AULE che crollano: basta una notizia di dissesto in una delle tante scuole e, in ogni città, il giorno successivo, si presenta la lista puntuale dello stato indecoroso in cui versa l’edilizia scolastica.
Napoli è tra le più compromesse in questa materia, primato non certo d’onore che allarma e non di poco insegnanti, studenti e famiglie. Nei giorni scorsi, dopo gli avvenimenti di Ostuni, i pompieri sono dovuti intervenire in alcuni plessi della città. Quei calcinacci hanno ricordato a tutti quanto l’incuria o peggio la mancata applicazione di regole metta a rischio la vita dei nostri figli in mura che pretenderemmo essere le più sicure. E non basta.
Decoro carente, pulizia approssimativa, cura pessima degli stabili. Non saranno le sole classifiche mondiali a dover impietosamente ricordare che la salute della scuola non dipende solo da una precaria edilizia, ma dallo stato dei luoghi messo a dura prova dal mancato senso civico di chi li vive, per non parlare delle ripetute scorrerie criminali che hanno privato gli studenti e gli insegnanti di strumentazione indispensabile al prosieguo corretto delle lezioni. Purtroppo la scuola soffre d’abbandono, di una devastante precarietà. È stata svuotata della sua dignità, ridotta a una sorta di azienda incapace di produrre profitto.
Nell’era della globalizzazione, l’obliterazione dei valori sta risucchiando molti giovani nel tunnel dello scetticismo e della superficialità. In questo clima la scuola è vissuta da tanti come un obbligo imposto dall’alto, un tempo vuoto, utile solo a conseguire un pezzo di carta che ormai nemmeno serve a trovare lavoro. E più la scuola viene svuotata della sua dignità, più gli insegnanti si sentono defraudati della loro autorevolezza, più i giovani perdono la consapevolezza dell’opportunità che viene loro offerta da questa insostituibile agenzia educativa.
D’altronde la globalizzazione, anziché offrire una maggiore integrazione tra i paesi e i popoli del mondo, aprendo le frontiere alla libera circolazione di beni, ma anche e soprattutto di conoscenze, culture e persone, ha aperto la strada al potere assoluto dell’economia. Un potere che, asservito alla logica del mercato, incombe su di noi, sulle nuove generazioni, determinando non solo una crisi finanziaria senza precedenti, ma un vuoto etico che sta inghiottendo i nostri giovani nel vortice di un pensiero debole. Ed è in questo vuoto etico che ogni educatore, ogni scuola dovrebbe piantare il seme dell’eticità, certo il raccolto dipenderà da diverse variabili ma se si pianta il seme sbagliato anche il terreno più fertile non produrrà i frutti sperati.
È in grado oggi la nostra scuola di piantare questo seme? Il passaggio di testimone dei saperi trova nella nostra scuola lo spazio dovuto per costruire una società migliore o la scuola stessa è rimasta vittima dei crolli più devastanti della speranza sotto il peso della rovina economica?
È in questo nostro tempo, in cui l’unico fine dell’uomo sembra essere il profitto ad ogni costo, che la scuola e il mondo accademico, insidiati nella loro consistenza dall’esito nichilistico della cultura contemporanea, sono chiamati a formare cittadini del mondo, capaci di salvaguardare l’identità della propria nazione, città, cultura, valori senza cadere nella trappola del pregiudizio e di nuovi fondamentalismi.
Cittadini aperti all’alterità, all’accoglienza, alla convivenza civile per fare della globalizzazione una ulteriore opportunità per guardare con occhi nuovi al bene comune, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
La cultura di un popolo dipende da quello che i cittadini pensano di sé e degli altri, della propria e dell’altrui dignità, dei diritti inviolabili della persona e dei doveri di solidarietà che servono a garantire i diritti di tutti.
Formare le coscienze significa far comprendere che non c’è relativismo culturale che tenga di fronte alla violazione dei diritti inalienabili dell’uomo, come d’altronde recita la Costituzione.
Non possiamo permettere che i nostri figli, il nostro futuro, privati del diritto all’educazione, restino schiacciati sotto il peso dei nostri fallimenti.
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