Articles by: Luigi Casale

  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Affatto


    Oggi esordisco con una poesia.
     
     
        SONETTO  DI  PARADISO
     
    Mi viene in sogno una bianca casetta,                    
    sull’erto colle, dentro un’aria affatto                       
    tranquilla; e il verde del colle è compatto
    e solitario, e l’ora è benedetta.
     
    Mi viene in sogno una dolce capretta,        
    che mi sta presso, e mi sogguarda in atto
    placido umano, quasi un muto patto
    ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.
     
    Volge il sole al tramonto; un luccichio
    cava dai vetri, un dorato splendore,
    della casetta su in alto romita.
     
    E tutto il dolce che c’è nella vita
    in quel sol punto, in quel solo fulgore
    s’era congiunto, in quell’ultimo addio.  
                                                                          
     
    Da “Cuor morituro (1925-1930)”  di  Umberto Saba  (1883 - 1957)
     
     
     
    Le notizie essenziali sull’autore e sulla sua pubblicazione le trovate nell’annotazione  bio-bibliografica; il resto – se vi interessa – su  Wikipedia. Ma sarebbe meglio fare un giro in Biblioteca. La poesia, per le sue caratteristiche formali, estetiche, e compositive  meriterebbe un lungo discorso. Ma non è mia intenzione commentarla qui. Almeno non oggi. Solo chiedo che ognuno la rilegga, per poter continuare a parlarne.
     
    Intanto noto – e faccio notare – che la prima lettura, quella referenziale (cioè la comprensione del testo come semplice atto comunicativo, vale a dire: capire ciò di cui si sta parlando) sembrerebbe alquanto facile. Le parole usate sono tutte parole del lessico quotidiano; e anche il registro, a parte l’effetto ritmico, mi pare un registro familiare. Personalmente, rispetto al mio lessico particolare, di  “poco usato”  trovo solo le parole  “erto” e “romita”, e … , forse, l’espressione “ne legasse” . Altro non riesco a  trovare da poterlo ritenere in qualche modo motivo di difficoltà ai fini della comprensione del piano referenziale (come ho detto).


    Certamente un altro lettore (con lessico personale e sintassi differenti dai miei) troverebbe altre parole, ed altre espressioni, estranee al suo modo di parlare. Ma tutto sommato – suppongo – non dovrebbero essercene più di due o tre, come per me, anche se collocati in altro luogo. Insomma non più di quante ne ho incontrate io.
     
    Ma allora perché propongo questa lettura? Ecco.  Per parlare dell’avverbio “affatto”, argomento di questo mio articolo. Parola che troviamo nel secondo verso della poesia.
     
    Fatta questa premessa, posso iniziare la prevista lezione di semantica. Molte parole sono generate da locuzioni o espressioni, come “marcia-a-piedi”,  “arco-baleno”, “va-te-la-pesca”, oppure  “a-fatto”, “di-fatti”, “in-fatti”, o anche  “a-punto”, “per-ciò”, (e in napoletano: “va’-trova”, “può-essere” o “può-darsi”) le cui componenti poi, una volta agglutinatesi (legatesi l’una all’altra), hanno finito anche con l’essere scritte come unica parola. Ed è proprio ciò che è capitato ad “affatto”. (Ricordo di passaggio che tutti gli avverbi italiani formati con la terminazione (suffisso) “-mente” hanno la stessa origine in questo tipo di agglutinazione; e quello che oggi è un suffisso: “-mente”, all’origine, quand’era separata dall’aggettivo, cioè prima di trasformarsi in suffisso, era un sostantivo. Era proprio “la mente”).
     
    Ora le parole elaborate a partire dalla parola “fatto” significano fondamentalmente “in maniera evidente” cioè: “stando ai fatti”, e valgono “assolutamente”, “completamente”, “del tutto” (quindi valore affermativo); le seconde, composte con “punto” o “mica” significano “per quanto poco”  o   “per quanto piccolo”. Per cui entrambi i tipi di espressioni se vengono usati al negativo, vanno a significare nel primo caso “per niente” nel secondo “neppure un poco”. Ma devono essere accompagnate da un elemento negativo chiaramente lessicalizzato.
     
    E qui potrei fermarmi. Ma allora, la poesia? Ci arrivo.
     
    Qualche anno fa in una classe liceale di fronte all’interpretazione di questo testo poetico della prima metà del secolo scorso, la totalità degli alunni (una trentina) sostennero che “affatto” avesse valore di negazione, per cui “affatto tranquilla” per essi valeva “per niente tranquilla”; né si accorgevano che con questa interpretazione il seguito della descrizione non era comprensibile, in quanto veniva stravolto tutto il senso della poesia.
     
    Questo per la cronaca. Ognuno poi, in privato, potrà fare la sua prova di verifica. Mentre io continuo la discussione. A parte l’evidente errore di lettura, i poveri ragazzi non avevano tutti i torti. La loro lingua era ancora opaca. Essi usavano segni linguistici secondo la convenzione  (sociale) dei loro modelli linguistici di riferimento. E oggi la convenzione è – o sembrerebbe essere – che “affatto” sia una negazione. Lo avvalora la televisione, lo confermano i cronisti radiotelevisivi, qualche giornalista, e addirittura degli scrittori e anche qualche professore. E, ormai, già anche i dizionari pubblicati dopo una certa data.
     
    Questo mio intervento, perciò, non pretende di modificare la convenzione, cioè il modo d’uso corrente oggi, ma vuole (vorrebbe) che ognuno – in particolare i miei amici di scuola media ai quali mi rivolgo, insieme agli emigranti che rientrano in Italia – si ponga di fronte al problema in maniera critica. Ecco la lingua trasparente! Che, per quanto riguarda questo caso, almeno ci consente di leggere, e comprendere, un testo di appena ottanta anni fa.
     
    Tutto questo ci fa capire un’altra cosa, importantissima per la comprensione del concetto di evoluzione linguistica. Cioè che, attraverso l’uso che se ne fa, le parole vanno soggette a trasformarsi, e se non sempre si trasformano sul piano fonetico o  morfo-sintattico, spesso possono farlo su quello semantico (del significato). Cioè cambiano il loro significato. Fino a rovesciarlo completamente, talvolta. Com’è il caso di “affatto”.  Che in questo momento storico si trova proprio nella sua fase di incertezza. (C’è chi lo usa in un modo e chi nell’altro). L’appuntamento è a tra una cinquantina d’anni per sapere quale sarà stato il suo esito. 
     
     
     
     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle PAROLE. Celibe, nubile


    Dei termini celibe e nubile tutti sappiamo il significato, non fosse altro per avercelo trovato scritto sulla carta d’identità in un momento della nostra vita, alla voce: stato civile. È la condizione personale del cittadino o della cittadina, adulti, pubblicamente accettata e dichiarata di fronte alla collettività, precedente il matrimonio dei soggetti interessati; e perciò ufficialmente riconosciuta (e registrata) dall’amministrazione dello Stato. (Tant’è che tra i documenti necessari per contrarre matrimonio viene richiesta anche una certificazione di “stato libero”.)


    La serie completa, che si usa trascrivere nei pubblici registri dell’anagrafe, e riportata sui documenti dello stato civile compresa la carta d’identità, è: celibe o nubile; coniugato o coniugata; divorziato o divorziata; vedovo o vedova, a secondo della situazione particolare.  Non sarà di poco rilievo notare che, contrariamente alle altre parole della serie, utilizzate per le diverse condizioni di stato civile, la coppia delle parole celibe/nubile si specializza come opposizione semantica: celibe = uomo; nubile = donna. Proprio come tante altre coppie complementari di termini della famiglia, che indicano rapporti di parentela. Celibe è l’uomo; nubile è la donna, così come: padre/madre; marito/moglie; fratello/sorella; genero/nuora, per restare nella lingua italiana. Evidentemente, prima di arrivare alla forma astratta dell’opposizione grammaticale maschile/femminile, queste parole mantengono una loro caratterizzazione in base al sesso della persona denotata, alla sua funzione specifica, alla cultura del gruppo sociale, e, per finire, alla tradizione linguistica (la pratica dell’uso della lingua o semantica storica) della comunità. Non tutte le lingue hanno la medesima caratterizzazione, le quali pur conservando le stesse parole, ne usano solo una, indistintamente per l’uomo e per la donna: basti dare uno sguardo al francese (célibataire), o ad una delle altre lingue indeuropee.  La stessa cosa succede – sempre nella lingua francese – con marié(e) (sposato) che si adatta al maschile e al femminile per indicare la persona sposata, mentre in italiano resiste ancora la distinzione tra maritata  e  ammogliato.


    Il caelebs  dei latini era l’uomo non ammogliato (anche vedovo). Ed è la forma che si conserva nell’italiano celibe.

    Mentre nubilis è la ragazza in età da marito. Da nubo (nubo, nupsi, nuptum, nùbere = velarsi, prendere il velo da sposa, sposarsi) legato a nubes (nuvola). Come dire “entrare nella nuvola”. Metafora di un certo effetto che ben si adatta ai comportamenti delle ragazze che, trovato lo sposo, sognano il giorno delle nozze. (Ma forse questa è una mia suggestione dovuta alle espressioni moderne come “essere tra le nuvole”.)


    A proposito di “nozze”, notiamo come anche questa parola derivi da nubo. Secondo lo schema: nubo → nuptus e nupta (lo sposo, la sposa) → nuptiae (le nozze).

    Tenendo ancora un piede nella lingua (e nella cultura) latina vediamo anche come i Romani denominavano lo sposarsi dell’uomo. Mentre la donna “si sposa a un uomo (nubit = prende il velo in favore di N...)”, l’uomo “si porta a casa la donna” (uxorem ducit = conduce – porta a casa – come moglie M....).


    Dallo stesso verbo duco (duco, duxi, ductum, dùcere = condurre) si sono formate anche le parole sedurre e seduzione.


    Quanto a uxorem (uxor = moglie), poi, oltre che nella parola uxoricidio (omicidio del coniuge), la troviamo nella parola della parlata napoletana ‘nzura’ (‘nzurare [uxorare] = ammogliarsi ; ‘nzurato  [uxorato] = ammogliato) usata per lo sposarsi dell’uomo. Per la donna si usa mmarità (maritarsi) come in altre regioni d’Italia.


  • L'altra Italia

    Attacca ‘u ciuccio addo’ rice ‘u patrone !

    A scadenza fissa ritornano le cronache dei contrasti ideologici di matrice razzistica delle varie tifoserie calcistiche delle squadre del nord e di quelle del sud. Le cronache si ripetono quando negli stadi si verificano incidenti, si notano striscioni stupidi, si ascoltano cori imbecilli. Ma la verità è che quella mentalità deteriore sempre cova nelle menti di quegli attori fino a quando non va a manifestarsi come sfogo di un malessere personale nelle forme che vediamo e che sappiamo; e si autoalimenta per scatenarsi poi peggiore nei nuovi atti di assurda prevaricazione, con il più completo disonore di loro artefici. Tutte quelle manifestazioni, infatti, altro non sono se non il segno evidente del ritardo culturale e civile in cui versano – e questo, bello non è ! – gli autori delle azioni sopra ricordate, di cui è piena la cronaca giornalistica.

    Si riteneva che il gioco del calcio, in mancanza di altre agenzie educative (o in sintonia con esse), potesse aiutare a crescere i supporters di tutte le squadre, aggregando simpatie e passioni campanilistiche, che comunque avrebbero finito col favorire la socializzazione; e con essa la conoscenza di altre persone, di altre città, incontrate periodicamente con lo scorrere del calendario delle gare ufficiali, in un tessuto di relazioni secondo un cerimoniale di accoglienza e di gesti di reciproca solidarietà.

    Tutto questo all’interno di un sistema – il gioco del calcio – che come sport attivo avrebbe dovuto esaltare la lealtà e il rispetto delle regole in campo, mentre come area sociologica di più ampio impegno e interesse avrebbe fornito motivazioni alla vita associativa dei tifosi, ispirandosi a elementari regole di vita (civiltà, cultura, dignità e rispetto) per tutti quelli che partecipano alle dinamiche di quel particolare flusso turistico, legato alle trasferte dei club. A questo innanzitutto servono le associazioni, i club, i gruppi, compresi anche quelli sportivi: ad evidenziare l’identità culturale degli associati, ma solo per fargli superare blocchi psicologici e ritardi di civiltà; non certo a confondere l’individualità di ognuno e annullarne la responsabilità individuale, nella informe e anonima amalgama collettiva. E invece . . .

    Di fronte ai contrasti esasperati delle tifoserie delle diverse squadre di calcio, e alle conseguenti controversie: offese, polemiche, azioni disciplinari o addirittura giudiziarie, ricorsi e contro-ricorsi, di cui è ricca la cronaca, proprio in opposizione a tutto ciò, voglio ricordare alcuni episodi risalenti alla mia esperienza personale avuta, io uomo del sud di origine e formazione, con amici e colleghi, uomini del nord a tutto tondo. Non intendo parlare di quegli stupidi comportamenti – miserie umane! – che mantengono persone che non sono capaci di relazionarsi e di confrontarsi mantenendo fermo nella mente che l’altro, chiunque sia, comunque deve essere rispettato. Di fronte a questi atti di marcata intolleranza ho sempre evitato di fare polemica, perché "a lavar la testa all’asino, …. ecc., ecc., ..."; perciò ho sempre cercato di offrire all’ottuso di turno esempi di dignità e di tolleranza. Se ci sia riuscito non so.

    Al contrario, preferisco piuttosto raccontare di quelle situazioni che hanno fatto chiarezza di pregiudizi e di comportamenti conseguenti, non proprio sereni, nella valutazione dell’altro. Nell'una e nell'altra direzione, perché, nonostante il permanere di quei pregiudizi, si era pur sempre amici o colleghi, e si continuava comunque a rimanere tali. Se pure con qualche forma di circospezione.

    Al nord, in una grande stazione ferroviaria, io ci ho lavorato. E ho avuto modo di apprezzare la precisione e il senso del dovere dei colleghi di quelle regioni. Insieme anche a qualche difettuccio. E chi non ne ha?

    In questa stazione centrale delle Ferrovie dello Stato, un giorno ero in servizio alla biglietteria dietro uno dei tanti sportelli aperti nelle ore di punta quando più numerosi sono i viaggiatori: studenti, lavoratori pendolari, turisti, viaggiatori occasionali. Si affollavano in lunghe file nell’atrio della biglietteria senza lasciarci neppure uno spiraglio da vedere di che colore fosse il cielo: un collega alla destra, uno alla sinistra, e così di seguito, a ranghi compatti, per tutta la linea degli sportelli come in una trincea, cercavamo si smaltire la massa dei viaggiatori. A sinistra avevo Menini, a destra il Titta – così chiamavamo Augusto Piubello – , e tutti e tre, come gli alti fino all’ultimo sportello, eravamo alle prese con la macchina automatica in dotazione all’epoca: la SASIB, la quale, dopo averlo ingoiato, il cartoncino rettangolare bianco, lo stampigliava per risputarlo come un biglietto ferroviario: data, destinazione, importo, validità e numero di serie. L’operatore doveva solo selezionare su richiesta del viaggiatore la città di arrivo; e lo faceva sopra un grande pannello su cui scorreva la striscia di plexiglass, diafana, con un movimento orizzontale/verticale, come se seguisse un’immaginaria coppia di assi cartesiani. Per accelerare le operazioni di pagamento, ognuno poi aveva escogitato la sua tecnica personale nel calcolare il resto da dare insieme al biglietto, visto che la maggior parte della clientela pagava con valuta cartacea di taglio elevato.

    A tutti noi sarà capitato di avere avuto qualche discussione agli sportelli pubblici su chi dovesse procurarsi la moneta spicciola, se il cliente oppure l’impiegato di servizio allo sportello. Ebbene, quel giorno in seguito alla difficoltà in cui si trovava il Titta nel dare il resto al viaggiatore, si animò una controversia, rispettosa e bonaria all’inizio, con un viaggiatore per vedere a chi dei due toccasse andare a procurarsi la moneta contante. Nonostante le iniziali maniere garbate della discussione, nessuno si decideva a cedere adducendo sempre nuove argomentazioni a sostegno della propria tesi. Alla fine perdendo la pazienza il viaggiatore, che fin allora aveva parlato sempre in italiano senza la minima inflessione dialettale sbottò, dicendo nel più schietto napoletano: "Aggio capito: attacca 'o ciuccio addò rice 'o patrone!". Il Titta restò perplesso, e senza comprendere neanche una parola credette che il simpatico viaggiatore volesse offenderlo.

    Ma quella espressione napoletana era di mia conoscenza, come pure mi era familiare la parlata; però ciò che particolarmente mi meravigliò fu il fatto che il tipo avesse sanzionato con quella sentenza un battibecco il cui processo io non avevo potuto seguire in tutti i suoi passaggi durante tutta la contrastata operazione di acquisto del biglietto. Mi stupiva inoltre l’esitazione del Titta che a quelle parole, incomprensibili per lui e credute un improperio, non sapesse trovare una risposta, né sapeva perciò come reagire. Allora per toglierlo dall’impaccio mi sporsi verso il suo sportello fino a farmi vedere dal viaggiatore all’altra parte del vetro, al quale prontamente e perentoriamente risposi: "Sono del tutto d’accordo! Ma anche lei dovrà convenire con me che è sempre meglio attaccare 'o ciuccio addò rice 'o patrone, anziché attaccare 'o patrone addò rice 'o ciuccio. O no?" . (Traduzione: E’ sempre meglio legare l’asino dove dice il padrone, che legare il padrone dove vuole l’asino)

    E la cosa si sciolse con una risata generale. Allora il signore, a sua volta sorpreso della risposta, andò a procurarsi la moneta spicciola.

    La cosa strana si verificò dopo, quando, rimasto solo col Titta, egli mi chiese che cosa avesse detto quel signore e che cosa gli avessi risposto io. Allora, sentita la traduzione che gli feci delle espressioni napoletane, lui mostrò meraviglia che io, napoletano, mi fossi schierato contro un napoletano prendendo le difese di un milanese. Però ancora più grande fu il mio stupore di fronte alla sua meraviglia.

    E ce ne volle per fargli capire che, data la situazione e valutate le ragioni dell’uno o dell’altro, non avevo esitato a mettermi dalla parte di chi secondo me, a torto o a ragione, sembrava essere nel giusto. Milanese o napoletano che fosse.

  • Opinioni

    Il gioco delle tre carte


     Tutti voi conoscete il gioco delle tre carte.

    Scelta la carta da puntare, le tre carte, capovolte, vengono adagiate sul tavolo lasciando al centro la carta designata. Il giocatore, con abile movimento delle mani, le sposta velocemente cambiandole di posto. 

     

     

    Ma, mentre la persona che conduce il gioco ripete più volte questa operazione, chi guarda è convinto di seguirle, e crede di non perder di vista la carta vincente, cioè quella che è stata indicata e che dovrà essere riconosciuta al momento in cui il giocatore lascia cadere, di nuovo immobili, le tre carte sul tavolo, sempre capovolte. A questo punto tutti credono, convinti come sono di non averla mai perduta di vista, di poterla indicare con sicurezza.



    Ma – sorpresa generale! – la quasi totalità delle volte nessuno la indovina. Potrebbe indicarla solo chi, puntando a casaccio una delle tre carte, in maniera aleatoria e per puro caso, avesse la sorte di individuarla; ma la posta in gioco – a parte la somma di denaro, cioè la puntata della scommessa, soprattutto il fatto di mettere in discussione la propria sicurezza di fronte ad una apparente certezza – è alta e nessuno vuole rischiare quello che crede il certo in cambio di ciò che ritiene fortuito. 


    Così, per la stragrande quantità dei casi, nessuno indovina e nessuno degli avventori vince. Ma solo chi tiene il banco. Evidentemente il giocatore di mestiere (che già potremmo chiamare un accattone) alla sua abilità manuale di prestidigitazione aggiunge la sua capacità di manipolatore delle coscienze attraverso questo meccanismo psicologico che guida la scelta degli avventori (che egli conosce bene). Prontezza di mani ed astuzia sono le sue armi per turlupinare i poveri gonzi che si fermano a giocare con lui.

    Fin qui, se volete, è tutta abilità; anche se cattiveria ed inganno stanno alla base delle intenzioni di chi pratica questa attività, facendola diventare criminale. Ciò, spesso, ha fatto sentenziare alla giurisprudenza che nella fattispecie non sono ipotizzabili l’inganno e la truffa. Al massimo, la circonvenzione di incapace, se dal gioco, specialmente quando diviene coatto, dovesse venire un rilevante danno economico al malcapitato.

    Sta di fatto però che di fronte all’ingenuo malcapitato si trova il pervertito malintenzionato. E, cosa più grave, in assenza di un regolamento condiviso ed, eventualmente, della possibilità di un arbitrato. Allora tutto diviene possibile al giocatore delle tre carte: trucchi e inganni fino alla prevaricazione e alla violenza, specialmente, come sempre capita, quando è spalleggiato da complici sodali. Talché possiamo parlare, in ogni caso, di vere bande di malintenzionati, e – di conseguenza – anche di associazione a delinquere. 

     

    Un anno mi toccò di accompagnare a Napoli in gita scolastica, il cosiddetto viaggio d’istruzione, un gruppo di studenti di una città del Nord dove insegnavo. Non era una delle mie classi, ma fui scelto perché favorito probabilmente dal fatto di essere io originario di quelle parti, per sostituire un collega ammalatosi all’ultimo momento. Intimamente la cosa non poteva che farmi piacere, soprattutto perché mi offriva l’occasione di salutare mia madre che a quell’epoca, date le distanze geografiche, vedevo non più di una volta all’anno. 


    Tuttavia mi creava qualche disagio l’incertezza, il rischio, lo stress, di passare una settimana con una scolaresca (non mia) fuori dall’ambiente scolastico, in una città a più di mille chilometri di distanza dalla nostra abituale residenza. Anche se con i ragazzi mi sono trovato sempre bene sia dentro che fuori dalla scuola, anche quando da parte loro tendevano a mostrare qualche atteggiamento di intemperanza giovanile.

    Così, per rispetto all’altro insegnante accompagnatore cui era affidata la responsabilità maggiore del viaggio d’istruzione, e anche per essere presentato ai ragazzi, che pure, nella piccola città dove tutti si conoscono, di me sapevano pressoché tutto e con i quali già mi era capitato altre volte di fermarmi a parlare, la settimana precedente alla data della partenza volli passare in quella classe per essere presentato ufficialmente come secondo insegnante accompagnatore, nominato per quella loro uscita culturale.

    Nel programmare la visita alla classe mi ero preoccupato di chiedere preventivamente al collega se a parer suo avesse qualche motivo di preoccupazione circa il comportamento che i ragazzi potessero avere durante il viaggio e il soggiorno a Napoli. Il collega me li presentò come ragazzi affidabili; solo mi segnalò che aveva sentito dire in qualche crocicchio che i ragazzi avevano intenzione di fermarsi a giocare al banchetto delle tre carte, nella sosta a Roma, dove l’anno precedente alcuni di essi erano stati “spennati”, oppure direttamente a Napoli, per rifarsi delle perdite “incassate” l’anno prima.

    “Bene!” – dissi  al collega – “Hai fatto bene a dirmelo”.

    Così la mattina che entrai in classe per presentarmi e fare le mie raccomandazioni e mettere in chiaro i nostri rapporti, questa fu l’essenza del discorso:

    Cari studenti, voi mi conoscete, e sapete che la Preside mi ha designato come secondo accompagnatore in sostituzione del collega venuto meno per motivi personali. Sono sicuro che andremo d’accordo. Il viaggio che è una vacanza dalla scuola, ma non sospende l’impegno dell’attenzione, lo spirito di ricerca e l’interesse culturale, perciò richiede la stessa tensione morale che manteniamo durante le giornate di normale attività didattica. 




    Poi, anche se comporta un po’ di stanchezza, ci riserva tuttavia il legittimo piacere della vacanza e dell’evasione. Perciò esso potrà anche risultare divertente, senza perdere però la sua valenza educativa e culturale; quindi la sua finalità di apprendimento. Vedrete che andremo d’accordo. Voi sarete liberi di fate tutto quello che volete …… di quello che si può fare, però. Basta essere chiari nelle intenzioni e aperti nelle comunicazioni. Cercheremo di stare insieme senza perderci di vista; di avvertire sempre quando ci allontaniamo; di guardarci a vicenda negli spostamenti; e di non rimanere mai isolati, in particolare le ragazze e i minorenni, se ve ne sono tra voi.

    Così, o a Roma, oppure quando saremo arrivati a Napoli, andremo a giocare al gioco delle tre carte. Mi raccomando, non portate molti soldi. Perché dovremo vincerli giocando. Infatti, la mattina presto, quei signori che intrattengono i viaggiatori col gioco delle tre carte, prima di partire da casa si fanno consegnare dalle rispettive mogli una borsa piena di soldi, allo scopo di poter trascorrere la giornata al loro “posto di lavoro” e poter soddisfare tutte le vincite che i viaggiatori dovessero fare. Anzi, se qualcuno di loro se ne dimentica – può capitare, no? – è la moglie stessa che lo richiama ricordandogli di prendere il denaro:

    - “Genna’, non ti dimenticare di prendere i soldi, perché se vengono gli studenti dal Nord Italia, e vincono al gioco delle tre carte, come fai a pagargli la vincita? Ecco. Portati questi tre o quattro milioni, sperando che ti bastino. Poi domani, ci penseremo”.



    E così tutti i giorni.

    Vedete come sono diverse dalle altre mogli, le mogli dei napoletani ?! Invece di chiedere soldi ai mariti, glieli offrono per il gioco delle tre carte.

    I ragazzi cominciavano a guardarsi l’un l’altro. E io dovetti chiedergli: “Perché? Non mi credete?”

    Credo che adesso voi vi stiate domandando: “Ma come? questi vanno a lavorare e devono portarsi da casa tre o quattro milioni di lire (all’epoca contavano ancora le lire) per darle ai vincitori? E le mogli glielo permettono e gli danno pure i soldi? E fino a quando potranno resistere?”  Questi erano, all’incirca, i pensieri di quei studenti. O in tutto simili a questi. Mentre io continuavo la mia parodia.

    Ma quando mi resi conto che erano maturi abbastanza, ben cotti nel loro brodo, gli chiesi: “Ma perché, voi che cosa credevate?” Allora dovetti aggiungere che – chiaramente – questa era una delle cose di cui avevo parlato prima, che non si potevano fare. E che comunque anche se in futuro avessero voluto tentare la fortuna in questo modo, che stessero bene attenti alla loro incolumità, perché quelle bande sono bande di delinquenti.

  • Arte e Cultura

    Alla scoperta delle parole. Morfo-sintassi e semantica


    Dover iniziare una collaborazione sistematica sulla scia del consenso registrato in seguito alla pubblicazione, su un giornale o altro “media”, di alcuni vocaboli come computer, erario, fisco, moneta, cafone, idiota, o cuccetelle, eccetera, ecc., a primo acchito mi ha condotto ad un bivio, ponendomi di fronte un dilemma: continuare ad inventarmi storie piacevoli, occasionali ed estemporanee, godibili e accattivanti fin che volete, intorno al significato delle parole? Oppure darmi io stesso una regola, un metodo, al limite: una consequenzialità, nella scelta dei soggetti? Quanto meno una visione programmatica!


    L’incertezza è durata poco, come i due asini della vignetta che, legati ad una stessa corda, si muovono in direzione opposta per raggiungere i due mucchi di fieno sistemati uno a destra e l’altro a sinistra della scena: finché tireranno uno da una parte e l’altro dall’altra difficilmente raggiungeranno il fieno. Mentre solo quando avranno capito che mettendosi d’accordo e “muovendosi insieme”, accoppiati, nella stessa direzione prima da una parte e poi dall’altra, ... solo così potranno vedere realizzata la loro aspirazione e raggiunta la loro meta.


    Nel mio caso – asino terzo, tra i due della similitudine – l’accordo era che comunque, pur trattando io un vocabolo alla volta, le inferenze di teoria generale della lingua e i procedimenti analitici utilizzati alla riscoperta del “significato perduto” avrebbero costituito la base teorica le cui finalità mirano sempre ad un arricchimento di competenza linguistica. Proprio la finalità che mi sono dato nell’intraprendere questa attività: quella di fare educazione linguistica.Arrivato perciò alla decisione sulle parole da proporre mi sono detto: perché non cominciare dalle parole che più frequentemente si utilizzano per spiegare i fenomeni della lingua? E così ho fatto.


    Apriamo, allora, questo nuovo ciclo di “lezioni”, se così vogliamo chiamarle, cercando di spiegare il significato delle parole che ricorrono nella espressione “morfosintassi e semantica nella evoluzione delle parole” che in un certo senso possiamo anche considerare il soggetto della nostra ricerca e il titolo della stessa rubrica.


    Spiegherò quindi – hic et nunc (qui e adesso) – le parole “morfologia”, “sintassi” e “semantica”, dando per scontato che le altre due: “evoluzione” e “parole” siano abbastanza trasparenti alla maggior parte dei lettori.


    “Morfo-sintassi”, da me usata, è una parola composta da “morfologia” e “sintassi”. Tutt’e tre: morfologia, sintassi e semantica, sono branche della grammatica e quindi delle sezioni, o tagli, o punti di osservazione, sulla base dei quali si può studiare una lingua.


    Sono tutte parole di origine greche, come d’altronde “grammatica”, conservate fino a oggi quasi in tutte le lingue. La morfologia, in quanto studio (loghìa = discorso su ...) della forma (morfé = forma o struttura) delle parole, ha per oggetto la parola e i suoi elementi strutturali [vedi anche: a-morfo e smorfia ].


    La sintassi (syn-taxis = insieme + metto in ordine, schiero, organizzo) è lo studio dei rapporti tra le parole all’interno del testo linguistico-letterario.


    La semantica (semantikòs = ... che riguarda il significato) si occupa dei significati delle parole [vedi anche: semaforo = portatore di segno o segnale].


    Una semplice nota integrativa sulla formula “morfo-sintassi”: pur avendo un ambito definito e una propria autonomia all’interno di ogni singolo campo pertinente, ogni disciplina – specialmente quelle della linguistica – vengono studiate in relazione l’una dell’altra, in quanto ogni conquista (o risultato teorico) dell’una o dell’altra interessa anche quella più vicina. Nel caso della morfologia e della sintassi è evidente che le parole mutando la loro forma mutano anche di significato (semantica) e, mutando di significato, mutano (o richiedono) anche un tipo di relazione diverso con le altre parole “schierate assieme” (sintassi) nel testo linguistico.

    A questo punto diventa trasparente per tutti – lo credo e lo spero – il senso della espressione: “morfo-sintassi e semantica nella evoluzione delle parole” (o – più in generale – linguistica), che ho scelto come titolo di questo articolo: primo di tutta la serie di cui vorremmo occuparci.

  • Arte e Cultura

    Le Parole di Luigi. Idiota e cafone




    IDIOTA
    Se consulto il vocabolario italiano, il primo che mi capita sottomano (Dizionario della lingua italiana, di Devoto e Oli), leggo alla voce idiòta: “Caratterizzato da una vistosa e sconcertante stupidità” ; ... e cose simili (più o meno). La definizione del lemma si conclude, poi, “… [ …dal greco: idiòtes , individuo privato senza cariche pubbliche … ]”. Faccio notare di passaggio che nella stessa pagina del Dizionario si trovano parole come idiòma e idiotismo, che proprio niente hanno a che vedere con la stupidità. Idioma è una lingua particolare, propria di un gruppo di parlanti ben definito (diciamo: una lingua nazionale oppure un dialetto); e idiotismo è una forma espressiva particolare, tipica di un gruppo di parlanti molto ristretto (corrispondente – potremmo dire – o a un quartiere o a una sola città, se non addirittura a un gruppo familiare).  
     
    Allora vado a consultare un vecchio vocabolario di greco antico, il buon Bonazzi (“Dizionario Greco – Italiano, compilato ad uso delle scuole della Badia di Cava dei Tirreni da S. E. l’Arcivescovo di Benevento, D. Benedetto Bonazzi O.S.B., professore pareggiato nella R. Università di Napoli”).Meritava proprio questa citazione! Ricca di informazioni e di storia. L’altro vocabolario di greco antico, ancora in uso nelle scuole (che negli anni ha soppiantato il Bonazzi, monaco benedettino), è il Lorenzo Rocci (religioso della Compagnia di Gesù). Dicevo: vado a consultare lo storico vocabolario greco e concludo – mi pare di capire – che l’”idiòtes”, presso i greci era una persona che in un certo senso viveva da solo, badava ai fatti suoi, non si curava di partecipare alla vita pubblica e alla gestione dello Stato. E voi, la chiamate stupida una persona tale?
    Intanto oggi utilizziamo la parola col significato negativo dato dal Devoto-Oli, così come essa ci è arrivata dai greci dopo essere passata nella lingua latina; e prendiamo atto dell’enorme scivolamento di significato che essa ha dovuto subire per arrivare fino a noi.
    Però, a ben riflettere, chi è più idiòtes (che pensa ai fatti suoi!) oggi? Chi si tiene lontano dalla politica o chi vi si butta e ci sguazza dentro ?
     

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    CAFONE
    A chi piacerebbe essere chiamato cafone?
    Eppure, nonostante ciò che si crede, non c’è niente di moralmente degradante nella parola cafone! Lo spiega bene Ignazio Silone (1900-1978), nella prefazione al romanzo Fontamara (1933), dove sceglie per sé il ruolo del narratore, un cafone emigrato in Svizzera, al quale altri cafoni provenienti dalla piana del Fucino, hanno raccontato la storia che egli poi si accinge a “narrare fedelmente” nel romanzo “Fontamara”. In effetti questa parola è connotata sotto l’aspetto sociologico e non dovrebbe avere nessuna implicazione di carattere morale, come ho detto. Però, attraverso l’utilizzazione capziosa, per non dire maliziosa, che ne fanno i rappresentanti della classe egèmone, cioè i ricchi borghesi, le si dà un significato di tipo socio-economico o addirittura morale, falsando completamente il suo originario significato.
     
    Silone, dando al testo la forma del genere autobiografico di prima e di seconda mano (il narratore che riporta il racconto dei personaggi narranti [come fa Manzoni col manoscritto]) riscatta la condizione del cafone, facendo vedere come se qualche discriminante, civile o morale, esiste nei rapporti sociali in termini di educazione e di umanità, questa è assolutamente svantaggiosa per la classe dominante: il prete, il farmacista, il maestro, l’avvocato. Almeno, lo era una volta. Si spera! La povertà non è una vergogna, come non lo è la condizione di cafone. Spesso è più vergognoso il comportamento dei ricchi e dei potenti. Infatti, cafone, etimologicamente (cioè, in base al suo significato più antico), non significa né povero, né contadino, né incolto, come spesso siamo portati a credere. Questo lo si evince anche dal discorso che ne fa Silone in tutto il già citato romanzo.
     
    All’origine della parola c’è un vocabolo greco, tipico del meridione italiano, dove più a lungo si è conservato l’uso del greco attraverso la presenza dell’influsso della cultura bizantina. Kakòphōnos (plurale: kakòphōnoi), sono quelli che parlano male una lingua. Attenzione! Questo è il giudizio che ne danno quelli che “ritengono” di parlarla bene, senza rendersi conto che la loro è una lingua completamente diversa da quella dei contadini. Come dice Silone. E’ la classica scena delle rappresentazioni stereotipate di una realtà di paese, vista tante volte in certi film, in cui il prete, il maestro elementare, il farmacista si collocano al di sopra del livello del popolo per una loro presunta prerogativa di parlanti colti.
     
     
     
     


  • L'altra Italia

    Parole vecchie e parole nuove. Non tutti le capiscono alla stessa maniera


    Molte volte mi chiedono, e io stesso me lo domando, perché non mi dedichi alla esplicitazione di commenti e riflessioni su: eventi, fatti, azioni e conseguenze, dell’attualità politica. Nell’assumermi l’onere di collaborare al sito www.liberoricercatore.it come esperto di etimologia, avevo precisato la finalità educativa di questa mia ricerca: “la trasparenza linguistica per comprendere meglio le realtà”. Obiettivo che avevo fissato a me stesso prima di consegnarlo ai lettori che avessero voluto seguirmi. A me personalmente sarebbe bastato che le persone aprissero gli occhi (e la mente) per comprendere da soli ciò che ci si muove intorno. Un po’ come fanno i bambini (ma in effetti lo fanno per natura tutti gli uomini, fino agli studiosi e agli scienziati: i ricercatori).  


    La gratificazione, i lettori più vicini – tutta gente del popolo – se l’aspettavano dalla proposta etimologica delle parole napoletane, specialmente di quelle che non trovano riscontro di corrispondenza morfologica e strutturale nella lingua italiana. E infatti, era insistente la loro richiesta. Ma soddisfazione maggiore – ne sono convinto – avrebbero provato proprio in quelle parole della lingua italiana, forse le più semplici e familiari, inflazionate dall’uso nel loro valore semantico, specialmente quando esse entrano nel discorso per moda, per eccentricità o per piaggeria. Quanto ad accontentarli nella scelta di parole dialettali, o addirittura vernacolari, ho cercato di fare del mio meglio.


    Purtroppo però, la mia scarsa applicazione metodologica, ma soprattutto la mancanza di adeguati strumenti necessari alla ricerca – la quale se mi affascina, tuttavia non è attualmente la mia occupazione principale – mi hanno fatto preferire, per la maggior parte della produzione letteraria, il lessico della lingua italiana. Erano fatti salvi comunque, da una parte l’intento educativo, dall’altra la promessa di occuparmi di qualcosa di più importante e di più significativo per la vita sociale, politica e morale. Ora rileggendo alcuni lemmi da me proposti in questi quattro anni di attività, mi accorgo che quell’intento originario, benché non sempre vigile in tutti gli articoli pubblicati, ha in qualche modo riscattato il mio atteggiamento apparentemente di disimpegno.


    Rimane perciò ancora la promessa, la quale nell’attesa di essere rispettata e riconosciuta sempre valida, si anima già in questa mia ulteriore pagina: questa, presente. A gennaio del 2013 il presidente del consiglio era Mario Monti. Egli parlava di “agenda”, mentre la Merkel parlava di “compiti a casa” per l’Italia. La Repubblica dedicò un paginone alla parola “agenda”: non si capì bene se perché fosse stata trovata nuova e originale, o perché sembrasse strano l’uso che se ne faceva. Mentre ai più sfuggiva la connotazione negativa che la stampa italiana volle dare alla parola “compiti”, da farla sembrare ancora oggi una cosa indegna di persone mature. Su “agenda”, volli intervenire anch’io; ma solo per la salute (nel senso di salvezza, come dire: salvarli dalla confusione dei linguaggi) dei miei pochi lettori.


    Nella trattazione del lemma parlai anche del significato di “compiti”, senza approfondirne l’origine semantica. Ma un anno dopo, quando mi è capitato di dover parlare di “computer”, ho dovuto richiamare in quel caso in quanto appartenente alla stessa famiglia di parole, anche il termine “compiti”. A distanza di un anno, cambiati gli attori, la scena è la stessa; perché identico è rimasto l’atteggiamento, fondamentalmente permaloso e diffidente, della politica italiana verso l’Europa e verso quelli che ne hanno a cuore il destino (www.liberoricercatore.it/cultura/pilloledicultura/computer ). Perciò, ora, ripropongo la rilettura di quanto andavo scrivendo l’anno scorso, invitando i nuovi lettori a rileggersi – se ciò non risulta troppo oneroso – anche il lemma computer di più recente pubblicazione.  

    Inizio della citazione.

    “Pillole di cultura (“Agenda” di Luigi Casale) - Faccio in tempo a parlarvi di agenda? Certo, avrei potuto farlo prima! Considerato l’uso diffuso della parola specialmente negli ultimi tempi. Ma dopo che anche il quotidiano “la Repubblica” (giovedì, 3 gennaio 2013) ha dedicato un paginone alla parola (nello spazio: “R2-DIARIO di Repubblica”), non posso esimermi. Perciò nel rispetto dei miei quattro lettori non mi tirerò indietro. Anche se la riflessione a più voci presentata sul giornale la Repubblica – suggerita dalla attualità della formula “agenda Monti” – ne spiega l’uso e il significato nel linguaggio della politica. Il mio intento resta comunque fedele alla affermazione posta a cappello di questa rubrica. Ciò, per non lasciare l’affezionato mio lettore, desideroso di addentrarsi in un più personale percorso di lettura della parola, privo di quel metodo che nella sua modestia appare più vicino, più quotidiano, più familiare: tutto nostro, insomma.


    Nella pratica noi sappiamo che cosa sia l’agenda: un libro, un quaderno, un brogliaccio, dove vengono annotati gli appuntamenti, le date importanti, le cose da fare; oppure dove sono fissate quelle annotazioni di carattere personale di cui vogliamo lasciare memoria allo scopo di poter ricostruire in futuro la nostra storia personale. Questa seconda utilizzazione avvicina l’agenda a quell’altro libretto che chiamiamo anche diario. Per l’esperienza che ne abbiamo, potremmo dire allora che l’Agenda (quella che in questo inizio d’anno abbiamo ricevuto in dono specialmente da Banche, Assicurazioni, Uffici di rappresentanza, Ditte e Società di servizi) è più professionale, destinata agli adulti, o per lo più a persone di un certo impegno e responsabilità.


    Il Diario, invece, scolari e studenti ce l’hanno nella cartella scolastica; dove annotano insieme agli impegni giornalieri di scuola anche i compiti assegnati, da svolgere a casa. Le due cose potrebbero però ridursi alla medesima funzione, compreso anche il lavorio quotidiano di ricerca interiore fatto giorno per giorno attraverso la registrazione del vissuto: incontri, emozioni, fantasie, riflessioni, decisioni, annotazioni per memoria, ecc. “Diario” – forse già ne abbiamo parlato in altre occasioni – è un aggettivo (poi sostantivato: “il diario”) derivato da dies = giorno; perciò l’etimologia della parola mette in evidenza una rappresentazione del tempo cadenzato a ritmi giornalieri.


    Mentre “agenda” è un’antica forma di participio (perdutasi nella lingua italiana!) che la grammatica latina ci fa chiamare gerundivo. In particolare: agenda, dal verbo ago = faccio, è il nominativo plurale neutro del gerundivo latino, e significa “le cose che debbono essere fatte”. Perciò la parola, divenuta in italiano – come nome del libricino – un sostantivo femminile singolare, mette in evidenza le azioni programmate, le scadenze, tutte cose che, una volta svolte, diventano “fatte” (i fatti, gli avvenimenti); cioè “acta” (sempre da “ago”), per dirlo con la corrispondente parola latina. Sia il politico che lo scolaro, quindi, a seconda che chiamino agenda oppure diario il loro libro immaginario delle cose da farsi – o il brogliaccio concreto su cui le annotano – si riferiscono ad un programma definito di “compiti” (ricordate l’espressione della Merkel? “L’Italia deve fare i suoi compiti!”). Ma la parola “compiti” non significa necessariamente: “cose assegnate da altri”.


    Ma più esattamente: “cose che devono essere portate a termine (compiute)”. In francese la parola per indicare la stessa cosa è: “devoirs” (calco delle parole italiane: doveri o debiti; cioè “cose dovute, che si devono fare o dare in restituzione”). In conclusione: solo chi non conosce la portata delle parole (specialmente quando c’è di mezzo la traduzione da una lingua all’altra) non capisce. Potenza della trasparenza! Mentre chi è in malafede fa finta di non capire. (Luigi Casale per www.liberoricercatore.it )”. Fine della citazione.

    Chi ha orecchie da intendere .........  

  • L'altra Italia

    "Cuccetelle e scazzuòppoli” ... e Torre Annunziata


    Talvolta mi ritrovo straniero tra la mia gente. E non perché, in qualità di emigrante, ogni volta che torno a Torre sono sempre di meno le persone di mia conoscenza e tante, tantissime, quelle che non avevo mai viste prima; ma perché, rientrando, non ne riconosco più la lingua. Sì, ne conservo la cadenza, ne ho mantenuta l’inflessione, però non sempre riconosco i vocaboli. Tuttavia, per aver vissuto lontano lunga parte della mia vita, mi accorgo di conservare un patrimonio di parole che ormai sembrano perdute ai miei concittadini.

    Ricordo che da ragazzo quando la mamma faceva la pasta in casa – e a casa nostra capitava spesso – e qualche volta ne inviava un cartoccio anche alle sue sorelle e alle stesse sue commarelle, noi, il tipo più diffuso e più semplice da prodursi, le cuccetelle, le chiamavamo proprio “cuccetelle”. E così la famiglia della nonna da cui forse ci veniva la denominazione di questa pasta tanto facile da preparare; ma che richiedeva una grande abilità che solo il tempo e la pratica potevano fornire. E la città era piena di produttori di pasta alimentare, artigiana e industriale: definita tale solo per la quantità che usciva dalle trafile dei pastifici, perché per il resto il prodotto era sottoposto allo stesso procedimento. Mentre quella “artigiana” era piuttosto “a mano”, e casalinga.

     
    L’impasto, affusolato in spessi cordoni, era fatto solo da semola di grano duro doppio zero e acqua tiepida; la semola, la compravamo sempre e solo o alla S.A.E.M.P.A. oppure da Cutigniello (Ditta Mulino e Partificio Gallo) più vicino a casa nostra. Si tagliavano questi cilindri allungati in pezzettini, i quali, nello stesso tempo che la lama del coltello li separava, venivano resi a forma di piccoli cubi: il tempo di una leggera stagionatura all’aria, ed ecco che, schiacciati e adattati sulla estremità del pollice, … u vi’ lloco! … “a cuccetella” era pronta da poggiare sul panno bianco accanto alle altre, fino a farne uno o due chili, a seconda della necessità: più spesso la minima quantità giusto per la cottura giornaliera della famiglia.
    Tante piccole cucce (crani, teste, pelate), perciò cuccetelle, distese sulla tovaglia, il tempo che si asciugassero. Di mio padre che a partire dai suoi vent’anni fu calvo, in famiglia si diceva scherzosamente e simpaticamente che avesse la cuccia. Perciò oggi che anche la lingua napoletana si è appiattita su quella toscana, le cuccetelle si dovrebbero chiamare, tutt’al più, cappelletti. Ma quello che non capisco… perché orecchiette? Ma poiché “cuccetelle” si chiamavano non solo nella nostra famiglia, ma anche presso i vicini di casa, e – suppongo – così in tutta la cittadina di Torre Annunziata, allora io continuo a chiamarle cuccetelle, anche se non l’ho trovato ancora mai scritto sulle confezioni in commercio. Quanto all’etimologia della parola, l’ipotesi è la seguente. Cuccetelle diminutivo di cuccia (testa rasata); cuccia da coccia, a sua volta per metafora, dal latino cochlea (conchiglia).

     
    * * *


     
    La stessa cosa mi capita con la parola “scazzuòppoli”, con cui noi torresi indichiamo (o meglio, indicavamo) gli gnocchi, pur sapendo che nelle stesse regioni del sud dell’Italia li chiamano (e li chiamavano) “strangulaprieviti”, tradotto poi in fiorentino con “strangolapreti”: e qui la fantasia popolare si è sbizzarrita a creare leggende intorno all’ingordigia di preti e di frati, a cercare di giustificare “a posteriori” la strana denominazione di una prelibatezza che probabilmente all’origine non doveva essere semplice impasto di semola e farina. Forse, come molto più ragionevolmente dovette intuire il nostro Mario Guaraldi, l’origine della parola sta nel nome bizantino – lingua conservatasi più a lungo nell’area meridionale della Penisola, non solo per il suo naturale sostrato di lingua greca, ma anche per il prolungato influsso per ragioni politiche e geografiche della corte di Costantinopoli – con cui i locali chiamavano gli ghocchi: nome ricostruito sulla base dell’espressione greca "stràngalo prépontov", arrotolo convenientemente.

     
    Quindi, anche strangolaprieviti, per quanto fantasioso a causa delle leggendarie allusioni alla casta, a me risulta un termine importato; allora, metafora per metafora, io, gli gnocchi, i piccoli manufatti di semola e farina senza forma definita (con aggiunta di fecola di patata), realizzati col semplice arrotolamento con leggera pressione di uno o due dita, continuerò a chiamarli col termine familiare di scazzuòppoli. Infatti la parola mi sembra proprio adatta alla forma dello scazzuòppolo. Anche se poi questa soluzione personale, che altro non è che continuità di una tradizione, mi presenterà qualche problema per ricostruirne l’etimologia. Chi però la parola la usa in maniera corrente, sebbene in altri contesti, non avrà difficoltà attraverso alcuni passaggi analogici a riconoscere alcuni tratti semantici presenti in essa, applicabili anche agli gnocchi.
    Si parte da scazzimma: cispa. Questa è prodotta normalmente dagli occhi; in quantità notevole, quando essi sono affetti da congiuntivite. Mentre scazzare, almeno per noi – parlo sempre del medesimo gruppo di parlanti dell’area di Torre Annunziata – è stuzzicare o scrostare secrezioni biologiche, più o meno secche, dalle parti delicate del corpo; da cui anche il più generico scazzellare (scollare, separare, isolare), il cui contrario sarebbe azzeccare. (Quest’ultimo termine mi costerà un ulteriore approfondimento). Quindi se scazzimma equivale a “caccola biologica”, analogia a parte, scazzuoppolo può benissimo essere il pezzetto di pasta fresca, tagliato e “arrotolato o strascinato a dovere”, ma senza una sua forma determinata.


  • L'altra Italia

    Storie e parole. Il Computer


    Molte delle parole che usiamo sono di importazione. Ma fino a che punto? Prendiamo in considerazione il termine computer. Prima di arrivare a computer noi siamo passati per calcolatrice, poi calcolatore; in seguito, attraverso elaboratore e cervello elettronico, prima di chiamarlo definitivamente PC (personal computer), ci siamo fermati per qualche anno a computer. E mi fermo qui, perché tutto quello che è venuto dopo è rimasto fuori dalla mia portata, e quindi fuori dalla mia tasca.


    Personalmente mi sono fermato al “portatile” (il PC), e non mi sono ancora adattato al “tascabile”. Quindi, “computer” passa per parola inglese. E certamente è una voce del lessico inglese. Ma non è di origine anglo-sassone, in quanto fu importata sull’Isola dalla Francia. Come tante altre, in quella stessa determinata epoca storica. E la Francia – si sa – è di lingua romanza, cioè, come l’Italia, la Spagna e il Portogallo, ha una lingua che deriva dal latino.

    “Conter” e “compter” sono infatti verbi francesi e derivano dall’unico verbo latino computare. Essi corrispondono in italiano, uno a “raccontare”, l’altro a “contare”. Quasi a dire: lingua e ragionamento, parole e numeri. Sentimento e ragione. Fantasie e certezze. Se vogliamo riferirci agli schemi scolastici: lingua materna e matematica. E come si diceva una volta: “leggere, scrivere e far di conto”.  E ancora: classico e scientifico, scienze umane e scienze esatte. E qui rischiamo di non finirla più. Col pericolo di aprire la vexata quaestio (la tormentata questione), la eterna controversia. Che, stando alla scelta linguistica – che possiamo desumere dall’origine etimologica del verbo “computare” – sembrerebbe che i Romani avessero superato (o probabilmente mai assolutamente sollevata) se è vero che l’originario latino “computare” significa esattamente le due cose, indifferentemente.

     
    Infatti computare è formato da cum+putare. Puto è il verbo che ha alla radice l’idea che noi esprimiamo col verbo re-putare (ritenere, stimare, valutare) rafforzata dalla preposizione cum (insieme), che indica la complessità del giudizio o più probabilmente la molteplicità delle soluzioni possibili.

     
    Computare quindi è: contare e calcolare; ma anche leggere e raccontare. In ultima analisi “valutare attentamente e giudicare”.

     
    Ma per restare dentro la lingua italiana che a noi, parlati competenti, più facilmente potrà mostrare l’evidenza di certe comparazioni semantiche, (cioè, ci consente più agevolmente di raggiungere la sospirata trasparenza) vediamo quante parole derivano dal verbo computare (o compitare, una variante che col tempo si è specializzata, spostandosi di significato). E in quale area semantica esse si trovano.

     
    Oltre ai generici “contare” o “il conto”, vi sono computisteria, contabile, contabilità. Mentre compitare (che va a significare: leggere in maniera sostenuta puntualizzando sillaba per sillaba) contempla “compito” e “compitazione”, e accoglie nella sua specifica area semantica anche “racconto”.

     
    Per finire una spiegazione anche della parola “calcolare” che noi usiamo come corrispondente del latino “computare”. Calcolare deriva da calculum, che significa pietruzza o più esattamente “piccolo calcare”. (Proprio come i calcoli della cistifellea!)
    Perciò la parola “calcolare” nasconde la prima idea del computer, cioè quella di un ragionare con l’aiuto di un “mezzo materiale”, direi quasi meccanico, le pietruzze. Il pallottoliere primitivo. La prima macchina calcolatrice. Il primo cervello artificiale, a cui affidare la memoria elementare delle primitive operazioni di calcolo aritmetico.
     


  • L'altra Italia

    Casale Corte Cerro - Quanti Casale in Italia!

             Numerosi sono i comuni che hanno per nome il termine generico “casale”; e si contraddistinguono per la seconda parte della loro denominazione, la quale ne indica l’appartenenza geografica o quella feudale, oppure la caratteristica paesaggistica, talvolta indicata con un aggettivo, tal altra mediante la specificazione di un sostantivo il cui referente è: albero, fonte, colle, ecc., presso cui il casale si è sviluppato.
     

             Alla stessa maniera diversi e ben distribuiti sul territorio nazionale sono i ceppi familiari che, per qualche rapporto col “casale” di loro pertinenza, ne hanno assunto il soprannome. Poi divenuto cognome.
     

             Ed eccomi immeritatamente a rappresentare l’area dei “Casale” campani (Napoli e dintorni); più esattamente la popolazione vesuviana dove i piccoli centri abitati, stante l’uso linguistico di una data epoca, si era soliti chiamare “casali”.

    Nella mia vita, senza fare particolare ricerca, ma solo restando ai normali contatti quotidiani,  mi sono imbattuto in lunghe schiere di “Casale” chi residente a Sicignano, chi a Battipaglia, chi a Mirabella Eclano; e poi in Puglia, in Sicilia, nel Lazio, in Toscana, in Abruzzo. Ma soprattutto in Piemonte, in Friuli, e in Emilia Romagna. Evidentemente non posso dire che si tratti di un unico ceppo, ma tuttavia ... a volte, la coincidenza ... non si sa mai!
     

             E quanti omonimi: quanti Casale Luigi! Se posso avanzare un’ipotesi, sembra proprio che il nome Luigi sia il più ricorrente tra i nomi abbinati a Casale, il più felice e il più congeniale tanto da sembrare fatti apposta l’uno per l’altro. Non so immaginare un Casale che non sia anche Luigi. Mi è capitato addirittura di trovarlo a grandi lettere lunghe le autostrade d’Europa sui teloni degli autotrasporti, che oggi chiamiamo “logistica”.
     

             Chiarito – ammesso che sia veramente chiarito – che non siamo tutti parenti,  il fatto che lo potessimo essere l’ho sperato almeno in un caso: quando a scuola, sul prontuario di chimica nel paragrafo che trattava l’ammoniaca, per la prima volta ho letto il profilo biografico di Luigi Casale da Pinerolo, presidente della Montecatini. Ma allora si era adolescenti ...
     

             Quanti “Casale” (normali!) o Casali! Con la “i” nella sua variante nobile! E quante città e piccoli paesi dal nome Casale! Forse da ognuno di essi si è generato poi il cognome di famiglia che portiamo, disseminati come siamo in tutta Italia. Da un vecchio codice di avviamento postale del 1967 (il primo in distribuzione dalle Poste Italiane) senza contare i nomi agglutinati, quelli fusisi per crasi, i diminutivi e i vezzeggiativi, e quelli in cui la parola Casale si presenta tronca nella forma Casal, o altre possibili varianti, ne ho contato undici; ma nel totale sono due pagine intere, compilate fittamente in due colonne.
     

             Come per le persone, mi sono affezionato anche ai luoghi. E così, come in gioventù ho sognato di ritrovare un quale possibile ascendente nel Casale Luigi chimico che ha escogitato il metodo di produzione dell’ammoniaca per sintesi diretta, in età posteriore mi sono lusingato, invece, di avere avuta qualche provenienza piemontese dalle parti di Casale Corte Cerro. Nella realtà però solo la casualità ci ha fatti incontrare. Il come e il quando ho avuto modo di narrarlo in un altro racconto, dove si parla delle mie vacanze in Valle Strona: tra Gravellona Toce e Crusinallo, tra Verbania Pallanza e Omegna, sulla strada del Gabbio; e si richiama a tal proposito la Paulownia tomentosa e l’isola di S. Giulio.
     

             Dei Casali del Piemonte conoscevo solo Casale Monferrato, un po’ dalla storia, un po’ dalla lettura de I promessi sposi; in seguito per aver avuto un amico casalese: il buon Ariolfo. Ma soprattutto per tutte le burle che mi toccava sopportare a scuola dove non appena gli insegnanti sentivano il mio cognome: da Casale ero già divenuto Casalemonferrato. Solo uno, per ovviare alla banalità del luogo comune di un ritrovato tanto facile e scontato, e altrettanto stupido, aveva voluto aggiungevi il suo elemento di originalità, chiamandomi Casale-ben-ferrato. Ed era evidente che non si volesse riferirsi ad un cavallo. (Lo spero!).

     Io, per parte mia, pensando all’uso che all’epoca se ne faceva, del termine “ferrato”, da farlo entrare nei giudizi di profitto scolastico non solo nella comunicazione orale, ma anche nelle carte ufficiali, ho sempre pensato che quell’insegnante  volesse riferirsi al mio rendimento nelle materie cosiddette scientifiche, e in particolar modo alla matematica.
     

             La prima volta che soggiornai a Casale Corte Cerro fu nel 1966. Avevo ventidue anni, e fui ospite di una magnifica struttura d’ospitalità: il Getsemani, una casa di spiritualità, aperta ai congressi, alle associazioni, ai gruppi di lavoro, alle altre attività di carattere associativo e formativo. Le mappe geografiche lo indicano anche come Santuario di Gesù agonizzante. Non sono in grado di farne la storia in quanto mi mancano elementi sufficienti, tuttavia mi piacerebbe sapere se è sempre attivo, aperto alle stesse finalità sociali ed educative, e in grado di offrire ancora accoglienza alle famiglie. Quello che oggi si dice il turismo sociale e religioso, e che io ho inventato 38 anni fa, data la conformazione della mia famiglia.
     

             Vi ritornai infatti nel 1977, questa volta con la famiglia già formata. E per tre anni di seguito colà trascorremmo la vacanza estiva. Era il tempo in cui lavoravo a Roma.
     

             A causa della nostra frequentazione a Casale Corte Cerro e per la facilità con cui gli amici ricordavano più facilmente poi la sede delle mia vacanze in ragione della omonimia, un po’ per scherzo, un po’ per fantasia, mi compiacevo nel dire che la vacanza la trascorrevamo nei “nostri possedimenti d’origine” (se è vero, com’è vero, che dal dato topografico ci viene anche il cognome).
     

             A questo punto qualche lettore un po’ superficiale o forse annoiato (oppure severo?), potrà pensare che il mio esercizio di scrittura sia solo una forma di esibizione, vuota ed artificiosa.

    Ma per rispetto a chi una volta mi confidò di trovare una certa godibilità nelle mie scritture, andrò avanti; e persisto sperando però di riuscire a comunicare (oltre alla godibilità) anche qualcosa che possa salvarsi come mera informazione. E un poco-poco, se me lo consentite (questa sì che è un’ambizione! Nel senso originario del termine: andare in cerca di consenso), anche di pedagogia, di formazione, di educazione.

    Perché dei miei soggiorni a Casale Corte Cerro non vi parlerò se non in funzione di quella grande opera pittorica che si vede sull’esterno dell’abside della chiesa, la parte più importante dell’intera architettura. Solo mi dispiace di dovervela presentare mostrandovi immagini da me fotografate, che avevo fatto per me, per i ricordi di famiglia; foto che quando le scattai non sospettavo di doverle esporre attraverso questo moderno mezzo di pubblicizzazione (che all’epoca era inimmaginabile); foto che nel frattempo hanno perduto la loro luminosità.

    Ciononostante, sebbene incomplete nella esaustività della documentazione e poco chiare nella loro visibilità, le offro come stimolo a più approfondite curiosità verso la conoscenza, sia della storia, sia del valore estetico, sia del destino futuro della costruzione.
     

             Premesso che l’interesse culturale è diffuso con pari intensità a tutte le parti dell’opera architettonica: nelle soluzioni abitative della strutture residenziale, nell’arredo, nella concezione della chiesa, in tanti particolari dell’arredo religioso, in tutti gli altri manufatti sistemati nel parco circostante, qui intendo illustrare solo l’affresco (forse è una tempera) che gira intorno alla grande parete cilindrica (l’esterno dell’abside) che accoglie il visitatore e il pellegrino che si reca al santuario, sul viale d’accesso alla “casa”: la passione del Cristo di Théodore Strawinsky (1907-1989).
     

    Essendo essa quella che più mi colpì; e l’unica della quale custodisco le foto.

    Copia cache

    Getsemani di Casale Corte Cerro (Novara), Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del ... G. MANuLI, G. RAINALDI, E. RIZZI (a cura di), Théodore Stravinsky.

    Materiali informativi da internet:

    http://www.academia.edu/5719627/Le_architetture_di_Luigi_Gedda_committenza_e_cantieri_1949-1959_   

    Da: Andrea Longhi 

           Le architetture di Luigi Gedda: committenza e cantieri (1949-1959)

    “L’architettura può essere considerata uno degli strumenti di comunicazione di massa utilizzati da Luigi Gedda (1902-2000) nei suoi diversi settori di attività asso-ciativa e professionale, in particolare negli anni di massima esposizione pubblica durante la Ricostruzione. Gedda è committente di opere architettoniche e artistiche come dirigente nazionale dell’Azione cattolica (1934-1959), come fondatore della Società operaia (dal 1942) e dei Comitati civici (dal 1948), come medico e ricerca-tore di fama internazionale.

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    Ildo Avetta, l’architetto di fiducia di Gedda su cui più volte torneremo, annota: «Quella notte del 1940, la città di Roma, per difendersi dalle incursioni aeree, era nel buio più completo. C’era però la luna che esaltava il pallore del volto di Cristo tracciato dal rilievo delle gocce di sangue che lo rigavano [...]».

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      ...  il binomio Gedda-Avetta può sviluppare i temi progettuali senza ulteriori passaggi istituzionali: si tratta dei due Getsemani costruiti come case di spiritualità per la Società operaia – a Casale Corte Cerro (1949-1950) e  a Capaccio-Paestum (1955-1959) – e della sede dell’Istituto Mendel di gemellologia a Roma (1951-1953).

    Per quanto attiene le due case di ritiro spirituale, una prima chiave di lettura è la dialettica tra la dimensione spirituale personale e l’imporsi dell’edificio a una scala paesaggistica di ampio respiro. La devozione verso Gesù agonizzante, tema fondativo della Società operaia, non è infatti trattata architettonicamente in un’ottica solo intimistica: le case sono pen-sate per essere fruite anche dall’esterno, come richiami e mete visive a grande scala, come luoghi, privi di intenti mimetici, in cui la spiritualità non esita a proporsi in chiave pubblica, quasi come “città sul monte” evangeliche. I progetti utilizzano risolutamente un linguaggio architettonico moderno, con soluzioni di matrice organica (ossia rapportata al contesto naturale e alla morfo-logia) finalizzate a diversificare le diverse dimensioni spaziali del ritiro spirituale: la meditazione sulla sofferenza di Cristo, la celebrazione liturgica comunitaria, la contemplazione della natura, lo studio individuale e la vita comune negli spazi di so-cialità. Le diverse esigenze spirituali sono affrontate come specifici temi progettuali.“

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