Oggi esordisco con una poesia.
SONETTO DI PARADISO
Mi viene in sogno una bianca casetta,
sull’erto colle, dentro un’aria affatto
tranquilla; e il verde del colle è compatto
e solitario, e l’ora è benedetta.
Mi viene in sogno una dolce capretta,
che mi sta presso, e mi sogguarda in atto
placido umano, quasi un muto patto
ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.
Volge il sole al tramonto; un luccichio
cava dai vetri, un dorato splendore,
della casetta su in alto romita.
E tutto il dolce che c’è nella vita
in quel sol punto, in quel solo fulgore
s’era congiunto, in quell’ultimo addio.
Da “Cuor morituro (1925-1930)” di Umberto Saba (1883 - 1957)
Le notizie essenziali sull’autore e sulla sua pubblicazione le trovate nell’annotazione bio-bibliografica; il resto – se vi interessa – su Wikipedia. Ma sarebbe meglio fare un giro in Biblioteca. La poesia, per le sue caratteristiche formali, estetiche, e compositive meriterebbe un lungo discorso. Ma non è mia intenzione commentarla qui. Almeno non oggi. Solo chiedo che ognuno la rilegga, per poter continuare a parlarne.
Intanto noto – e faccio notare – che la prima lettura, quella referenziale (cioè la comprensione del testo come semplice atto comunicativo, vale a dire: capire ciò di cui si sta parlando) sembrerebbe alquanto facile. Le parole usate sono tutte parole del lessico quotidiano; e anche il registro, a parte l’effetto ritmico, mi pare un registro familiare. Personalmente, rispetto al mio lessico particolare, di “poco usato” trovo solo le parole “erto” e “romita”, e … , forse, l’espressione “ne legasse” . Altro non riesco a trovare da poterlo ritenere in qualche modo motivo di difficoltà ai fini della comprensione del piano referenziale (come ho detto).
Certamente un altro lettore (con lessico personale e sintassi differenti dai miei) troverebbe altre parole, ed altre espressioni, estranee al suo modo di parlare. Ma tutto sommato – suppongo – non dovrebbero essercene più di due o tre, come per me, anche se collocati in altro luogo. Insomma non più di quante ne ho incontrate io.
Ma allora perché propongo questa lettura? Ecco. Per parlare dell’avverbio “affatto”, argomento di questo mio articolo. Parola che troviamo nel secondo verso della poesia.
Fatta questa premessa, posso iniziare la prevista lezione di semantica. Molte parole sono generate da locuzioni o espressioni, come “marcia-a-piedi”, “arco-baleno”, “va-te-la-pesca”, oppure “a-fatto”, “di-fatti”, “in-fatti”, o anche “a-punto”, “per-ciò”, (e in napoletano: “va’-trova”, “può-essere” o “può-darsi”) le cui componenti poi, una volta agglutinatesi (legatesi l’una all’altra), hanno finito anche con l’essere scritte come unica parola. Ed è proprio ciò che è capitato ad “affatto”. (Ricordo di passaggio che tutti gli avverbi italiani formati con la terminazione (suffisso) “-mente” hanno la stessa origine in questo tipo di agglutinazione; e quello che oggi è un suffisso: “-mente”, all’origine, quand’era separata dall’aggettivo, cioè prima di trasformarsi in suffisso, era un sostantivo. Era proprio “la mente”).
Ora le parole elaborate a partire dalla parola “fatto” significano fondamentalmente “in maniera evidente” cioè: “stando ai fatti”, e valgono “assolutamente”, “completamente”, “del tutto” (quindi valore affermativo); le seconde, composte con “punto” o “mica” significano “per quanto poco” o “per quanto piccolo”. Per cui entrambi i tipi di espressioni se vengono usati al negativo, vanno a significare nel primo caso “per niente” nel secondo “neppure un poco”. Ma devono essere accompagnate da un elemento negativo chiaramente lessicalizzato.
E qui potrei fermarmi. Ma allora, la poesia? Ci arrivo.
Qualche anno fa in una classe liceale di fronte all’interpretazione di questo testo poetico della prima metà del secolo scorso, la totalità degli alunni (una trentina) sostennero che “affatto” avesse valore di negazione, per cui “affatto tranquilla” per essi valeva “per niente tranquilla”; né si accorgevano che con questa interpretazione il seguito della descrizione non era comprensibile, in quanto veniva stravolto tutto il senso della poesia.
Questo per la cronaca. Ognuno poi, in privato, potrà fare la sua prova di verifica. Mentre io continuo la discussione. A parte l’evidente errore di lettura, i poveri ragazzi non avevano tutti i torti. La loro lingua era ancora opaca. Essi usavano segni linguistici secondo la convenzione (sociale) dei loro modelli linguistici di riferimento. E oggi la convenzione è – o sembrerebbe essere – che “affatto” sia una negazione. Lo avvalora la televisione, lo confermano i cronisti radiotelevisivi, qualche giornalista, e addirittura degli scrittori e anche qualche professore. E, ormai, già anche i dizionari pubblicati dopo una certa data.
Questo mio intervento, perciò, non pretende di modificare la convenzione, cioè il modo d’uso corrente oggi, ma vuole (vorrebbe) che ognuno – in particolare i miei amici di scuola media ai quali mi rivolgo, insieme agli emigranti che rientrano in Italia – si ponga di fronte al problema in maniera critica. Ecco la lingua trasparente! Che, per quanto riguarda questo caso, almeno ci consente di leggere, e comprendere, un testo di appena ottanta anni fa.
Tutto questo ci fa capire un’altra cosa, importantissima per la comprensione del concetto di evoluzione linguistica. Cioè che, attraverso l’uso che se ne fa, le parole vanno soggette a trasformarsi, e se non sempre si trasformano sul piano fonetico o morfo-sintattico, spesso possono farlo su quello semantico (del significato). Cioè cambiano il loro significato. Fino a rovesciarlo completamente, talvolta. Com’è il caso di “affatto”. Che in questo momento storico si trova proprio nella sua fase di incertezza. (C’è chi lo usa in un modo e chi nell’altro). L’appuntamento è a tra una cinquantina d’anni per sapere quale sarà stato il suo esito.