Articles by: Letizia Airos & maria rita latto

  • Arte e Cultura

    Al telefono con Claudio Baglioni

    ENGLISH VERSION
    La sua voce arriva dopo una breve attesa musicale. Le note sono quelle di “c'è solo un mondo ed è un mondo solo”.
     

    Si scusa per un piccolo ritardo. Mi saluta ed entra in redazione. E’ una voce piena, che riempie, inconfondibile, quasi non si sente la distanza. Come un caro amico racconta del suo prossimo concerto a New York, del suo tour in tutto il mondo, del ritorno in Italia, parla di emigrazione e del mondo che ha incontrato all’estero.


    One world è il primo tour internazionale di Claudio Baglioni dopo circa vent'anni. Cominciamo con chiedergli perchè. Perchè ha aspettato tanto.

    “Me lo chiedo anch'io, è stato un peccato. Ho smesso di girare per molto tempo, o almeno ho lavorato a progetti più localizzati. Circa vent'anni fà ho avuto una sorta di crisi d'identità. Si rischia di andare, di spostarsi da una parte all'altra del mondo, senza però riuscire a catturare quella suggestione che ogni viaggio può dare. Il mondo sembra uguale in ogni città, senza sorprese, senza emozioni particolari. Allora mi ero  detto: meglio coltivare un rapporto con un pubblico più vicino.

    E poi finalmente questo 2010… quindi c'è un pò di pentimento, ma anche una ragione legata ad avere una crisi d'identità, sia artistica sia umana.

    Ed è nato questo nuovo tour. Perchè hai scelto il nome Un Solo Mondo?

    Mi piace pensare che ci possa essere un solo mondo. Il titolo è preso da una canzone scelta anche come sigla dei campionati mondiali di nuoto che si sono tenuti  a Roma. Ho scritto molte altre volte inni per delle manifestazioni sportive o musicali. C’è un verso che dice “c'è solo un mondo” che esprime questa sensazione di quanto siamo vicini in questo mondo globale.

    In "Un solo mondo", poi c'è la concezione del musicista come un solo mondo con una sola orchestra. Con l'orchestra dell'umanità. Di tante persone che suonano con il proprio strumento la stessa sinfonia.

    Cinque continenti. Possiamo quindi dire che è un viaggio che hai fatto con il corpo ma anche con la mente. Cosa ti porti dopo tutti questi mesi?

    E' stata quasi una sfida. L'idea di fare il giro del mondo con i concerti in settantanove giorni. Per battere il record degli ottanta giorni, il giro più famoso del mondo di Jules Verne. Diciamo che queste emozioni si sono sovrapposte.

    E’ stato un viaggio rapidissimo e quindi avrò bisogno alla fine di rivedere tutto per approfondire. Mi ha lasciato una grande carica, perché è stato energico. Da una parte c'è voluta molta resistenza, ma ha anche caricato me e i miei compagni per nuove avventure.

    In questo tour hai incontrato diverse persone e anche  rappresentanti delle istituzioni, operatori culturali internazionali. Non ti sei sentito un pò ambasciatore di una  sensibilità che aiuta a condividere e non dividere questo mondo?

    Ho voluto unire al viaggio del musicista anche quello del cittadino del mondo, ho voluto approfondire questo itinerario. Ogni posto sa darti delle nozioni e cognizioni che prima non avevi e quindi, ovunque potevo, ho incontrato diversi operatori. Specialmente negli istituti italiani di cultura.

    Quello di ambasciatore è un ruolo di grande responsabilità. Più che altro, come qualsiasi viaggiatore, ho cercato la spinta a condividere piuttosto che a dividere. E ho veramente avuto delle grandi soddisfazioni, delle volte anche più grandi di quelle che si possono provare con un applauso. Il bilancio in questo senso, non tanto come ambasciatore ma come persona che ha esplorato diverse realtà, è molto positivo.

    Cosa pensi prima di un concerto, un attimo prima di entrare in scena?

    Dipende. Non c'è mai un concerto uguale a un altro e non c'è mai una situazione uguale a un'altra. A volte possono accadere delle cose di cui non si può prevedere l’entità e quindi l'imprevisto può creare un pò di terrore.

    Diciamo che c'è la responsabilità di essere lì. Sia che sia un piccolo locale, che un grande stadio. Comunque ci sono altre persone  al di là del sipario.

    Senti che c'è già qualcuno ti ha dato la sua fiducia e il suo affetto  e quindi hai la responsabilità di rispondere a così tanta amicizia, curiosità, stima. Devi quindi stare anche bene fisicamente, un concerto è come una gara sportiva, bisogna stare al meglio della condizione.

    Poi sento sempre questo grande privilegio, un grande onore ogni volta che entro sul palco, mi dico "mi è andata proprio bene, il cielo mi ha voluto accarezzare perché mi da la possibilità di fare un mestiere bellissimo. L’onore di suonare per delle persone”.

    Mi pare di capire che l'emozione che tu provavi le prime volte è rimasta quasi immutata…

    L'emozione è rimasta sempre la stessa. E’ un pò diverso l'atteggiamento. Diciamo che  l'emozione generalmente  adesso non è più panico. Aiuta concentrarmi, a stare lì  proprio in quel posto, a rendere l'occasione unica come uniche devono essere tutte. Mai uguali a quelle precedenti.

    Dal palco alle strade. Tu hai anche ideato esibizioni un po' particolari, hai presentato album negli aeroporti, hai improvvisato concerti, hai suonato negli autobus di linea.  TI piacerebbe fare qualcosa del genere anche a New York?

    Una volta mi sono travestito e con una specie di canadese maccheronico, ho cantato sotto la galleria centrale di Napoli aprendo la custodia della chitarra come un suonatore ambulante. Ne ho fatte parecchie. Una volta in un camion attraversando tutte le periferie romane…

    L’ho fatto per il gusto del gioco. In un mestiere come questo è molto importante. Il successo rischia di darti alla testa, non è facile da gestire.

    Dopo quarant'anni può essere anche ripetitivo. E invece deve essere un lavoro estremamente vario, artistico, appassionato. Dunque occorre della leggerezza e che tu non ti prenda troppo sul serio.

     

    E quindi a New York dove lo faresti?

    La metropolitana è sempre un posto. Però mancherebbe un pò il gusto della sfida alla propria popolarità. In un paese dove sei meno conosciuto funziona di meno.

    Come hai scelto i tuoi brani per il tour?

    C'è un repertorio base che ho un pò mutato a seconda dei Paesi. Per esempio in Sud America c'erano dei brani rimasti nella memoria collettiva. Il criterio di fondo è quello di un concerto antologico. E’ come prendere quarant'anni di canzoni, di musica, parole, arrangiamenti e stili diversi, le tappe conosciute e popolari.  Tutto questo con la possibilità  di inventare qualcosa all'ultimo momento.

    Che idea ti sei fatto degli Italiani che hai incontrato all'estero in questo tour?

    Delle volte si sente molta più italianità fuori che in Italia.  Gli italiani nel mondo mi sembrano essere più italiani di noi che viviamo stabilmente in Italia. Esiste un'enorme comunità un po' ovunque, nell'America del nord e sud, in Australia e anche in Europa.

    Ci sono varie generazioni che spesso non parlano nemmeno l'Italiano ma che hanno lo stesso questo legame,  nonostante la lingua abbia un pò ha ceduto il campo.

    Noi  il prossimo anno celebriamo i 150 anni di unita' d'Italia. Ma in Italia c'è una specie di disaffezione e si sente moltissimo.

    E gli italiani all’estero sono stati a lungo abbandonati. Non hanno avuto tutti gli strumenti per coltivare meglio questo legame. Per esempio nel mondo ancora  non arriva molto della cultura contemporanea, della cultura popolare, del cinema, del teatro e della musica popolare stessa.

    E’ un peccato per un aspetto che non è solo nostalgico. L’affetto per il paese d'origine va ripagato meglio perchè persiste molto intenso.

    Ho da un lato avuto sorprese come quella del concerto a Tokio con l’ 85% di Giapponesi che cantavano queste canzoni in Italiano, ma ho anche visto negli Stati Uniti, in Canada e in Sudamerica Italiani che non parlano più italiano e le parole delle mie canzoni le sanno.

    E’ un peccato perdere la lingua, non è solo una questione di comunicazione, è anche una questione culturale, di stile di vita

    A te piace ricordare alcune parole di Seneca: “la terra è un solo paese: siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino”.  La tua sensibilità nei confronti dell’emigrazione ti ha portato ad essere il promotore di “O’ Scià”, un’iniziativa che sarebbe riduttivo definire semplicemente una kermesse musicale. Puoi raccontare cos’è “O’ Scià”?

    E' difficile definirlo pur avendo già fatto otto edizioni. E’ una manifestazione musicale che ha un significato sociale, civile. Si tratta di un record in un certo senso. Di solito noi artisti siamo abituati ad un 'one shot'. Ma questa manifestazione è partita sottovoce, realizzata da me in una piccola spiaggia di Lampedusa, l'isola più a sud di Italia è probabilmente anche d'Europa, la più vicina all'Africa. Con l'idea appunto della partecipazione, per promuovere l'integrazione, l'interazione. Per lavorare insieme e stare bene tutti insieme. E tutto questo a Lampedusa perché Lampedusa è stato un pò il simbolo geografico dell'immigrazione irregolare.

    Allora io ho cominciato a chiamare molti miei colleghi, non solo cantanti, anche musicisti, attori. Coloro che avevano voglia di testimoniare questo sbarco su quest'isola, questo sbarco gioioso nella quale si proclamava una cultura della convivenza pacifica e solidale, del guardare all'integrazione delle culture anche come un arricchimento.

    Gli Stati Uniti sono un esempio classico dove, anche se con tante difficoltà, si è lavorato sull’integrazione. Non è semplice ma è un cammino che va fatto con molta intelligenza e pazienza anche in Europa.

    E ci sono dei luoghi poi dove invece tante culture e etnie diverse sono diventate una ricchezza. E così siamo arrivati ad ospitare più di trecento artisti, provenienti da molte parti del mondo.

    O'scia che in dialetto significa 'mio respiro', respiro come un vento, come qualcosa che accarezza il cuore, che ti da sensibilità.

    Sono orgoglioso di questa manifestazione che ho portato anche al parlamento Europeo con un dibattito, una conferenza stampa internazionale. Abbiamo anche fatto dei concerti speciali a Malta e intendiamo nei prossimi anni andare anche in Africa.

    E’ una manifestazione di cinque giorni e cinque notti non-stop, una specie di Woodstock italiana, musica e parole in una spiaggia gremita.

    Noi artisti che siamo persone molto fortunate ci mettiamo al servizio di un’ idea di mondo più pacifico, sicuramente orientato verso il futuro.

    La musica può abbattere barriere ma la tua musica ha qualcosa di particolare. E’ riuscita ad unire diverse culture, ma anche gusti di diverse generazioni. Quale è il segreto?

    Questo è  una specie di miracolo che non capirò mai. Ho sempre fatto questo mestiere pensando che non fosse un lavoro e quindi ho continuato a farlo come un dilettante che doveva imparare sempre. Ho però anche cercato di metterci ogni giorno tutto quello che sapevo, le emozioni che provavo, la cura anche nei particolari di ogni esibizione.  Ho cercato di cambiare ogni volta l'invito, come se avessi avuto un’agenzia di viaggi che non vuole portare sempre nello stesso posto.

    Ogni viaggio con una destinazione diversa, con un’idea proprio diversa di struttura. E la mia musica ha resistito nel tempo. Effettivamente, io l'ho visto, a volte trovi quattro o cinque generazioni diverse. Chiaramente i più piccoli magari sono costretti a forza dai i genitori o dai fratelli maggiori … Però credo che tutto questo sia dovuto al fatto anche che non ho seguito le mode, facevo quello che mi veniva in mente e che riuscivo a fare.

    Poi un’altra ragione del mio successo è anche nell’aver variato molto i collaboratori, musicisti di diverse discipline, provenienti da tanti paesi del mondo.

    Che consigli ti senti di dare ad un giovane italiano che desidera diventare musicista?

    E' un momento difficile, un pò perché c'è una crisi di creatività generale in tutto il mondo. Negli ultimi venti, trent'anni non sono successe cose che hanno rivoluzionato l’arte moderna, disciplina artistica. Tutto quello che succede oggi è una ripetizione riveduta e corretta di quello che già è successo nel secolo scorso.

    Ci sono però molti interpreti bravi in Italia, anche anche se cominciano a mancare un po' i compositori. La musica Italiana, specialmente nel continente sudamericano, in Spagna, in Giappone negli anni settanta aveva una forte influenza. Eavamo considerati dei maestri.

    Dare un consiglio oggi non è facile, ci sono tante occasioni, non è difficile farsi notare, però è difficile restare. C’è una specie di bulimia per cui un pò tutto si consuma con maggiore velocità.

    Bisogna essere innanzitutto molto preparati a fare questo mestiere, molto curiosi, un pò coraggiosi, non stare lì a fare solo quello che funziona ma a volte anche sfidare il gusto del pubblico. Bisogna essere sinceri questo è fondamentale, quanto più possible. Quando fai un mestiere così, alla lunga, una costruzione, una cosa che è non vera, non dura.

    C’è in questo viaggio una premessa nel tuo processo creativo?

    Lo spero. L’ho intrapreso anche un pò per questo.

    Neli ultimi tre, quattro anni, pur facendo concerti, avevo lavorato a un progetto mastodontico, l’opera ispirata a 'Questo piccolo grande amore'. Ho realizzato un doppio album, ho rielaborato la storia, ho scritto tanti inediti, sono arrivato a cinquantadue brani, una specie di opera musicale moderna nella quale ho portato altri settanta artisti Italiani, Mina, Bocelli, Pausini, Jovanotti, un elenco insomma senza fine.

    Avevo quindi proprio bisogno di un viaggio fisico per avere ancora un stimolo creativo. Credo che il mio viaggio avrà un peso anche e non so ancora in grado di dire quale. Il 31 dicembre finisco questo giro del mondo nella città in cui vivo, in cui sono nato, Roma, a Via Dei Fori Imperiali.

    Si aspettano quasi mezzo milione di persone, quindi sarà una grande chiusura di tutta questa storia. Un ritorno a casa, e poi sparirò, letteralmente, perché sto mettendo in cantiere un nuovo progetto. Dopo una sorta di letargo negli anni novanta dove ero diventato un pò contemplativo,  ecco una sana voglia di fare…”

    Dunque ultima tappa nel mondo di Baglioni per ora sarà New York. Lo saluto dopo una conversazione che sarebbe potuta continuare piacevolmente a lungo. In redazione mi dicono: è lunga, ma la pubblichiamo in versione quasi integrale?

    Claudio canterà a New York, 17 dicembre, 8:00 pm

    ANGEL ORENSANZ FOUNDATION

    (172 norfolk street, manhattan)

     

    Il 16 dicembre alle 18:00

    Claudio incontrerà il pubblico alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della NYU

     The discussion will be introduced and moderated by Letizia Airos, journalist (i-Italy), Mario Platero journalist (Il Sole 24ore) and Tiziana Rinadi Castro (writer).

     

     

     

     

     

     

     

     

  • Art & Culture

    One World. Chatting with Claudio Baglioni

    IN ITALIANO

    His voice comes on after a brief musical pause. The notes are those of “there is only one world and it’s only one world and we are only one world in flight for a century….”

    Unmistakable, he apologizes for the slight delay. He greets me and dives into the conversation. He has a full, rich voice which almost makes the distance disappear. Like a close friend, he talks about his upcoming concert in New York, his worldwide tour, his return to Italy, emigration, and the world he saw abroad.“One World” is Claudio Baglioni’s first international tour after about twenty years. Let's begin by asking why. Why did he wait so long?

    “I ask myself that, too. It’s a shame. I stopped touring for a long time, or at least I have worked on more local projects. About twenty years ago I had a sort of identity crisis. One can decide to go, moving from one part of the world to another, but still fail to capture the different sensations that every single place offers. The world seemed the same to me in every city – no surprises, no particular emotion. So I said, better to cultivate a closer relationship with audiences nearby. And then finally the tour in 2010...so there’s a bit of regret but there’s also a reason related to having an identity crisis in both artistic and human terms.
     

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    I like to think that there can be only one world. The title is taken from a song chosen as a symbol of the world swimming championships that were held in Rome. I’ve written many anthems for sporting and music events. There’s a verse that says, “There is only one world,” which expresses this feeling of how close we are in this global world.

    In “One World,” there is also the concept of a musician as one world with one orchestra – the orchestra of humanity, of all the people who play the same symphony with their own instruments.

    Five continents. So we can say that it’s a trip that you took physically but also mentally. What inspired you after all this time?

    The idea of going around the world to perform concerts in seventy-nine days – it’s been quite a challenge. To tackle eighty days, that is, Jules Verne’s famous trip around the world, and then beat that record. Let’s say that these emotions became superimposed on the journey.

    It was a very quick trip, and so at the end of it I'll need to review everything to go deeper. It revved me up a lot because the trip was so demanding. On the one hand it took a lot of stamina, but it also inspired me and my friends to go on new adventures.

     On this tour you met ordinary people, but you also met representatives from institutions and international cultural initiatives. Did you feel a little like an ambassador with the mission of helping to share rather than divide the world?

    I wanted to experience the trip both as a musician and as a world citizen; I wanted to delve deeper into the itinerary. Every place can give you an understanding and awareness that you did not have before, and so everywhere I went, I tried to meet with representatives, especially from Italian cultural institutes.

    The role of ambassador is a great responsibility. More than anything, like any other traveler, I was motivated to share rather than divide. And I really experienced a great deal of satisfaction, sometimes even greater than a round of applause. On the whole, it was very positive – not so much as an ambassador but as someone who traveled and experienced many different situations.

    What do you think about before a concert, just before going on stage?

    It depends. There is never a concert that is exactly like another, and there is never a situation that is the same as another. Sometimes things happen and you cannot predict their magnitude and so the unexpected creates a bit of fear.

    Let’s say that there is a responsibility to be there. Whether it’s a small place or a large stadium, there are always other people on the other side of the curtain.

    You feel that someone has already given you his or her trust and love, and therefore you have the responsibility to respond to so much friendship, curiosity, respect. You must also be physically fit; a concert is like a sports competition – you have to be in top shape.

    And I always feel this great privilege and honor every time I go onstage. I say, “It went really well. The heavens smiled down on me because I was given the opportunity to have a beautiful career – the honor of playing for the people.”

    It seems that the emotion you felt the first few times has hardly changed...

    The thrill has remained the same. The attitude is a little different. Let’s say that the general emotion now is no longer panic. It helps to focus, to be there at that place, to make every show as unique as possible. Never the same as before.

    From the stage to the street. You’ve also organized special events, given away albums in airports, performed impromptu concerts, and played on public busses. Would you like to do something like that in New York?

    I once dressed in drag as a sort of “macaroni Canadian,” and I sang in the central gallery in Naples, opening my guitar case like a street musician. I pulled several like these. Once in a truck driving through the Roman suburbs….

    I did it for the sake of the game. In a career like this, it’s very important. Success is likely to go to your head, and it’s not easy to manage.

    After forty years it can also get repetitive. But it should be extremely varied, artistic, passionate work. And so levity is necessary, and that you don’t take it too seriously.

    And so in New York, where would you do it?

    The subway is always possible. But it would be a less of a challenge because of the lack of popularity. In a country where you are not as recognizable, it doesn’t work as well.

    How did you choose your songs for the tour?

    There’s a basic repertoire that I change a little from country to country. For example, in South America there are songs that are part of the collective memory. The basic criterion is that of a concert anthology. It's like taking forty years of songs, music, words, arrangements and styles, the recognizable and popular tunes. All of this goes along with the possibility of inventing something at the last minute.

    What do you think about the Italians abroad who you’ve met on this tour?

    Sometimes one feels a strong sense of being Italian [italianità]more so outside of Italy. Italians abroad seem to be more Italian than those of us who live in Italy permanently. There is a huge community all over, in North and South America, in Australia, as well as in Europe.

    There are several generations who often do not even speak Italian but have the same bond in spite of the language, which has receded a bit.

    Next year we are celebrating 150 years since the unification of Italy. But in Italy there is a sense of alienation that is still very palpable.  

    And Italians abroad have been abandoned long ago. They didn’t have the proper tools to better cultivate this bond. For example, they still don’t get much of contemporary Italian culture, popular culture, cinema, theater, and popular music itself.

    This is a shame for many reasons, and it’s not just nostalgia. The affection for one’s country of origin is forever repaid because the feeling remains very intense.

    On the other hand, I’ve had many surprises like the concert in Tokyo with 85% of the Japanese audience singing my songs in Italian, as well as in the United States, Canada, and South America. There are so many Italians who do not speak Italian but who still know the words to my songs.

    It’s a pity to lose the language; it’s not just a matter of communication, it’s also a question of culture, lifestyle.

    You like to quote the Seneca tribe: “The earth is only one country: we are waves of the same sea, leaves of the same tree, flowers of the same garden.” Your sensitivity towards emigration has inspired you to become the promoter of “O’ Scià,” an initiative that could be defined as a music festival in the most simplistic terms. Can you tell our Italian-American readers about “O’ Scià?”

     
    It’s hard to explain it even after eight festivals. It’s a musical event that has social, political significance. Usually artists are accustomed to a “one shot” deal. This event began underground; I started it on a small beach on Lampedusa, the most southern island in Italy and probably in Europe, the closest to Africa. It began with the idea of getting involved to promote integration and interaction, to work together, and to get along together. And all this happened on Lampedusa because Lampedusa has become something of a geographic symbol of illegal immigration.

    So I started calling many of my colleagues, not just singers, but also musicians, actors. They wanted to witness landing on the island, this joyous landing in which we declared a culture of peaceful coexistence and solidarity, of looking at the integration of cultures as enrichment.

    The United States is a classic example where they have worked on integration albeit with many difficulties. It’s not easy but it’s an undertaking that can succeed in Europe with intelligence and patience.

    And then there are places where many different cultures and ethnicities have become a treasure. And so we brought together more than three hundred artists from all over the world.

    In dialect, “o’scià” means “my breath,” breath like the wind, like something that tickles the heart, that inspires emotion.

    I’m so proud of this event. I even brought it to the European Parliament with a debate, an international press conference. We also organized several special concerts on Malta and we plan to go to Africa in the next few years.

    It’s a non-stop music festival that takes place over five days and nights, a sort of Italian-style Woodstock Italian with music and spoken word on a crowded beach.

    We artists are very lucky people, and so we put into practice the idea of a more peaceful world that looks confidently toward the future.

    Music can break down barriers but your music has something special. It has succeeded in uniting different cultures but also the varied tastes of different generations. What’s the secret?

    This is a kind of miracle that I will never understand. I’ve always done this work thinking that it wasn’t a job, so I continued as an amateur who had to learn more. But I have also tried to put everything I knew into it – the emotions I felt, attention to the details of every performance. I’ve tried to change the invitation every time, as if I were a travel agent who didn’t want to bring people to the same place.

    Every trip has to have a different destination, with a different idea for its structure. And my music has withstood the test of time. Indeed, I have seen it; sometimes there are four or five generations at one concert. Clearly, the younger ones may have been forced to go by their parents or older siblings.... But I think this is also due to the fact that I have not followed trends, and I have always done what I thought was best and what I could succeed in doing.

    Another reason for my success is that I’ve worked with very diverse musicians, from different genres and from many countries around the world.

    What advice would you give to a young Italian who wants to become a musician?

    It’s a difficult time, certainly because there is a crisis of creativity in general around the world. In the last twenty, thirty years things have happened that have revolutionized modern art and artistic discipline. Everything that happens now is a revised repeat of what has already happened in the last century.

    But there are many talented performers in Italy even though there are fewer composers. Italian music, especially in South America, Spain, and Japan in the ‘70s had a strong influence. We were almost considered masters.

    Giving advice today is not easy; there are so many avenues that it’s not hard to get noticed but it’s hard to have staying power. There is a sort of bulimia where a little bit of everything is consumed at top speed.

    First, you must be very well prepared to do this job, very curious, a little courageous and not just do what works but sometimes defy public taste. You have to be as honest as possible – this is fundamental. When you begin a career like this, in the long run, something that is not true does not last.

    Is there a premise for your creative process on this trip?

    I hope so. I undertook it for that reason, as well.

    In the last three or four years, while doing concerts I was working on a mammoth project, a work inspired by “This Little Big Love.” I made a double album, I reworked the story, I wrote many unpublished songs, and I recorded fifty-two songs. It’s a modern musical work in which I involved another seventy Italian artists such as Mina, Bocelli, Pausini, Jovanotti – the list is endless.

    So I really needed a physical journey to find a creative stimulus. I think my trip will be significant, but I can’t yet say how. On the 31st, I will finish this trip around the world in the city where I live, where I was born, in Rome on Via dei Fori Imperiali.

    They’re expecting nearly a half million people, so it will be a great end to this whole story. A return home, and then I’ll disappear, literally, because I’m working on a new project. After a kind of lethargy in the’90s where I got a little contemplative, this is my healthy desire to accomplish something.

    So the last leg of Baglioni’s world tour will be in New York. I say good-bye to him after a long conversation that could have easily continued. The editors say that it’s long, but they’ll publish it in its entirety.

    Claudio will perform in New York on December 17 at 8:00 p.m.
    ANGEL ORENSANZ FOUNDATION
    (172 Norfolk Street, Manhattan)
     
    December 16 at 6:00 p.m.
    Claudio will be at NYU’s Casa Italiana Zerilli-Marimò.

     The discussion will be introduced and moderated by Letizia Airos, journalist (i-Italy), Mario Platero, journalist (Il Sole 24ore), and Tiziana Rinadi Castro (writer).