Cari lettori, dovete sapere che per me Bob Dylan è come il Dalai Lama per i buddisti e la Regina d’Inghilterra per i sudditi, e quindi se viene in città lo vado ad ascoltare, costi quel che costi, e anche se va in un’altra città che non sia all’altro capo del mondo io salto sul treno o sull’aereo e sono lì due ore prima del concerto, in religiosa attesa a gustarmi l’atmosfera, con le barbe bianche ed incolte dei vecchi hippies e i giovanotti con cappello texano, stivali a punta e camicia a motivi floreali. Ci scambiamo occhiate e siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda e siamo tutti convinti che neanche un invito a cena di Obama o di Naomi Campbell (vabbè ora sto esagerando....) ci indurrebbe a privarci dell’agognato posto nel teatro.
Ripassiamo mentalmente i pezzi che più vorremmo ascoltare ma naturalmente sappiamo già che il vate del Minnesota farà di testa sua e non esaudirà le nostre preghiere.
E così l’altra sera ero puntuale nel kitschissimo United Palace Theater (di norma sede di sermoni evangelici) ad assistere al concerto/rito di His Bobness, il terzultimo prima della conclusione del tour autunnale.
Ad aprire la serata, felice sorpresa, il grande rock’n roller italo-americano Dion Di Mucci (all’anagrafe Dion Francis di Mucci), vecchio sodale di Lou Reed ed altri rifiuti, che ha riscaldato a dovere il teatro con i suoi classici doo wop e rock’n roll. Io ho iniziato a ballare come un orso ubriaco trascinando i miei 95 e passa kg, nessuno rideva per fortuna ma solo perche’ non mi vedevano (ero in ultima fila.......).
Poi è stata la volta di Sua Maest....oooopss volevo dire di Bob Dylan e sin dalle prime note di Cat’s in the Well il vostro fedele ed appassionato cronista notava con malcelata soddisfazione che il Nostro era in gran forma vocale (una rarità di questi tempi allorche’ in certe occasioni la voce del bardo di Duluth assomiglia a quella di una rana....), mentre il grande chitarrista Charlie Sexton, tornato come il figliol prodigo all’ovile dopo alcuni anni di carriera solista, sembrava posseduto dal fantasma di Jimi Hendrix e la chitarra in saturazione ci prendeva la pancia e ci stringeva le budella e mollava la presa solo dopo due ore di estasi. Insomma, cari ed affezionati lettori, se non eravate all’United Palace Theater l’altra sera vi siete persi qualcosa di straordinario e se non mi credete e pensate che ormai Bob Dylan sia roba da ferrivecchi e Jovanotti e Shakira e gli U2 siano la “real thing” ed il sottoscritto abbia le orecchie foderate di prosciutto, beh proprio non so che farci e non posso far altro che impietosirmi per voi.
Già sento le vostre obiezioni: smettila con il tuo tono rivendicativo e saccente e piuttosto spiegaci che c’azzecca un articolo su Bob Dylan su un sito che si occupa di cultura italiana ed italo-americana. State calmi, è la mia risposta, date tempo al tempo e comprenderete il senso di questa lunga e tediosa introduzione.
In breve, cari lettori, mio intento odierno è quello di riflettere sull’inflenza che il
più grande cantautore americano (e non) di sempre abbia esercitato sulla musica italiana nel corso degli ultimi decenni. Mizzica !! nientemeno ! direte, qui ci vuole Umberto Eco o in subordine Ceronetti, come puoi pensare di affrontare un topic così impegnativo con il tuo notoriamente limitato background musical-culturale !?!? io ringrazio per la “fiducia” e provo comunque a cimentarmi e se non vi sta bene sono problemi vostri e prendetevela con Letizia che continua bontà sua a pubblicare imperterrita i miei “scritti”.
Allora, in primo luogo va detto senza ombra di dubbio (e provate a contraddirmi) che il Bardo di Duluth ha esercitato un’influenza decisiva sullo sviluppo della canzone d’autore italiana. Alcuni dei più grandi autori italiani, penso a De Andrè, Bubola, De Gregori, Guccini, sono stati “dylaniati” in varie fasi delle rispettive carriere. Penso a De Andre’ che interpreta Via della Povertà (Desolation Row) o Avventura a Durango (Romance in Durango, tradotta ed arrangiata in collaborazione con Massimo Bubola). Pare anche che Dylan, avendo ascoltato la versione di Romance in Durango, abbia inviato un biglietto di apprezzamento al compianto Fabrizio e l’abbia anche invitato ad aprire i suoi concerti italiani nel 1984, ricevendone in cambio un inopinato rifiuto.......
Penso anche a De Gregori che ha interpretato un pezzo di Dylan nel film Masked and Anonymous (in cui Dylan ha una parte) e che adora a tal punto Dylan da presentarsi dal vivo con una band che assomiglia incredibilmente (nella strumentazione e nel look: tutti vestiti con completi neri) all’attuale band del maestro americano. Anche le interpretazioni vocali e gli arrangiamenti del Principe ricordano il metodo dylaniano, allorchè spesso per capire di quale canzone si tratta si e’ costretti ad ascoltare le parole, dal momento che gli arrangiamenti sono stati modificati radicalmente.
Anche Guccini si è detto a più riprese seguace di Dylan. Quando in un’intervista gli fecero notare che Dylan andava a cavallo nel salone della sua villa californiana Guccini non mancò di replicare: ma no !?! così mi fai cadere un mito !!!.(peraltro trattasi di boiata colossale: sembra che His Bobness abbia semplicemente chiesto metaforicamente all’architetto di disegnare un salone tanto grande da poterci andare a cavallo, che è cosa ben diversa da quanto chiesto dall’intervistatore a Guccini, e comunque se anche Dylan vuole distruggere il salone con il suo cavallo saranno pure affari suoi o no??).
Insomma, potremmo continuare a lungo ma per non tediarvi oltremisura mi pare lecito e doveroso concludere qui, osservando che senza Dylan la canzone d’autore italiana sarebbe stata ben diversa, ed a mio immodesto parere molto meno interessante. Dite, argomentate, intervenite.
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