Articles by: Piero bassetti

  • Op-Eds

    Italic Cooking: Let’s Nurture it with American Creativity!


    My friend Ottorino Cappelli asked me to comment on his interesting article “Cucina Italica? An exercise in post-colonial mutual understanding” which calls into question, once and for all, the excessive nostalgia for “real Italian food” as opposed to the way in which Italian-Americans cook today. Even if they reconnect to recipes and products used in traditional Italian cooking, they are often willingly go beyond a way of cooking and eating linked to their country of origin (an origin that may be many generations “old”…).  

    Now do we really need a static way of cooking that is handed down for all time? I would say definitely not. And here I agree with Ottorino Cappelli in the promise to visit the recommended restaurant and taste the excellent “hybrid” between Italian and American cuisine. I would go even further than what Cappelli states: not only is the Italian-American way of cooking highly respectable, I would call this cuisine of new flavors (often the raw ingredients are locally grown) American-Italian.

     
    In fact, those living in America are Americans, even if they are of Italian ancestry, born and raised in an American milieu and educated in American tastes. When they are, as often happens, also Italic (aware of their origins and a universe of values, culture, and taste connected to the Italian peninsula) they have a “value added” experience in Mediterranean cuisine. Effectively incorporating these experiences into a typically American context, using raw ingredients that are usually American and serving an American clientele is an art. And that art precisely lies in the ability to strike a balance between American tastes and the riches of Italian cuisine. So I am certainly for progressive advancement and establishing an American-Italian taste alongside the Italian one. 


    So that we do limit our discussion to food, it is plain to see that Italic civilization has been influential in other areas. We think of literature where Americans of Italian origin have created works of absolute value in English, often imbued with the sensibility typical of their Italic roots.


    Have they “cooked” their novels in English? Of course, and even Italic works have arrived at the table. Or let’s consider film. It’s no coincidence that Cappelli cites a small gem of independent cinema like Big Night (which won awards at the Sundance Film Festival) by the American-Italian or rather the Italic Stanley Tucci and the very American (and Italophile, therefore Italic) Campbell Scott. It’s a sort of Babette’s Feast revised in Italic sauce in which Babette’s imposing turtle soup gives way to a no less imposing and impressive timballo: a volcanic and baroque symbol of a culinary melting pot that draws its richness and uniqueness from the hybridization of two cultures, Italian and American. 
    We live in a multi-ethnic and totally contaminated world. This is not in fact a bad thing and I am convinced, considering that Italic civilization is among the most open, that this openness implies the tacit legitimacy of every synergistic attempt between the tradition of departure and the innovation of arrival.  
    We are, of course, Italic and there are millions of American-Italians! Such a people of genius and invention would certainly not want to reject its own culinary and cultural creativity.


  • Cucina italica: facciamola crescere per mezzo della creatività americana!



    L’amico Ottorino Cappelli mi invita a commentare il suo interessante articolo “Cucina Italica? An exercise in post-colonial mutual understanding” in cui mette in discussione, una volta per tutte, l’eccessiva nostalgia della “vera cucina italiana” in opposizione al modo di cucinare odierno degli italo-americani.

    Questi ultimi, sebbene si riallaccino alle ricette e ai prodotti tradizionali della cucina italiana, spesso e volentieri vanno ben oltre un modo di cucinare e di gustare legato al Paese di provenienza (una provenienza, a volte, “vecchia” di generazioni…).


    Ora, abbiamo veramente bisogno di un modo di cucinare “immobile” e “dato per tutti i tempi”? Direi proprio di no. E qui mi associo a Ottorino Cappelli nel promettere una visita al ristorante segnalato per gustare l’ottimo “ibrido” fra cucina italiana e cucina americana. Andrei ancora più in là di quel che dice Cappelli: non solo il modo di cucinare degli italo-americani è rispettabilissimo, io questa loro cucina dai sapori nuovi (spesso le materie prime sono prodotte in loco) la chiamerei proprio americana-italiana.

     
    Infatti, coloro che vivono in America sono americani, anche se di ascendenza italiana, nati e cresciuti in un ambiente americano ed educati a un gusto americano. Quando sono, come spesso accade, anche italici (consci della loro origine e di un universo di valori, cultura e gusto legato alla Penisola italiana) possiedono inoltre un “valore aggiunto” di esperienze legate alla cucina mediterranea. Inserire efficacemente queste esperienze in un ambiente tipicamente americano, con materie prime spesso americane e da offrire a una clientela americana, è un’arte. E l’arte consiste proprio nella capacità di trovare un equilibrio fra i gusti degli americani e le ricchezze della cucina italiana. Sono quindi senz’altro per il progressivo avanzare e affermarsi, accanto a quello italiano, anche di un gusto americano-italiano.

     
    D’altronde, per non limitarci solo alla cucina, è sotto gli occhi di tutti il fatto che la civilizzazione italica abbia prodotto contaminazioni anche in altri campi. Pensiamo alla letteratura dove americani di origine italiana hanno compiuto, in inglese, opere di valore assoluto, spesso e volentieri impregnate di quella sensibilità tipica delle loro radici italiche. Hanno “cucinato” in inglese i loro romanzi?


    Ma certo, eppure sulla tavola sono arrivate opere italiche… O pensiamo al cinema. Non a caso Cappelli cita una piccola gemma del cinema indipendente come “Big Night” (premiato al Sundance Festival), diretto dall’americo-italiano ovvero italico Stanley Tucci e dall’americanissimo (e italofilo, dunque italico) Campbell Scott. Una sorta di “Pranzo di Babette” rivisto in salsa italica, in cui l’inquietante brodo di tartaruga di Babette lascia il posto a un non meno inquietante e imponente timballo: simbolo vulcanico e barocco di un melting pot culinario che dal meticciato tra le due culture, italiana e americana, trae la sua ricchezza e unicità. 
    Viviamo in un mondo mutietnico e del tutto contaminato. Questo non è affatto un male e sono convinto, ritenendo la civilizzazione italica un sistema fra i più aperti, che quest’apertura sottintenda una tacita legittimazione di ogni tentativo sinergico fra la tradizione di partenza e l’invenzione d’arrivo.

     
    Siamo italici, perbacco, e tali sono milioni di americo-italiani! Un simile popolo di genio e d’invenzione non vorrà certo rinunciare alla sua creatività culinaria e culturale.