che da molti anni collabora con il Theater for the New City. Prolifico come pochi altri autori, Fratti ha persino scritto un testo, Poet, appositamente per la serata, recitato da Ian Campbell Dunn e dalla brava Giulia Bisinella. Poi, la magnifica attrice e cantante francese Liliane Montevecchi ha cantato un brano di Nine. Quindi il tributo di artisti e cantanti. Infine il grande F. Murray Abraham ha letto un pezzo di Vanzetti. Un riconoscimento, questo, che lo consacra - ove ce ne fosse ancora bisogno - nel mondo del teatro americano. Lunga vita al drammaturgo aquilano!

    MADAM SENATOR
     
    Testo e soggetto originale: MARIO FRATTI
    Libretto: MARIO FRATTI e TIZIANO BEDETTI
    Musiche originali, canzoni e orchestrazioni: TIZIANO BEDETTI
    Compagnia: PRIMADONNA ENSEMBLE
    Adattamento e regia: GIOSIANA PIZZARDO
    Coreografie: NAZARENA GULINAZZO
    Scene e proiezioni: MASSIMILIANO FIORINI
    Sound supervision: Z-Best Music Studio di GIUSEPPE ZANCA
     
    MARIO FRATTI, scrittore, commediografo, drammaturgo, autore di musical, critico letterario, è nato all’Aquila nel 1927. Si reca a Venezia all’Università Ca’ Foscari, dove insegna lingue e letterature straniere. Si trasferisce in America nel 1963 e, da allora, vive a New York. Già docente universitario di letteratura italiana nella prestigiosa Columbia University e all’Hunter College, è fondatore dell’Italian Theatre in America, promotore del nostro teatro attraverso spettacoli, letture, traduzioni e convegni. Le sue opere sono state tradotte e rappresentante in ventuno lingue in oltre seicentocinquanta teatri del mondo, dall’America all’Europa, dalla Russia al Giappone, dal Brasile alla Cina, dal Canada all’Australia. È autore, tra gli altri di: La menzogna, La Gabbia, Suicidio, Ritorno, Rifiuto, I Frigoriferi, L’Accademia, I Seduttori, La vittima, Che Guevara, Madri e Figlie, Eleonora Duse, Mafia, Il Telefono, Razze, Amanti, Caccia al Morto, Iraq (Cecità), Promesse, Terrorista, Alessia, Amici, A.I.D.S., Porno, The White Cat, Brothel (The Doorbell), Due Secoli, Non più bambole, Famiglia, Sorella, Missionari, Leningrado, The Bridge, Beata, Five thrillers, Obama 44. Fratti ha scritto anche musical tra i quali: Anaïs Nin, Cybele, La vedova Bianca (Mafia) Seduttori, Paganini, Puccini, Encounter 500 (Cristoforo Colombo) e Nine, il più acclamato in tutte le lingue, ispirato al celebre film “8 ½” di Federico Fellini che è stato rappresentato per 790 giorni a Broadway, per più di 2.000 rappresentazioni, durante la stagione '82-'83 e gli ha fatto vincere 7 Tony Award. Negli USA, ci sono state 36 produzioni di Nine, una a Londra, una a Parigi (regia di Saverio Marconi) ed una a Tokyo; l’ultima versione ha visto interprete l’attore Antonio Banderas al Teatro Eugene O’Neil di Broadway; recentemente, è uscito anche il film adattato per il grande schermo diretto dal regista Rob Marshall con Nicole Kidman, Penelope Cruz e Sophia Loren. Fratti è vincitore di oltre 40 premi teatrali tra l’Italia e l’America, tra cui il Premio O’Neill, il Richard Rodgers Award, tre Outer Critics Circle Award, otto Drama Desk Award, il Leone di S. Marco, l’Heritage and Culture e il Premio Italia. Il suo stile che rinuncia a ridondanze, metafore e sfumature tipiche del teatro europeo, si connota per immediatezza della scrittura teatrale, asciutta e tagliente come la denuncia politica e sociale senza veli che egli vi trasfonde.
     
     
    TIZIANO BEDETTI, compositore, nato a Rovigo nel 1976. Diplomato in Pianoforte, Composizione, Musica Corale e Direzione di Coro, si è perfezionato in Composizione con Bruno Coltro, Bruno Bettinelli, Goffredo Petrassi, conseguendo poi il Diploma Accademico di Secondo Livello con 110 e lode. Si è diplomato anche alla Civica Scuola di Musica di Milano con Mauro Bonifacio, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma e all’Accademia Musicale Chigiana di Siena con Azio Corghi. Ha inoltre studiato orchestrazione con il compositore americano Jon Ward Barman. È stato premiato in concorsi nazionali ed internazionali di composizione fra i quali: “Premio Valentino Bucchi” (Roma 1992, 1993, 1994), Torneo Internazionale di Musica (Roma, 1999), “Concorso Internazionale di Composizione Città di Pavia” (1999), Concorso Internazionale “Antonio De Curtis” di Napoli (2001), INMC 2000 Composition Competition di New York, (U.S.A.). Ha ricevuto inoltre lo Jahrespreis 2001 dalla STAB Foundation di Zurigo (Svizzera) ed è stato premiato al Concorso “Opera Prima Talenti” 2002, organizzato da Casa Ricordi e dalla Festa della Musica di Milano. I suoi lavori sono stati eseguiti in Italia e all’estero presso importanti sale, teatri e festival tra cui: Festival Nuova Consonanza (Roma), Auditorium Parco della Musica (Roma), Auditorium “G. Verdi” (Milano), Festival Antidogma Musica (Torino), “Einstein” Auditorium (Bochum, Germania), Hall of the National Radio (Sofia, Bulgaria), Università di Parigi (Francia), Stockholm New Music Festival (Svezia), National Gallery of Australia (Canberra, Australia), Michelangelo Hall (Nairobi, Kenya), Teatro Romano di Leptis Magna (Libia), Carnegie Hall (New York, USA), New York University (USA), Schwartz Center for Performings Arts of Emory University (Atlanta, USA), Sala Rossellini (Los Angeles, USA), Shibuya Concert Hall e Akat Concert Hall (Tokyo, Giappone), Conservatorio Rimsky-Korsakov di S. Pietroburgo (Russia). Le principali emittenti gli hanno dedicato interviste e trasmesso le sue composizioni quali: RTVE (Radiotelevisione spagnola), Radio WDR di Colonia (Germania), SR2 (Saarbrücken, Germania), Concertzender (Hilversum, Olanda), BFBS (Inghilterra), RTÉ Lyric (Irlanda), Klassika Raadio (Tallin, Estonia), Radio Budapest (Ungheria), WNYC Radio (New York, USA), WQXR Radio (New York, USA), WPRB Radio (Princeton, USA), Radio Vaticana (Città del Vaticano), RAI-Radio 3 e V° Canale Filodiffusione RAI (Italia). Ha pubblicato per le edizioni RaiTrade di Roma, Edizioni Curci di Milano, Rugginenti di Milano, Carrara di Bergamo, Bèrben di Ancona, Bayard Nizet (Belgio), Bardon Enterprises (Inghilterra), Harrock Hall (USA). Ha inciso per la Ariston, la Phoenix Classics, Rara Records, Vdm Records e Tactus. È iscritto ed è stato Commissario tecnico alla SIAE, Società degli Autori ed Editori di Roma. È socio dell’Unione Nazionale Compositori Librettisti e Autori di Milano ed è Rappresentante per l’Italia dell’European Composer Forum di Vienna. Ha insegnato presso i Conservatori Musicali Statali “Bonporti” di Trento, “G. Frescobaldi” di Ferrara, “G. Puccini” di La Spezia, “G. Nicolini” di Piacenza, “G. Verdi” di Milano. E’ docente al Conservatorio “A. Buzzolla” di Adria.
     
     

    GIOSIANA PIZZARDO, attrice, cantante, regista e didatta, inizia lo studio del canto con Rina Malatrasi e, successivamente, con Rina Rizzieri a Rovigo, formandosi poi al Conservatorio di Firenze con Leila Bersiani. In seguito, si trasferisce a Roma ancora in giovane età, dove ha occasione di perfezionare i propri studi con la Sig.ra Clara Scarangella e con il M° Sorgi, ove frequenta contemporaneamente corsi di danza classica e moderna. Frequenta i corsi di recitazione presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” sotto la guida di Giorgio Presburger. Il debutto teatrale nel musical è a 17 anni al Teatro Sistina di Roma con Accendiamo la lampada di Garinei e Giovannini, al fianco di Johnny Dorelli, Bice Valori e Paolo Panelli, trovandosi ben presto a dover sostituire Gloria Guida nel ruolo della protagonista. In seguito, è interprete di Jenny Lind in Barnum, al fianco di Massimo Ranieri e Ottavia Piccolo, spettacolo che la porta in tourneé in tutta la penisola, riscuotendo un grande successo personale. Sempre in teatro, ma a Napoli, lavora sotto la guida di Roberto De Simone in La gatta cenerentola, Le 99 disgrazie di Pulcinella, Un’ora al S. Carlino.Con Tato Russo, realizza Scugnizza di Lombardo-Costa, La Tempesta e Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare e L’opera da tre soldi di B. Brecht. Inoltre, è Ninì Tirabusciò al fianco di Dalia Frediani. Nel 1986, al Teatro Eliseo di Roma, è co-protagonista nello spettacolo musicale Un’ora sola ti vorrei dar con Walter Corda e Cecilia Calvi. Per quanto riguarda la musica leggera, partecipa alla fase finale del Festivalbar nel 1977, vincendo la categoria giovani col brano Do it for me. Successivamente, durante il soggiorno romano, è prima voce del coro 4+4 di Nora Orlandi. Più recentemente, incide su cd insieme ad altri artisti, la versione italiana del musical No, no Nanette. Dal punto di vista concertistico, si esibisce al Festival di Salonicco, nel 1991, ed in numerosi teatri in tutta Italia e all’estero. C’è spazio anche per la televisione nella sua lunga carriera: dopo il debutto nei fotoromanzi e un serial di quattro episodi di telefilm per Raidue (Winchester MC2), è conduttrice di Happy Circus e Happy Magic, le fortunate trasmissioni televisive che lanciarono in Italia i telefilms Happy days, al fianco di Sammy Barbot. Dopodichè, partecipa alle trasmissioni Cordialmente con Enza Sampò, Vediamoci sul due con Fabrizio Frizzi e Orecchiocchio con Fabio Fazio, Italia sera, con Emilio Fede e Enrica Buonaccorti; presenta i collegamenti esterni di Sereno variabile ed è attrice nei filmati di Quark, Telefono giallo e Mi manda Lubrano. Recentemente, ha preso parte alla fiction Nebbie e delitti2 con Luca Barbareschi, per la regia di Riccardo Donna e nel film di Carlo Vanzina Buona giornata, con Christian De Sica.

    NAZARENA GULINAZZO, ballerina, insegnante e coreografa.  Ha studiato alla Scuola di Teatro dell’Opera di Roma, al Ballettschule Pergel Ernst di Düsseldorf, al Ballett International di Bonn e alla BallettAkkademie di Colonia (Germania). Vincitrice di numerosi premi e borse di studio, ha frequentato diversi stage: danza jazz con Renato Greco e Maria Teresa Dal Medico, musical con Max Bartolini, danza classica con Andrei Fedotov, C. Hamel, prima ballerina del Stuttgart Ballett, Diane J. , prima ballerina dell’American Ballett, Sabino Rivas, Cristina Amodio, Vittorio Di Rocco, Marc Renouard, Elene Diollott, modern Jazz Dance con Laura Della Longa, flamenco con Carmen Fuentes, Marc Aurelio, Simona De Paoli. Si è esibita, come ballerina, per il gruppo musico-teatrale I Luna Canto, nello spettacolo musicale Cambierà, al Teatro della Forma di Roma, per la compagnia Mvula Sungani, Opera Medea, Taormina Arte, per Teatro Dance Company, opera Romeo e Giulietta, (Roma), ospite sul canale televisivo T9 nella coreografia di Fandango (Roma), Children for children, Il Cielo (Roma), nel musical Chicago, coreografie Max Bartolini (Minori – Napoli), in Tango, coreografie R. Greco e M. T. Dal Medico (Minori – Napoli). E’ insegnante di danza classica, istruttrice Pilates presso l’Équipe Mediterraneo (Toscana), di propedeutica e fisiotecnica presso la scuola Centro Studio - Danza (Catania) ed Emozione Danza e Club92 (Roma), di flamenco presso la scuola Centro Studi Danza, Movimento e Salute ed Emozione Danza (Roma).

                                                    

    GIUSEPPE ZANCA compositore, arrangiatore, produttore musicale e polistrumentista. Diplomato in tromba presso il Conservatorio di Ferrara e ha studiato armonia con Ettore Ballotta. Si è diplomato in musica jazz al Conservartorio di Verona. Si è perfezionato con Vincent J. Penzarella, Cecil Bridgewater e Hal Galper presso la New School University, con Rex Martin (orchestra sinfonica di Chicago), Laurie Frink e con Bob McCoy (prima tromba dell’Orchestra di Frank Sinatra). Si è perfezionato in musica da film con Blake Neely a Vienna. Vincitore di premi e concorsi, svolge attività di arrangiatore. Ha fatto parte di molti gruppi musicali, fondando una sua Big Band. Ha registrato dischi per Ornella Vanoni, Umberto Bindi, Aida Cooper, Vladi Tosetto, Loredana Bertè, Gilberto Gil e altri. Ha suonato in tour con Fred Buongusto, Manuella Villa, Raoul Casadei. Ha fondato uno studio di registrazione e la sua etichetta, Z-Best Music, con la quale ha prodotto tanti e bellissimi progetti musicali, oltre che musiche per la televisione (RAI e Mediaset). E’ stato docente di Informatica musicale al Biennio Superiore presso il Conservatorio “B. Maderna” di Cesena, Musica d’assieme al dipartimento di Jazz, presso il Conservatorio “A. Buzzolla” di Adria. È docente di tromba presso la Scuola di Musica Comunale “Roveroni” di Santa Sofia (FC).

    ''PRIMADONNA ENSEMBLE'' è un'associazione nata nel 2001 grazie all'iniziativa di Giosiana Pizzardo (Soprano, Presidente e Direttore artistico). L'associazione ha costituito un'omonima compagnia con l'obiettivo di fornire ai giovani le conoscenze e la preparazione necessarie per affrontare il palcoscenico. L'idea di Giosiana è quella di valorizzare i propri allievi portandoli alla ribalta di questo fantastico mondo, dando loro gli spazi e la possibilità di crescere professionalmente. La voce duttile ed espressiva e la presenza scenica di Giosiana Pizzardo sono le caratteristiche che le hanno consentito di affermarsi in una carriera che ha toccato brillantemente tutti i teatri italiani. Giosiana Pizzardo si è formata al Conservatorio di Firenze con Leila Bersiani; ha debuttato al teatro ''Metastasio'' di Prato, al fianco di Roberto Servile, Bruno Beccaria e Paola Romanò. Nel 1995, ha vinto il Concorso ''Licinio Refice'', debuttando nel frattempo nelle seguenti opere: Elisir d'amore, Barbiere di Siviglia, Rigoletto, Traviata e Pagliacci (nel ruolo di protagonista), oltre a Carmen (nel ruolo di Micaela). In diretta televisiva Rai dal Teatro ''Mercadante'' di Napoli, con l'Orchestra ''D. Scarlatti'', ha rappresentato l'Italia durante il bicentenario della morte di Mozart, nel ruolo di Donna Anna (Don Giovanni). Nel mondo dell'operetta, ha realizzato circa 1400 rappresentazioni. La carriera teatrale l'ha vista al fianco di Johnny Dorelli, Bice Valori e Paolo Panelli in Accendiamo la Lampada di Garinei e Giovannini; successivamente, si è esibita nel ruolo di co-protagonista in Barnum accanto a Massimo Ranieri. La lunga carriera di Giosiana è quindi contraddistinta dalla facile versatilità con cui passa attraverso vari tipi di spettacolo: dal Musical all'Operetta, all'Opera lirica, alla Prosa, versatilità che ha fatto propria, risultando essere, al giorno d'oggi, una delle pochissime insegnanti specializzate in musica leggera e musical. Attualmente, allestisce spettacoli, tra i quali: Che confusione, Mamma Mia! e Momenti di Grease, nei quali gli allievi si esibiscono. Insegna a Roma, Bologna (Iskrartlab di Iskra Menarini) e Castello d'Argile.

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