Ad Enzo, mio fratello.
L’Aquila, è stata una notte terribile. Due scosse alle 23 ed all’1 di notte, poi quella finale alle 03:30... fortissima, interminabile, catastrofica. Buio, camera d'albergo devastata, fuga giù per le scale, la salvezza precaria con altre mille scosse durante la fredda notte a 4°C. Grazie al Dio che ci protegge siamo salvi, io e mio nipote Antonio di 20 anni. Ma tanti tanti lutti, disperazione, distruzione, freddo...
5 Aprile, ore 23
“Antonio, Antonio… svegliati! Ho sentito il terremoto!”
Accendo la luce della camera d’hotel e osservo sorpreso mio nipote che si rigira brontolando tra le coperte. Mah, sarò io troppo nervoso, penso, o ipersensibile. Di una cosa sono certo: la scossa l’ho sentita, eccome. Un movimento simile a quando l’auto attraversa le strisce di rallentamento su una rampa autostradale, il rombo bum-bum-bum del rotolamento delle ruote che si ripercuote sull’abitacolo, altalenando gli ammortizzatori in modo ritmico. Ma… amplificato per cento, almeno. Mi alzo, apro la finestra del terrazzino della camera d’albergo: la 9 al 1° piano ricordo.
Vista sul retro, in una zona periferica a 3 km circa dal centro dell’Aquila. Zona pianeggiante, vicina all’Ospedale ed alla grande struttura della Guardia di Finanza, dove domattina Antonio dovrà sostenere il Concorso. Intorno… silenzio; nessun segno di allarme. Qualcuno come me ha avvertito la scossa ma non ci sono segni di allarme. Mah, sono perplesso. Penso di essere ancora teso per i km di strada nelle ultime ore, da Bologna a Livorno, da Livorno a Roma, da Roma a l’Aquila. Penso che aver incontrato Enzo nel Policlinico Umberto I a Roma, quella stessa mattina del 5 Aprile sia stato un turbamento represso. Mah!
Penso infine che ero al corrente che da diverse settimane la terra aquilana era “ballerina” e che la mia ipersensibilità da neofita trovasse nella gente locale una abitudine tale da non rilevare un allarme importante…
Ritorno a letto, una coperta sotto il cuscino per avere la respirazione facilitata, il cuore batte in un modo strano.
6 Aprile, ore 01
“Antonio, Antonio… svegliati! Ho sentito ancora il terremoto!”
Si ripete la scena di 2 ore prima. Nipote che si rigira brontolante, mi affaccio sul terrazzino, silenziosa normalità. Avevo lasciato la tapparella alzata, non mi chiudo mai serrato per la sana abitudine di avere un possibile riferimento visivo appena sveglio. Avverto chiaramente in me aumentare il livello di stress, associato ad una premonizione che “non era finta li”. Ma nessun allarme, neanche da parte del personale dell’albergo; sembravo l’unico preoccupato nel raggio di chilometri. Calma Pino, è tutto ok. Tu che predichi la “distribuzione delle energie” dàtti una calmata e dormi, la giornata sarà ancora lunga.
Mi addormento pensando positivo, la sera avevamo visto in TV la presentazione di un film dedicato ad una Santa africana, recitato da una bella attrice del Senegal, commessa in un negozio di moda in Italia. Pensieri belli… la mia Africa, una Santa africana, una ragazza che migliora la condizione economica sua e della famiglia di origine.
Buona notte al mondo, mi sento in pace con te; e domani (oggi) sarà un giorno importante per Antonio, il concorso, il suo futuro di studi e professionale, la sua vita che avanza.
6 Aprile, ore 03:30
“Pino, Pino… presto scappiamo!”
E’ la voce di Antonio che mi strappa al sonno in modo violento. Provo a realizzare le dimensioni spazio-tempo, niente. Sentirsi dentro uno scatolo di metallo piccolo con sassi che sbattono, un box di ascensore metallico e chiuso, agitato come uno shaker in tutte le direzioni. Come un cavallo impazzito che ha dei movimenti scomposti in verticale, orizzontale, obliquo… con una forza inaudita che non riesci a contrastare… quando provi a rialzarti dal cuscino sei ributtato indietro. Poi il rumore assordante, come quando due treni si incrociano a forte velocità e tutti i vetri e la struttura sono scossi violentemente… Come se qualcuno volesse forzare la porta-finestra del terrazzino con scossoni violenti, ripetuti, forsennati… Ed i rumori di cose che impattano tra loro, alcuni cupi… saranno le strutture che cedono o i mobili o il televisore sospeso? …altri rumori più sottili, quasi scintillanti… le tegole del tetto? Gli specchi della camera che si infrangono? I vetri delle finestre?
“Pino, Pino… presto scappiamo!”
La voce di Antonio è ferma, decisa, autoritaria. Strano, penso, di solito ha il risveglio lento… adesso è iper-attivo. Istintivamente, immediatamente ammiro la sua reazione.
Le scosse continuano, i rumori di cose che cadono, si accatastano, lo sbattere delle porte, finestre, pareti. Provo ad accendere la luce, niente. Un armadio verticale separava i nostri 2 letti, con un incavo-comodino. A tentoni ritrovo il telefonino, Antonio trova il suo contemporaneamente. La luce bianca dei display non riesce ad illuminare tutto il campo visivo, la camera o quello che rimane di essa. Ho la sensazione che il pavimento sia inclinato di 10-20° verso i piedi del letto, tanta è la fatica che faccio a rimettermi in piedi. La sensazione è che tutto il pavimento o parte di esso sia sprofondato al piano inferiore, al piano terra o chissà dove, inclinato. Ma le sensazioni di spazio e tempo sono perse…
“Pino, Pino… presto scappiamo! Con calma, scappiamo”
Gli unici riferimenti reali: la voce di Antonio e la lucina bianca del display dei telefonini.
La scossa devastante si è certamente attenuata, ma questo potrò dedurlo solo a posteriori. Ai piedi del letto illumino le scarpe, chiare per fortuna, facilmente individuabili. Le calzo rapidamente tra una miriade di vetri e cocci… la borsa da viaggio è stata travolta dal televisore che è precipitato giù dal muro ed è sepolta da esso. Allontano rapidamente il rottame di TV e afferro i manici della borsa capovolta; la cerniera era chiusa e non è caduto nulla, almeno credo. Dietro la porta il giaccone bianco, anch’esso illuminabile dal display bianco. In esso, come mia abitudine, avevo riposto tutto: chiavi dell’auto, documenti, soldi, occhiali.
“Pino, Pino… calma, calma. Andiamo via, presto!”
Antonio riesce ad aprire la porta della camera numero 9, primo piano. Anche lui ha afferrato le poche cose necessarie, concentrate in scarpe-borsa-giacca.
Il corridoio è buio, stretto… sembra sgombro da detriti, almeno a quanto rilevano le deboli luci bianche dei display. Antonio ha buona memoria, si orienta subito e prende con cautela e fermezza la via verso le scale. Passo dopo passo, la mia vista sembra, “è” in bianco e nero, come ad un visore a infrarossi. Arriviamo alle scale… sembra abbiano retto. Strette strette, nella tromba è stato realizzato un piccolo ascensore inserito in una struttura di cemento armato. Me n’ero accorto la sera prima, ancora si vedeva il cemento scuro, non rivestito. Forse questo “camino” verticale ha sorretto le scale. Incrocio una persona che risaliva, facciamo fatica a passare in due. Arriviamo al pian terreno, attraversiamo il ristorante dove avevamo cenato la sera prima… intravediamo a terra rovine, cose ammassate, disordine, scompiglio, ma il nostro campo visivo è (fortunatamente) limitatissimo, orientato alla porta di uscita.
Attraversiamo la porta a vetri esterna… siamo fuori!
“Antonio, siamo fuori, siamo vivi!”
L’albergo fortunatamente ha un piazzale. Altre persone sono vicine alle loro auto, alcuni sono usciti prima di noi, altri immediatamente dopo. Riconosciamo la famiglia che gestisce l’albergo: marito e moglie sui 45, un figlio ventenne, una figlia di 16, i nonni anziani abbracciati stretti sul sedile posteriore della loro auto.
Spostiamo le auto, a distanza dai muri dell’albergo. Senza una parola abbiamo capito che non è finita, non è finita, non è finita…
Il cuore riduce le pulsazioni frenetiche ma le braccia e le gambe sono ancora un po’ amorfe.
Con Antonio ci abbracciamo, senza effusioni particolari… ormai so che non è “militarmente corretto”.
Scopriamo, io con sorpresa, alcune similitudini tra zio (53) e nipote (20). Entrambi eravamo andati a dormire in tuta da ginnastica; con questa siamo scappati, quindi eravamo praticamente già vestiti: ottimo. Entrambi avevamo estratto dalla borsa da viaggio solo l’essenziale, un libro ciascuno: “Memorie di un sommergibilista” per Antonio, glielo avevo regalato pochi giorni prima ad Ancona; “Un arcobaleno nella notte” di Dominique Lapierre per me. Entrambi non abbiamo l’abitudine di svuotare la borsa… a cosa serve, per una notte?
Nelle tasche del giaccone invernale, sapevamo di andare all’Aquila, avevamo tutto: io ho sempre l’abitudine di riporre chiavi, documenti, soldi, tutto concentrato. Entrambi avevamo ricaricato i telefonini, la sera precedente. Allora per noi andare via con “niente” o con “tutto” non faceva molta differenza. Siamo riusciti nella concitazione della fuga a prendere tutte le nostre cose, siamo stati bravi.
E ora, guardando la facciata dell’albergo debolmente illuminata dai fari delle auto, chi avrebbe il coraggio di tornare dentro a riprendere qualcosa?
Guardiamo la struttura, sembra intatta. Il proprietario ci informa che un paio di anni prima aveva fatto una ristrutturazione tutta in cemento armato, compreso il camino dell’ascensore; forse questo ha fatto da supporto alle scale non crollate.
“Un’altra scossa, un brontolio lungo e sordo….. brrruooooommmm…”
Non è finita, non è finita. Ma siamo rimasti in piedi mentre raccontavamo in capannelli le nostre impressioni sui minuti appena trascorsi. Il “tu” è d’obbligo. E’ d’uso tra gli abruzzesi ma adesso lo usiamo anche noi, accomunati da una esperienza vissuta e una notte da vivere.
Con Antonio facciamo l’inventario, lui si riveste per stare più caldo, io rimango in tuta. Mi passa i miei calzini; sono sicuro di averli lasciati dentro le scarpe, lui li aveva ritrovati su un tavolo, 2 metri più in là: record di salto in lungo per calzini… ridiamo increduli e nervosi.
Guardiamo intorno, tutto sembra relativamente tranquillo. L’illuminazione pubblica regge ancora ma dopo qualche lampo lontano, forse centraline Enel saltate, si fa tutto buio.
Cominciano a defluire auto dal centro dell’Aquila, un corteo di fari mesto, lungo, regolare.
Arriva qualche telefonata ai compagni di parcheggio “E’ crollata la cupola dei Beati Santi”… penso a quella di Noto, poi ricostruita, poco male. “E’ crollata la casa dello studente, 2 morti…” Eh no… qui qualcosa non quadra, o è troppo o è troppo poco pensa istintivamente la mia mente da ingegnere. Tutta una casa dello studente è “troppo”, “due” studenti è troppo poco!
6 Aprile, ore 04:00
“Sono Enzo… come va li?”
“Enzo… Siamo fuori, siamo salvi”
Chiudiamo la rapida comunicazione e mi tremano le mani mentre guardo il display del telefono. Enzo, mio fratello, il papà di Antonio, era riuscito a mettersi in contatto con noi! Al momento non ho realizzato subito l’importanza di questa telefonata, ma durante la notte ho fatto tante riflessioni. Ora, mentre scrivo a distanza di pochi giorni, cerco di riorganizzarle in flashback, come un’onda che va avanti di 10 minuti e torna indietro di ore… un’onda che avanza e retrocede, alternando nella notte scosse vibranti e lunghe calme temporali.
La cronaca di quel fine settimana; proverò ad essere sintetico, so di non riuscirci.
Sabato 4 Aprile da Bologna vado a Livorno e pernotto da Antonio, una pizza e quattro passi sul lungomare per fare il piano della situazione.
Antonio sta provando diversi concorsi nella Marina Militare ed in Guardia di Finanza, sezione navale. Il mare è la sua passione, adora le storie militari, è competente e preparato su navi, battaglie, regolamenti, consuetudini. Se analizzassero il suo sangue probabilmente troverebbero tracce di salsedine, i suoi neuroni sono a forma di alamari o mostrine militari. Nel suo DNA gli ancorotti si alternano ad alberi, timoni, boma, trinchetti, bussole, sonar e GPS.
Io condivido la sua passione… la passione la segui convinto per una vita, gli ostacoli sono fastidi di percorso.
L’anno scorso l’aveva accompagnato suo papà Enzo ai vari concorsi, adesso lui è a Roma in Ospedale e tocca a me. Voglio un gran bene ai miei nipoti, indistintamente, ma nella passione per il mare di Antonio vedo la stessa passione che io avevo per Ingegneria, forse di più. Passione raggiunta la mia, non senza ostacoli; passione quella di Antonio per il mare da agevolare, almeno entro i limiti del possibile.
E se io lo avevo assecondato nella passione, adesso nella pratica, nel momento della seconda tornata di esami non potevo certo tirarmi indietro… e allora forza, facciamo “lo zio”.
“Altra scossa… lunga, tremolante, come il passaggio di un bulldozer coi cingoli sulla strada…”
Domenica 5 Aprile da Livorno ci siamo spostati a Roma. Solo verso Civitavecchia ho comunicato ad Antonio che, oltre ad andare a trovare la cara cugina Zina a pranzo, saremmo passati da suo papà appena operato di ernia cervicale. Ho dovuto fare un lungo preambolo ad Antonio, ripetergli ancora una volta il mio concetto di “energie” che devono essere ben distribuite. Le energie di Enzo, Fiorella e Zina sull’intervento di papà. Le energie di Antonio sulla preparazione degli esami per l’Accademia. Le energie di zioPino come sostegno logistico ad Antonio. Ad ognuno il suo compito, energie dedicate su chi e dove c’era bisogno, evitando inutili sovrapposizioni. A costo anche di non dire subito la verità ad Antonio.
In realtà già lo avevo accompagnato ad Ancona il 20 Marzo in giornata e ancora il 30 Marzo pernottando là. Adesso era la volta del’Aquila: sabato 4 a Livorno, domenica 5 mattina a Roma, pomeriggio a l’Aquila con pernottamento, lunedi 6 l’esame; la sera rientro rispettivamente a Bologna per me ed a Livorno per lui, separandoci a Firenze. E infine l’ultimo turno ad Ancona il 9 Aprile al pomeriggio, prima della partenza per Vibo da Bologna il 10, insieme.
Un giretto di appena 2600 km in auto nell’arco di 2 settimane, più i suoi treni.
Notte nel parcheggio. La padrona dell’hotel da ad Antonio una bottiglietta di the freddo, io do a sua figlia una felpa. Trovo dei guanti in pile per Antonio e un cappello per me. Antonio mi chiede se dal baule della mia Zafira che sembra senza fondo posso tirar fuori delle carte da gioco… Rispondo che sì, ci sono anche quelle! Commenta che un frate di sua conoscenza non esiterebbe a mettere su un partita anche in quelle condizioni da sfollati.
“Brontola ancora questa terra ancora non sazia….”
Altre scosse si ripetono. Il termometro dell’auto segna 4°C. Alle auto che defluiscono dall’Aquila se ne aggiungono altre che vanno verso la città. Noi siamo alla periferia, vicino all’Ospedale, e penso a giovani trasferiti nell’hinterland che corrono alla ricerca dei loro anziani rimasti nelle vecchie case della città vecchia. Non si hanno notizie dettagliate, ma intuisco che non è stata cosa da poco. Le radio danno notizie frammentarie, solo danni materiali. No, non può essere così.
Aggiungiamo un maglione al nostro abbigliamento. Durante la notte la temperatura scenderà fino a 2.5°C, le montagne circostanti del Gran Sasso e della Majella sono tutte innevate. La debole luce notturna è dovuta in gran parte al riverbero della luna sulla neve. L’illuminazione pubblica scompare. Rimanere in macchina è straziante: ogni scossa si ripercuote sugli ammortizzatori in un ondeggiamento che sembra non finire mai. Stare fuori dalla macchina è un freddo notevole; alterniamo dentro e fuori. Abbiamo i telefonini carichi, mezzo pieno di gasolio, biscotti e acqua. Dormire… impossibile.
6 Aprile, ore 04:30
Una scossa potente e duratura, vediamo il profilo dell’albergo ondeggiare, le porte di ingresso sbattere, la ringhiera del recinto tintinnare per lunghi lunghissimi secondi. E ancora il cupo brontolio…
Questa è stata forte, commentiamo impauriti tra noi. Più della serie di altre ma meno di quella terribile delle 3:30 dalla quale siamo scampati.
Allora non è ancora finita? Non è un fenomeno in attenuazione? Cosa dobbiamo aspettarci ancora? La notte e lunga e la mancanza di luce, la mancanza di riferimenti solari può far vacillare la ragione. Ma siamo tutti composti, condividiamo l’ansia palpabile. Il parcheggio si è già riempito di 15-20 macchine, ci sono capannelli e ci si sposta da uno all’altro. Sono praticamente tutti del luogo, si conoscono tutti, tranne noi e un paio di altri ospiti dell’albergo, anch’essi li per l’esame in Guardia di Finanza. Compostezza e paura, sonno e paura, incertezza e paura. Sappiamo di essere vivi, di essere in una zona relativamente sicura ma i nervi logorati reggeranno? Ma osservo la serenità rassegnata dei locali, il padrone dell’hotel che ringrazia il cielo che siamo tutti vivi, dei danni dichiara di fregarsene, anzi ci scherza su.
La signora si informa sul concorso di Antonio, rammenta di averlo già visto l’anno scorso.
Riprendono le scosse brontolone… rispetto a quella delle 4:30 appena dei solletichi…
Ecco perché nessuno aveva reagito alle scosse delle 11 e dell’una; anche a me questi sembrano brontolii inoffensivi, figuriamoci loro – i locali – che ne sono soggetti da almeno un mese!
Metto le mani nelle tasche del giaccone e trovo un ramoscello di ulivo. Ieri mattina Enzo, al Policlinico ci aveva portato nella Cappella il cui restauro era stato voluto da Giovanni Paolo II. Bellissimi mosaici, un ritratto del Papa sofferente aggrappato ad una Croce con un Cristo anch’esso sofferente…
“Gesù abbandonato…” è un termine che ho sentito dai miei amici Focolarini, trasmesso loro da Chiara Lubich. Non il potente, non il divino, non il supremo… ma il Gesù “umano” del “mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”
Non il Papa “santità” ma il Woityla sofferente, piegato, spezzato dal dolore fisico, così ben raffigurato nella Cappella del Policlinico.
E anche il mio fratello Enzo, reduce da un intervento importante, visto a Roma con un collare di ausilio. Ma quante quante sofferenze fisiche prima…; un “Gesù abbandonato” anche lui?
Ed ora, in questa notte all’addiaccio, chi sono io?
Sono forse un piccolo, indegno “Gesù abbandonato?”.
Mi ritrovo a pregare, a chiedere a Dio aiuto, consiglio, forza. Le mie dita trovano il ramoscello di ulivo. Ne avevo raccolti diversi in Ospedale e consegnati a Enzo, Fiorella, Antonio; ma anche Alessandra e suo marito Antonio che ci avevano raggiunto là.
Dio mi manda un messaggio chiaro, inequivocabile: “Non ti ho abbandonato. Il tuo ruolo è quello di stare vicino ad Antonio. Il suo papà non può, tocca a te. Fallo con affetto, fermezza, coraggio se necessario. Conosco le tue debolezze, Pino, ma ci sono io con te. Non sei, non siete soli”.
Penso alla telefonata di Enzo alle 4. Se non avessi potuto rispondere? Se non ci avesse trovato? Quali pensieri possono passare nella mente e nel cuore di un padre per il suo figlio primogenito? Si può impazzire per questo? Si, penso di si.
Enzo che sente la scossa delle 3:30 fin da Roma, chiede a un vicino di collegarsi col computer, apprendono del terremoto all’Aquila, mi chiama… io rispondo: “Siamo vivi, siamo salvi”.
Il sollievo.
Che sensazione.
Grazie a Dio.
Noi non siamo nulla, nulla.
Altre scosse di lieve entità; “L’hai sentita?” “Si, era debole, l’ho sentita.”
Nonostante la stanchezza, consapevole che i danni dovevano essere seri, serissimi, continuo con le mie meditazioni. Parlo con Antonio, ci teniamo svegli, l’alba è ancora lontana da arrivare, siamo circondati da monti.
A pranzo, Domenica 5, siamo stati da Zina. Ottimo pranzo, la cugina traspira affetto da tutti i pori. Una vita dedicata all’assistenza degli altri, molto poco per se. Che persona! Mancava Enzo, ma l’avevamo visto in Ospedale, una splendida giornata di sole, le dimissioni previste al giorno dopo. Gli avevo portato dei libri sulla Calabria, appena acquistati conoscendo la sua passione per quanti hanno scritto sulla Calabria. Anche “Memorie di un dissepolto”, in libretto di poche pagine di un autore di Siderno che aveva vissuto sulla propria pelle il tragico terremoto di Reggio Calabria nel 1908. Aveva perso madre e due dei suoi figli. Forse un libretto di poco valore, riscoperto dall’editore Rubettino e corredato di tante manifestazioni scritte di condoglianze da parte dei salotti letterari romani, siamo ai tempi di D’Annunzio e Matilde Serao.
Un libro di scarso spessore letterario, avevo commentato con Enzo. Tuttavia spesso si dimentica che il terremoto del 1908 ha causato circa 40.000 vittime, più della tragedia di Hiroshima.
Ma nella Cappella avevo distribuito quei rametti di ulivo; uno lo stringevo io, questa fredda notte.
5 Aprile: onomastico di Enzo, onomastico di Zina, compleanno di Alessandra. Festeggiata a pranzo, regalo da Zina e Fiorella, torta e spumante. C’era anche Virginia. C’era anche Francesca, amica di Fiorella; “la mia dottoressa preferita” come la chiamo io, sempre in viaggio tra Crotone-Roma-Firenze-Milano. Donna molto fine, un ghiacciolo di amica, vabbè.
5 Aprile: è la Domenica delle Palme, la domenica che precede la Pasqua.
Ma… io sono nato la Domenica delle Palme, il 25 Marzo del 56.
Il mio giorno di nascita, il mio giorno di ri-nascita.
Che coincidenza!
Ci penso, è un regalo del Cielo per il mio compleanno: la vita.
L’alba tarda ad arrivare, altri sommessi brontolii.
Siamo tutti stanchi, girovaghiamo come alienati nel piazzale. Io e Antonio ci allontaniamo insieme per fare pipi. La temperatura sta scendendo. Non arrivano notizie certe. Si parla di tanti crolli. Un albergo è crollato. Quello dove dovevamo andare noi è forse lesionato. Enzo mi aveva consigliato di prendere un albergo in centro, meno spartano di quello che avevano scelto l’anno scorso. A me piacciono i buoni alberghi, pochi giorni fa eravamo stati ad Ancona ed avevo preso il Jolly, un 4 stelle con vista sul porto. Comodo, costoso, era stato il rifugio per me durante una giornata di pioggia e nebbia mentre attendevo Antonio che svolgeva il suo compito di Italiano. Avevo ospitato un altro papà di Pizzo Calabro, intirizzito e solo con la sua valigetta, venuto su in treno. Mi sono sentito accogliente “avevo freddo e mi avete ospitato”… era costato niente!
Questa volta no, per l’Aquila non volevo lussi e comodità e passeggiata al centro storico. Qualcosa mi teneva lontano dal centro, forse un ricordo di una visita nel passato che volevo scacciare. Avevo prenotato all’hotel Portichetto, un non-so-quante-stelle in una frazione dell’Aquila.
Comodo perché vicinissimo alla caserma ove Antonio doveva sostenere l’esame; alla prenotazione la signora mi aveva subito dato del tu, si usa qui, ricordando che c’ero già stato un anno prima (in realtà Antonio con Enzo).
Ora, nella fredda notte, metto una mano nella tasca del mio giaccone e trovo un foglietto, una ricevuta fiscale.
Dopo l’ottimo pranzo da Zina e la promessa di andare a trovarla ai primi di Maggio, accompagniamo alla stazione Tiburtina Antonio e Alessandra che andranno a casa e Fiorella e Francesca che andranno a trovare Enzo.
Strano, quel pomeriggio Enzo parla con Francesca e le confida “…sento di dover espiare qualcosa”.
Uno dei motivi per cui avevo scelto questo modesto alberghetto era perché Antonio mi aveva detto di aver mangiato degli ottimi arrosticini, spiedini di carne tipici della cucina abruzzese.
Io in realtà non avevo fame, ma so che il metabolismo del nipote ventenne è più rapido del mio. Dopo alcune telefonate fatte e ricevute (Tiziano, Carmelo, Sgriccia), scendiamo al ristorante, all’inizio deserto, poi via via popolato e ordiniamo gli arrosticini, un po’ di birra e un dolce. Gli arrosticini, confesso, non sono di mio gradimento; migliori quelli mangiati tante volte con Tiziano ma è per fare contento Antonio. Chiedo il conto, sono quasi le 22. La cameriera mi dice dia andare dalla padrona, nella hall. Vedo che scrive su una ricevuta… 80 Euro!
Caspita, che cena! Poi leggo bene e vedo che aveva compreso anche il pernottamento.
“Sai – afferma cordiale - ho fatto tutto un conto, così domani mattina fate colazione poi tu l’accompagni alla caserma, poi torni qui e ti riposi in attesa che il nipote ti richiami per andare a prenderlo…”
Complimenti signora per l’organizzazione, penso al momento.
Mentre nella notte fredda tiro fuori dalla tasca del mio giaccone bianco la ricevuta “completa” non poso fare a meno di esclamare un… “però!”
La terra si muove ancora; è un promemoria continuo, ripetitivo, assillante…
Non si riesce a prendere sonno, nonostante la stanchezza. Non arrivano notizie chiare ma dalla somma di esse si capisce che l’entità è notevole. Parlano di paesi, villaggi, vie e persone a noi sconosciute. Se solo la radice quadrata fosse vera, pensare a decine di morti e feriti è certamente realistico.
Guardiamo il cielo in tutte le direzioni, non si capisce da dove arriverà l’alba, siamo circondati da montagne. Le lancette dell’orologio avanzano con una lentezza esasperante. Si sente qualche sirena, si intravede in lontananza qualche luce lampeggiante. Saranno i mezzi di soccorso pensiamo, l’Ospedale è alla mostra destra e oltre c’è il centro dell’Aquila: saranno diretti là. Davanti a noi la strada statale 80, la via di comunicazione verso Teramo e, deviando a ovest, la strada Salaria verso Rieti e Roma. Vediamo passare i primi mezzi della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco. E’ rincuorante sapere che non siamo tagliati fuori dalle vie di comunicazione. In ogni momento ho pensato alla via di fuga, adesso sapevo qual’era la direzione da prendere.
Attaccati a radio e telefonini, sempre meno funzionanti, le notizie sono frammentarie e “stranamente stazionarie”. Non può essere una cosa così limitata mi convinco.
Altre scosse… non periodiche. Sembrando dei promemoria per non cedere al sonno, dei pungoli per rimanere allertati…
Riflessioni nella fredda notte. Qualche giorno prima ero stato in Chiesa per un momento di raccoglimento. Avevo rivolto un pensiero a tutti, chiedendo per tutti la protezione benevola di Dio. Ai miei familiari, in particolare per conservare a lungo i genitori e per vegliare sulle ansie correnti: l’intervento di Enzo, gli esami di Antonio, gli studi di Valeria.
Ai parenti, scorrendo i loro nomi e i loro volti uno per uno.
Agli amici più cari, specie a quelli che adoro ricambiato e che danno sostegno alla mia vita fatta prevalentemente di lavoro. Dagli ultimi ritrovati dopo anni su Facebook a quelli cui sono più legato. Carmelo, Marica ed i loro bambini (gli unici che mi chiamano “zio”); Matteo, il più grande, mi ha chiesto di fargli da Padrino alla Cresima il 25 Ottobre, non posso mancare.
Un pensiero, una preghiera per tutti, anche quelli che si sono allontanati da me.
Ieri sera, appena arrivato in albergo, ho chiamato Carmelo dicendogli di essere a l’Aquila.
Ho anche ricevuto una telefonata da Sandro Sgriccia e da Tiziano.
Perché perché nei giorni precedenti a questi viaggi ho sentito la spinta a sentire tutti, telefonare, scrivere; anche tentare di appianare situazioni un po’ difficili?
Le mani frugano nelle capienti tasche del mio giaccone, estraggo un altro foglietto.
Sono la minuta degli auguri che ho inviato a Carla per il suo compleanno, 23 Marzo.
Rileggo le ultime righe:
“Ti auguro di conservare negli anni, tanti tanti
il gusto per il bello
la curiosità per l’insolito
la capacità di stupirsi davanti all’infinito”
Lenta lentissima arriva l’alba… le scosse sembrano attenuarsi con l’avanzare della luce…
La luce piano piano si fa strada, è lattiginosa, grigia; i colori non sono brillanti. Non ci sono profumi di freschezza. Sarà forse per l’intontimento notturno, la stanchezza.
Sono le 6:30, cominciano a volare gli elicotteri per le ricognizioni. Si vedono altri mezzi di soccorso. Decidiamo di raggiungere piano piano la caserma della Guardia di Finanza per avere notizie sul concorso; non dovremo entrare in città, solo passare davanti all’Ospedale.
Ci congediamo dai nostri compagni di fuga e di notte all’addiaccio.
Un saluto cordiale, quasi affettuoso con i padroni dell’albergo; la figlia della signora mi restituisce la felpa anche se io non volevo. La padrona: “Vedrai che il concorso non si farà... sarà ripetuto. Naturalmente sarete nostri ospiti”. Grazie signora per la tua umanità, per la tua generosità anche in questi frangenti, Non so se tornerò nel tuo albergo, ma certamente potrò dire che dire che è solidissimo!
Arriviamo dopo pochi minuti alla Caserma, ci rendiamo subito conto che è stato trasformato in un centro di accoglienza per i profughi. Tante persone avvolte in coperte verdi della GdF, una bevanda calda in mano. Nel grande piazzale tra i grandi edifici della scuola sottufficiali i pullman che solitamente servono per prelevare dalla stazione FS e autolinee i ragazzi per il concorso di oggi, durante la notte hanno trasportato qui gli sfollati.
Sono le 7, arrivano le prime telefonate.
Parenti ed amici si sono svegliati, hanno acceso radio tv telefonini ed hanno saputo del terremoto a l’Aquila ed hanno subito pensato a noi.
Alessandra… Claudio… Nonna Franca…Fiorella
Chiama Carmelo, l’avevo sentito la sera prima. La sua voce trema di apprensione, “Siamo vivi, siamo vivi…” sono le uniche parole che riuscirò a dirgli.
Mi dice che al suo telefono risultano due mie chiamate durante la notte, alle 4:05 e 4:10.
“No Carmelo, non ti ho chiamato. Non l’ho fatto. Ma forse il mio cuore chiamava i tuoi bimbi…”
Il mondo, il nostro piccolo mondo di affetti familiari sa che siamo salvi.
Il pensiero solleva, certamente, ma l’angoscia è ancora presente in noi. Nel corso della giornata si trasformerà in qualcosa di diverso, da “personale” a “collettiva”.
Poche persone in attesa del concorso, è chiaro che non si farà, aspettiamo la conferma ufficiale che non arriverà mai.
Arriveranno invece le autorità, le auto a sirena spiegata, l’elicottero col capo della Protezione Civile Bertolaso. La caserma è, oltre a campo profughi, la sede del comando operativo.
La presenza di questa immensa struttura alle porte dell’Aquila è un vantaggio immediatamente tangibile, la vicinanza a Roma tramite autostrada (lesionata ma non interrotta) un altro vantaggio. Questi non daranno la vita ai morti, ma potranno in tempi ragionevolmente brevi alleviare le sofferenze dei sopravvissuti.
Le scosse continuano, sebbene ridotte in intensità e frequenza. La luce del giorno sta avendo il sopravvento sul terrore delle tenebre…
Siamo di troppo qui, dobbiamo andare via. L’autostrada è vietata, prendiamo la Salaria verso Rieti, Terni, Orte. Guido come un automa. Ancora intabarrato nel giaccone-maglione-cappello a 50 km/h lungo la statale che attraversa paesi. Code ai distributori di benzina, code di auto colme di bagagli, famiglie che abbandonano i luoghi di paura per raggiungere i familiari che li ospiteranno, forse Roma, forse altre città. Muri sgretolati, segni di crolli nelle strade ma si prosegue. Solo la radio in macchina recita un rosario di morti il cui numero si snocciola crescente. Durante la notte si parlava di 2 morti, all’alba sono 9, poi si parla di 11, di 19. Arriviamo a Terni e sono 31. Avrei voglia, o meglio necessità di un caffè ma non mi fermo, proseguo chilometri su chilometri. I miei occhi sono umidi mentre le notizie via radio ci riportano la vastità, la gravità del sisma. A noi è andata bene, molto bene. Ma non possiamo, non dobbiamo gioire. Abbiamo visto gli sfollati con le coperte della GdF, ma anche loro sono sopravvissuti. Il loro dramma è mille volte superiore al nostro. Non è il momento di introflessioni, di egoistica gioia. E’ il momento di rivolgere un pensiero affettuoso a chi non c’è più, a chi vive e vivrà il dolore per una o più morti. Noi ci riprenderemo, siamo sulla via del ritorno, verso la normalità che poco alla volta allenterà i segnali di tensione. Ma gli altri?
Dio mio, Dio mio… perché li hai abbandonati?
Qual è il segno, il segnale, l’avvertimento?
La natura che, assestandosi, riprende i suoi contorni snaturati dall’uomo?
Un avvertimento ad essere tutti più solidali, uniti, fratelli?
Per Natale avevo inviato via e.mail i miei consueti auguri in giro per il mondo:
“Si parla tanto di crisi… è importante che non ci sia crisi nei nostri valori più profondi.”
Facile premonizione la mia; sono le guerre, le carestie, le privazioni che fanno riscoprire agli uomini il senso della solidarietà.
Una crisi globale, mondiale dovuta alla economia corrotta, che incide maggiormente sui più deboli è equivalente alla diffusione di una epidemia. Come può il corpo umano riprendersi? Forse sviluppando quegli anticorpi “personali”, interni, intimi e allargare la influenza positiva al proprio vicino di casa, di parcheggio notturno da sfollati, da campo profughi.
Sapremo cogliere questi segnali?
Sapremo risorgere?
La Pasqua è vicina. Pasqua di Resurrezione.
Io e Antonio siamo risorti, speriamo rinati a nuova vita.
Prego e spero per la vita eterna serena dei morti, prego per la ripresa ed il coraggio dei familari, alla fierezza e intelligenza del popolo abruzzese.
6 Aprile, mattinata
Ho accompagnato Antonio a Firenze Rifredi, lui ha proseguito per Livorno, io per Bologna.
Lungo la strada tante telefonate di mia mamma, parenti e amici. Quante persone preoccupate per noi hanno potuto trarre un respiro di sollievo. A tutte dico che il dolore è tra chi piange gli scomparsi, noi siamo fortunati.
Per diversi giorni non ho voluto guardare la televisione, ho solo ascoltato la radio. Tremiti nelle braccia, nei piedi, nei glutei da seduto hanno trasformato il mio corpo in un sismografo vivente.
Residui di stress da stemperare. Certo, rispetto ad Antonio io ho già trascorso i 2/3 della mia vita con relative adrenalina, lui è solo al primo ¼ della sua giovane vita: è normale che le reazioni sono diverse.
All’indomani della fuga dall’Aquila, mentre via telefono raccontavo a Enzo i momenti più critici, lui ha esordito: “Perché non scrivi queste esperienze?”. Si, lo farò. Scrivere mi è sempre piaciuto, se non lo facessi rimarrebbe una “incompiuta” dentro di me. Si, devo farlo.
Eccomi qui; con tutti i miei limiti, ma con tutto il mio cuore ancora gonfio per il dolore sfiorato.
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Acune testimonianze da persone a me care.
Salvatore Paul Lenares (Boston), via FB
Pino, abbiamo saputo del pericolo che hai passato. Siamo lieti che stai bene. A presto sentirci. Auguri sempre , Sal.
Loredana Sagnotti (Roma), via FB
Carissimo un abbraccio forte in questi momenti cosi bui per tutti coloro che hanno perso tutto e per noi che ci sentiamo impotenti di fronte a questo. Se pensi che posso essere utile mettiti in contatto con me. A presto ,l.
Paola Borrello (Cornaredo MI), via FB
Mio Dio...non sapevo foste a L'Aquila...è terrificante...ieri non sono riuscita a combinare nulla...ero a bocca aperta...e anche ora, 30 secondi fa l'ennesima scossa...ma dove siete ora???vi abbraccio fortissimo, e che sia per tutti noi una controprova di quanto possiamo essere piccoli e "inutili" in questo mondo...vi voglio tanto bene...!pa
Sto ancora pregando per chi è ancora lì sotto...4 ragazzi nella casa dello studente...ma anche tante altre persone, bambini...mi sento inutile...si, ha davvero senso parlarne...a presto, spero. ti voglio bene...
Maurizio Vacirca (Bologna), via FB
Caro Pino,ho saputo da Carmelo quello che hai passato l'altra notte a L'Aquila. Grazie a Dio ti sei salvato, in una situazione gravissima, per fortuna di tutti noi che ti vogliamo bene. Fai una bellissima Pasqua di serenità. A presto
Paolo Pantano (Tripoli), via FB
Zio Pino, ti vogliamo un mondo di bene. Siamo con te sempre.I Pantano (PP,MG,JJ,AX).
Giampaolo Blancato (Bologna), via FB
Cavolo, non sapevo che eri a L'aquila......
io sono devastato.....da tutte le immagini e dai racconti di altri amici che l'hanno scampata ......
e tu come mai eri li ? (potresti anche essere di li, ma non lo so)
e comunque, nonostante lo strazio per le vittime, sono comunque contento per te.
AUGURI
io sono devastato.....da tutte le immagini e dai racconti di altri amici che l'hanno scampata ......
e tu come mai eri li ? (potresti anche essere di li, ma non lo so)
e comunque, nonostante lo strazio per le vittime, sono comunque contento per te.
AUGURI
Maria Grazia Rodeghiero (Charleroi, BE), via SMS
Ciao amico! Spero che effetti sismici stiano passando… buone vacanze a te!
Non riesco a guardare neanche le immagini… troppa distruzione dolore dignità… ma sono cose che fanno riflettere. Un abbraccio.
A te un pensiero di pace per momenti di serenità che ti aiutino e vedere con fiducia le cose attorno.
Luana Sangiorgi (Bologna, via SMS
Pino, sapere che potevo perderti mi fa star male. Domani sera andiamo al Apriti Cielo all’ora che volete.
Davvero Pino se non prendi sonno mandami un SMS quando vuoi nei prossimi giorni ti stringo forte ti voglio bene hai un nipote favoloso notte e buon giovedia tutti e due.
Uni (Nigeria), via SMS
Un terremoto squarciò la terra… ma dopo tre giorni Gesù il Cristo resuscitando, annunciò di cambiare e di aprire il nostro cuore alla speranza del vero amore di Dio. Buona Pasqua, ti voglio bene!
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CENNI BIOGRAFICI
Calabrese di origine (Vibo Valentia, 1956), bolognese di adozione (1979).
Ingegnere elettronico; insegnante di elettronica, poi progettista di sensori optoelettronici.
Attualmente si occupa di normative e certificazioni internazionali, brevetti e laboratori di prove ambientali.
Collabora con Università di Ferrara, facoltà di Fisica e Tecnologie Innovative.
Passioni: fotografia, lettura e… scrittura.
Seconda Patria: l’Uganda, ove si reca spesso per collaborare con un piccolo ospedale realizzato grazie ad una donazione familiare ed una scuola per le adozioni a distanza.