L’AQUILA - Siamo usciti dal 2010 accompagnati dall’atmosfera di festa come sempre cadenzata dal percorso di redenzione del pessimo Scrooge di Christmas Carol e siamo entrati nel 2011 lanciati verso la gran festa di metà Marzo per quel compleanno n. 150 dello Stato italiano che affonda le radici nell’Impresa garibaldina dei Mille.
«A pie’ della collina d’Albaro alzai gli occhi per vedere ancora una volta la villa dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la Grecia, e il suo grido d’Aroldo a Roma mi risuonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul “Piemonte”, a fianco a Garibaldi». Parole di Giuseppe Cesare Abba, uno dei Mille. Albaro è una delle piú ambite concentrazioni residenziali di Genova, distesa tra le colline e il mare lungo i tre kilometri di Corso Italia che dalla chiesa di Boccadasse, a Levante, raggiungono Piazzale Kennedy, a Ponente. A Albaro furono di casa Carlo Pisacane e Guido Gozzano e lí Charles Dickens aveva a lungo soggiornato subito dopo l’apparizione, nel 1843, della prima delle innumerevoli edizioni del suo Christmas Carol.
Albaro, dunque, come crocicchio di fatti lontani ma tuttora ben presenti. A Albaro, all’inizio del 1911 c’era, ma c’è ancora, il Lido, allora inaugurato da poco piú di due anni, vantato come il piú grande stabilimento balneare d’Europa e a lungo rimasto per i genovesi l’elegante fulcro della mondanità, estiva e non solo. Al Lido di Albaro, intorno alle 3 del pomeriggio di un Venerdí 13, all’inizio del 1911, due giovani, un uomo e una donna, conversano sotto un’arcata che affaccia sul mare. «Ad un tratto, con rapidità fulminea, il giovane estraeva di tasca una rivoltella e ne esplodeva tre colpi contro la compagna. Súbito la disgraziata stramazzò al suolo supina. Il sangue le usciva a fiotti da due ferite al collo e andava a raggrumarsi in lago attorno al corpo. L’assassino, colla faccia stravolta dalla follia, le lanciava un ultimo sguardo poi si allontanava di qualche passo come inorridito e si esplodeva un colpo di rivoltella al torace sinistro stramazzando a terra a sua volta» (Il Secolo XIX, Genova, 14 Gennaio 1911).
Lui era Fermin Carrera. Studente, 26 anni, proveniente da Buenos Aires. Lei era Paolina. Nata all’Aquila, avrebbe compiuto 28 anni il giorno 28 di quel medesimo Gennaio 1911, era ricca e famosa, era una star del café-chantant, specialmente a Roma, ma anche altrove, in Italia e all’estero. L’omicidio-suicidio fece gran rumore, data la popolarità dell’artista, conosciuta come Paolina Giorgi. Il nome d’arte copriva quello che per l’anagrafe era Francesca Chiodi. Il clamore a Genova fu particolare, non solo per la notorietà dell’uccisa e per la succulenta materia cronachistica ma anche perché era genovese il commendator Monteverde, proprietario del fastoso Hotel Bristol e fidanzato in carica di Paolina (l’assassino-suicida, secondo quanto all’epoca emerse, era stato oggetto di un innamoramento transitorio e nelle ultime settimane, nonostante ogni insistenza, era stato sistematicamente respinto). Alquanto reticenti i cronisti locali dell’epoca. Approfondimenti, testimonianze, chiose e commenti ad abundantiam, invece, nei piú autorevoli quotidiani delle grandi città. E successivamente, non escludendo che l’eventuale insufficienza delle ricerche celi dell’altro, quattro romanzi nei quali Paolina viene resa personaggio letterario, perfino con séguito di trasposizioni televisive.
Dopo una prima sepoltura a Staglieno, la salma di Paolina venne traslata nel cimitero monumentale dell’Aquila. Quello sguardo! Scintillante, determinato eppure malinconico, come di risorgente fenice ansiosa di carezze dal visitante sole d’Oriente. Bellissimo e intrigante, il volto, sotto l’ala di soffice pelo nero con il vaporoso ciuffo di aigrette che se ne slancia. Ero bambino e già i miei occhi se ne illuminavano. Con mia madre andavamo dai nonni e per raggiungere la loro cappella attraversavamo il breve tratto disteso tra i sepolcri degli eroi del Risorgimento e quello del grande latinista Karl Heinrich Ulrichs. Lei stava sull’orlo del nostro percorso, ben in vista, in una delle sezioni che fasciano il tratto occidentale della muraglia di cinta. Una lastra grigia a arco scemo, al centro tutta coperta da un gran tondo fotografico, appena un po’ convesso, contornato di stucchi bianchi. Un ritratto che dava l’idea di un cammeo estruso dal marmo, invulnerabile messaggero della bellezza sbriciolata al di là di quell’algido velo calcareo. Fanno cent’anni, ormai, che sta lí. Lei. E pure il suo ritratto.
La seduzione emanata da quel volto generava interrogativi, infittiti dall’iscrizione sulla lastra di marmo: «Francesca Paolina Chiodi / morta tragicamente a Genova il 13 Gennaio 1911 / a 28 anni / riportata a L'Aquila da i fratelli e la sorella da lei beneficati / per seppellirla accanto alla madre». Mia madre, sempre generosa ai miei perché, davanti quella tomba, invece, divagava. Capii che parlare di Paolina non era cosa commendevole, sebbene occhi e gesti di mia madre lasciassero intendere ben altro che antipatia per quella donna. La pruderie piccolo-borghese, che non era e non è attributo solo provinciale, ha fatto di Paolina un personaggio da tenere a distanza. Un po’ come per la sua omonima piú illustre, la Bonaparte, che nemmeno la fulgida eternità assicuratale dagli scalpelli di Canova è valsa a redimere nell’immaginario della miopia perbenista dalla damnatio memoriae inflittale a scomputo della ridondanza di amicizie maschili. Per la Paolina aquilana, invece, ha prevalso l’oblío: cent’anni di mietitura della Nera Signora hanno ormai ridotto a semplici silenzi gli imbarazzati silenzi di un tempo.
Il primo a infilare Paolina in un romanzo è Silvio Spaventa Filippi, che, prima d’approdare a Milano, dove, nel contesto di una spumeggiante attività letteraria, avrebbe fondato e diretto per un quarto di secolo il Corriere dei piccoli, era arrivato all’Aquila dalla natia Lucania nel 1880 per studiarvi e poi allontanarsene a fine secolo, ormai brillante giornalista. Il romanzo è Tre uomini e una farfalla, uscito da Treves a Milano nel 1921, tuttora di godibilissima leggibilità e prezioso per l’acuto ritratto che tratteggia della società aquilana a cavallo tra Ottocento e Novecento. Paolina vi compare soltanto di sfuggita, ma ne è rilevante l’accostamento a taluni nomi e cognomi di quel sedicente ambiente “bene” locale al quale vanno ascritte le scioccanti stigmate che di Paolina segnarono l’adolescenza.
Assai piú tardi, nella prima metà degli anni Ottanta, arriva Corrado Augias con Quel treno da Vienna del 1981, Il fazzoletto azzurro dell’83 e L’Ultima Primavera dell’85, titoli apparsi tutti a Milano da Rizzoli e poi trasposti da Duccio Tessari in films tv, andati in onda su RaiDue nell’89. In quella trilogia di spy stories, ambientate tra 1911 e 1921 e imperniate su Giovanni Sperelli, immaginato come fratello di Andrea, il protagonista del Piacere dannunziano, e rispetto a quello modellato come una sorta di doppio speculare, Augias fa di Paolina la protagonista femminile. Tuttavia, nemmeno Augias, sebbene scriva a mezzo secolo di distanza, riesce a separarsi dall’inveterato cliché di «sciagurata ragazza» con cui Spaventa Filippi aveva messo sulle labbra di uno dei personaggi del suo romanzo lo spicciativo giudizio da “leggenda nera” tranciato addosso a Paolina dai concittadini.
Forse, nell’economia del suo impianto narrativo, Augias non aveva necessità d’introdurre troppi approfondimenti sul personaggio: gli serviva Paolina cosí com’era tradizionalmente intesa, tralasciandone gli assai articolati spunti narrativi nonché la densa e complessa materia di riflessione. Vai a capire perché abbia scelto proprio lei, che per altro viene da lui proposta come personaggio ancora in vita, quando la vera Paolina era morta da piú di dieci anni. Sta di fatto che nemmeno Augias ha avuto modo o voglia di disegnare sostanza e spessore del personaggio non banale, né semplicemente drammatico, ma tragico, “alto”, con cui Paolina offre se stessa all’altrui attenzione. Ci son due momenti, però, in cui qualcosa di piú profondo Augias non può fare a meno di lasciar emergere, quando osserva «tutto ciò che era lo doveva soltanto a se stessa» (Il fazzoletto azzurro, pag. 104 dell’edizione Oscar best sellers, Mondadori, Milano 2010) e quando affida questa fulminante battuta proprio alle labbra di Paolina: «Merito meno durezza, amico mio. E non ho avuto gioventú» (L’Ultima Primavera, pag. 226 dell’edizione La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, Roma 2010).
È proprio qui che sta l’autentica Paolina: una che «doveva soltanto a se stessa» tutto ciò che era, una che merita «meno durezza» perché quel che le vien fatto dire da personaggio è sacrosantamente quanto lei da viva avrebbe potuto dire e certamente avrà pensato: «non ho avuto gioventú». «Era figlia di operai. Dopo essere stata da piccola a servizio, provò a cambiare mestiere e si mise a fare la stiratrice» (La Stampa di Torino, 15 Gennaio 1911). «Un giovane molto ricco della nostra città la tolse con sé come amante, la fece madre di un figlio che poi morí» (Il Messaggero di Roma, 15 Gennaio, nella corrispondenza dall’Aquila inglobata in un torrenziale servizio di prima pagina). Poi, Paolina approda a Roma e lí innesca la propria metamorfosi rigeneratrice. Ha sedici anni. È il 1899, l’anno di fondazione della Fiat. «Quando volle tentare l’arte della canzone […] i suoi adoratori divennero legione in ogni città. E la bella abruzzese godette tutto il dolce della vita galante, godette tutta la gioia di vittorie senza numero, tutta l’ebrezza di un singolare plebiscito di ammirazione, al quale non negò il suo voto il divo Gabriele [cioè, d’Annunzio]» (Il Messaggero, 17 Gennaio, ancora in prima pagina).
Sono anni, quelli, che mettono in scena la trama magistralmente raccontata da d’Annunzio nel Piacere: l’agonia della società a egemonia aristocratica che annichilisce se stessa nel piú sfrenato edonismo e nel supremo culto del profitto, apprestando il baratro di guerre e dittatura in cui la nazione verrà poi risucchiata per piú d’un trentennio. In quegli anni, Paolina ha lo sguardo di Prometeo: non si lascia inaridire dalla frustrazione per la modesta condizione di nascita; non si lascia abbattere dall’umiliazione di sedotta e abbandonata. Sa reagire, raduna le sue risorse di coraggio e intelligenza. Coltiva se stessa fino a far germogliare la rinascita dalla sconfitta. Si fabbrica una vita nuova, tutta dovuta a se stessa. Altro che moralistica e pettegola “leggenda nera” di una vita di perdizione naufragata nello squallore di una morte violenta! Piuttosto, una vita affiorata nell’emarginazione e sbocciata nella mortificazione che viene riscattata da forza d’animo, coraggio e intelligenza. Una vita, poi, prematuramente quanto immeritatamente incappata in un finale tragico.
Dice Hermann Fazio, direttore del Teatro Trianon di Milano, in un’intervista apparsa sul Corriere della Sera del 14 Gennaio 1911: «Paolina Giorgi era una bellissima donna: in tutti i teatri di varietà in cui si presentava riportava grande successo, appunto per la sua bellezza. Incominciò la sua carriera artistica nel 1902 debuttando al Salone Margherita, a Napoli prima, a Roma dopo. In otto anni era riuscita ad accumulare una ingente fortuna». Alla ricchezza di Paolina accenna anche La Stampa, che, in due diversi servizi (14 e 15 Gennaio), afferma «famosa ella era pure per la sua raccolta di gioielli, veramente splendidi / aveva, fra il molto altro, due solitari, che ella prediligeva, e che erano veramente piú che belli, rari».
Da parte loro, le cronache aquilane si limitavano a echeggiare un chiacchiericcio infarcito di putibonde riserve mentali: «Seppe essere preveggente, e – per quanto non fosse avara del suo – poté fare dei cospicui depositi in questi nostri istituti di credito». Fu proprio in grazia di quei «depositi» che «i fratelli e la sorella da lei beneficati» ebbero modo di guadagnare una condizione nuova e migliore, dalla quale scaturì anche la “Chiodi & Capranica”, l’azienda della mobilità urbana che dopo parecchi decenni sarebbe stata municipalizzata. Ma, a petto di quell’avarissimo «per quanto non fosse avara del suo», svettano testimonianze tutt’altro che avare: «la Paolina era una ragazza in fondo buona; se le si offriva occasione di fare un po’ di bene, lo faceva molto volentieri, e molte amiche potettero sperimentare il suo buon cuore» (Il Messaggero, 15 Gennaio); «ella era anche buona, povera Paolina, di una bontà che talvolta era debolezza, ma che gli amici verso i quali si esercitava trovavano sempre adorabile» (Il Secolo XIX, 15 Gennaio).
Fu la venustà di raro fulgore che Paolina seppe trasformare in risorsa vincente, mettendola a frutto con intuizione provvida e accorta nonché con misurata eleganza. «Una bellezza non fredda, statuaria e rigida, ma simpatica, vivace, comunicativa, che súbito le accaparrava l’approvazione del pubblico, approvazione che diventava entusiasmo al suo primo sorriso, al suo muoversi pieno di grazia vivace e di una monelleria che non diventava mai volgarità. Alta, bruna, formosa, anzi addirittura giunonica di forme, con un piacevolissimo viso sempre ridente dagli occhi neri grandissimi, occhi vellutati e carezzosi, e dalle vivide labbra aperte sopra una chiostra di denti bianchissimi» (Il Secolo XIX, 15 Gennaio). Non si trattava di una mera beltà esteriore, da oca giuliva e sguaiata: «Paolina Giorgi non era una di quelle donne che offendono con la loro presenza ovunque si presentano. Era strana, altera, piena di brio, talvolta di un’ingenuità fanciullesca» (La Stampa, 15 Gennaio).
Cent’anni dopo, la dimenticata Paolina offre in qualche modo un eloquente modello alla città che fu sua e che ora, abbattuta da un manrovescio di Madre Terra ma non meno duramente colpita da tradimenti e indolenza susseguenti, ha disperata necessità di rinascere, anima e corpo. Paolina ci racconta che ogni sconfitta, per quanto ingiusta e amara, racchiude il seme della rinascita. Ci vuole coraggio e intelligenza, però, perché la determinazione a rinascere non te la regala nessuno: è sempre una conquista della volontà, individuale, come fu per Paolina, oppure collettiva, come adesso serve a tutti noi.