E’ difficile dire quanto Giuseppe Petrosino, alla vigilia del suo fatale viaggio in Sicilia, avesse intuito del fenomeno mafioso e soprattutto quale coscienza avesse della pericolosità di quella organizzazione criminale.
Quel che è certo è che i suoi elementi di giudizio scaturivano principalmente dalla singolare esperienza di aver visto nascere negli Stati Uniti questa particolare forma di criminalità e di avere esaminato decine e decine di casi .
I ripetuti arresti che aveva operato a partire dalla famosa indagine dell’uomo nel barile nel 1903, ancorchè spesso vanificati da un apparato giudiziario eccessivamente garantista, gli avevano dato la sensazione che la guerra, magari con la concessione di maggiori poteri alla polizia ed era questa la ragione del suo coraggio e della spavalderia che mostrava quotidianamente affrontando da solo uomini rozzi e violenti.
L’America, tuttavia, non era la Sicilia e la differenza profonda tra questi due mondi era che mentre negli Stati Uniti le azioni mafiose e di taglieggiamento , ancorchè confinate nella enclave italiana di Little Italy e di Brooklyn, non solo non avevano consenso sociale, ma erano spesso ostacolate da parte delle numerosissime Mutual aid societies, sorte anche per sollecitare l’autorità costituita alla persecuzione di piccoli e grandi malviventi.
In Sicilia le cose stavano molto diversamente. La mafia costituiva un potere consolidato nel tempo e del tutto alternativo allo Stato. La supina accettazione delle regole mafiose da parte delle comunità occidentali ed interne dell’Isola, rendevano la mafia più forte dello Stato che spesso nei suoi organi centrali e periferici era decisamente connivente con l’organizzazione criminale.
Petrosino, in America si affannava a spiegare che La mano nera non era una organizzazione
unitaria ma una semplice sigla inventata da qualcuno che nei Balcani aveva avuto esperienza di anarchia, utilizzata adesso da piccole bande criminali spesso in conflitto tra di loro per il controllo dei territori. Spiegava anche che questi individui dediti al crimine erano reietti da parte delle società d’origine e che mai in America avrebbero potuto prevalere.
Certo, Petrosino sapeva che la polizia americana non era immune da collusioni con le bande criminali e quanto era accaduto a New Orleans in occasione dei tragici fatti che avevano portato all’uccisione del capo della polizia locale ed al linciaggio di undici siciliani lo aveva mostrato con sufficiente chiarezza. Il sistema, però, - era questa la sua convinzione – era sano e, per togliere il cancro, sarebbe stato sufficiente che la grande Democrazia americana, verso la quale il poliziotto aveva sconfinata ammirazione, si decidesse a concedere poteri e strumenti adeguati.
Non sappiamo esattamente cosa Petrosino pensasse dell’Italia e della Sicilia, prima di partire per la sua nazione d’origine. Il piano predisposto per lui di raccogliere informazioni dirette e soprattutto di reclutare segretamente in Italia una squadra di informatori di fiducia, era motivo sufficiente per giustificare la diffidenza che egli mostra al suo arrivo verso le autorità italiane in generale e verso gli organi di polizia siciliani in particolare. Tuttavia, egli non ha contezza fino in fondo dei pericoli a cui va incontro. Certo, si indigna quando giunto a Roma scopre che il New York Herald, ed a catena altri giornali europei, avevano rivelato la sua missione, ma dentro di se è pronto a comprendere le ragioni elettoralistiche del suo amatissimo capo, autore delle rivelazioni alla stampa.
In Italia, sebbene viaggi sotto falso nome, viene subito riconosciuto prima a Roma e poi nella sua città natale, a Padula, dove una piccola folla gli tributa gli onori dovuti ad un concittadino di fama internazionale. Persino a Palermo, nella trattoria Oreto di Piazza Marina, dove consuma ritualmente i pasti, si accorge che due individui da lui fatti rimpatriare dagli Stati Uniti, lo avevano notato e riconosciuto. Tutto questo, però, non cambia il suo atteggiamento . Rifiuta la scorta offertagli dal questore di Palermo e da solo contatta informatori su informatori con la spavalderia che gli era consueta. In queste condizioni, la sorte del tenente Petrosino è segnata e le cinque revolverate che lo freddano a poche decine di metri dal ristorante Oreto in piazza Marina, la sera del 12 marzo 1909, sono un inevitabile epilogo.
C’è, però, un elemento che, a nostro modo di vedere, spiega più di ogn’altro il suo omicidio, ed è il livello di approfondimento a cui pensiamo che il detective fosse giunto nelle indagini sulla consistenza dell’associazione criminale mafiosa.
Dal suo taccuino di appunti rileviamo che aveva puntato l’attenzione su quel Vito Cascio Ferroche aveva conosciuto ed indagato in America. Sospettato di essere stato mandante o forse anche coesecutore nel delitto del barile, l’uomo era stato costretto ad un precipitoso rientro in Sicilia. E appunto con lui, probabilmente, il detective americano aveva appuntamento in Piazza Marina la sera del 12 marzo.
Nell’Isola, don Vito Cascio Ferro, dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, era rapidamente cresciuto negli affari criminali e con i modi del gentiluomo di rango, nel 1909, era ormai diventato il capo riconosciuto della mafia siciliana. Frequentava i salotti bene di Palermo ed era il diretto patron di una estesa organizzazione politica che eleggeva plebiscitariamente persino un deputato al parlamento nel collegio di Bivona: l’on Domenico De Michele Ferrantelli.
Per intenderci, Don Vito Cascio Ferro non era un mafioso che aveva bisogno di chiedere al politico di turno per ottenere e concedere favori. Era in grado di crearsi da solo la sua rappresentanza nello Stato legale ed aveva una capacità di contrattazione con i poteri forti almeno pari a quella dei mafiosi di età contemporanea che, affrancatisi dalla subordinazione ai politici con i traffici della droga, si creano in proprio una struttura politica di riferimento.
Com’è ampiamente noto su Vito Cascio Ferro e su i suoi accoliti si appuntarono i sospetti degli inquirenti e l’onesto capo della polizia di Palermo, il trentino Baldassarre Ceola, da poco trasferito da Milano, formula subito contro costoro un circostanziato e motivato atto d’accusa. Li deferisce, però, al giudizio di una imbelle magistratura che, a due anni di distanza dall’omicidio, scarcera e assolve tutti per mancanza d’indizi.
Lo stesso Vito Cascio Ferro, arrestato e condannato all’ergastolo per altri delitti nel 1926, nell’ambito dell’operazione Mori, quando non avrà più niente da perdere, confesserà con vanto di avere ucciso Petrosino.
Questi, però, ripeto, sono fatti noti su cui appare inutile soffermare ancora l’attenzione. Ciò che invece mi preme sottolineare in questa sede è che l’onesto Questore di Palermo che aveva sequestrato ed esaminato le carte di Petrosino, nei suoi primi rapporti alle superiori autorità, aveva fatto capire che le indagini del detective americano rivelavano connivenze della mafia con importanti gangli delle istituzioni statali che sarebbe stato prudente esaminare con una certa cura. Lo stesso falso alibi presentato da Cascio Ferro di essere stato per tutta la sera del 12 marzo alla festa elettorale dell’on De Michele Ferrantelli aveva ricevuto conferma oltre che da quest’ultimo, da importanti politici presenti all’evento.
Di ciò Ceola non fa cenno nel verbale di denuncia alla Sezione d’accusa, ma lo zelo con il quale aveva raccolto elementi ed indizi a carico degli imputati e l’attivismo che continuava a dimostrare nelle indagini nonostante che la sezione d’accusa avesse già da tempo cominciato il suo lavoro, determinano l’evento decisivo dell’intera inchiesta. Il 17 luglio 1909, a tre mesi dalla morte di Petrosino, il questore di Palermo Baldassarre Ceola riceve un dispaccio dal Ministero dell’Interno che lo esonera dall’incarico, richiamandolo a Roma. Pochi giorni dopo, viene collocato in pensione col titolo onorario di Prefetto del Regno. Morirà dopo nove mesi, il 1 aprile 1913.
Dopo l’allontanamento del questore, le carte di Petrosino scompaiono e non vengono prese in considerazione neanche dalla Sezione d’Accusa. Vito Cascio Ferro, con l’alone del martire ingiustamente perseguitato, appena scarcerato, riprende il suo posto nell’onorata società.
A distanza di cento anni, a noi che tentiamo di accumulare il giudizio sul piano storico, non resta che sottolineare la singolare circostanza che la sorte del questore Baldassarre Ceola appare identica a quella del prefetto Cesare Mori; il quale, giunto in Sicilia per combattere la Mafia nella seconda metà degli anni Venti, dopo aver fatto piazza pulita di una buona parte dei quadri malavitosi ed aver ottenuto la condanna all’ergastolo per nuovi reati dello stesso Vito Cascio Ferro, proprio quando era sul punto di svelare i collegamenti della mafia con il cosidetto “terzo livello” (aveva preso nella rete il federale di Palermo ed un parlamentare siciliano con importanti incarichi di governo), il 16 giugno 1929, con parole di giubilo viene di colpo messo a riposo e mandato a dirigere un consorzio di bonifica nel Friuli.
Ed , a ben guardare, il tragico destino di Joe Petrosino non è poi tanto diverso da quello di eroi contemporanei come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche loro giunti a svelare i segreti della cupola ed a perseguire i capi riconosciuti dell’organizzazione mafiosa. Come Petrosino, vengono barbaramente trucidati insieme ad altri innocenti a seguito di complotti che lasciano chiaramente intravvedere connivenze politiche ed istituzionali.
Cosa vuol dire tutto ciò ? Che la lotta alla mafia in Sicilia non ha fatto un passo avanti dall’omicidio di Petrosino ad oggi? Probabilmente no. Il livello di consenso sociale alle organizzazioni criminali in Sicilia e grandemente diminuito e la lotta alla mafia fatta da uomini determinati e coraggiosi come il procuratore Grasso beneficia non poco del nuovo clima instauratosi nell’Isola dopo gli eventi tragici degli ultimi anni. Le distorte logiche di un sistema politico ancora rozzo e distante da una democrazia effettiva sono, però, ancora di grande intralcio ai generosi tentativi di estirpare la mafia e le sue connivenze. Oggi, come ieri, occorre non abbassare la guardia, ma occorre soprattutto una costante vigilanza critica da parte di tutti coloro – ed ormai in Sicilia sono tanti – che hanno maturato la coscienza che la guerra può essere vinta soltanto con il puntiglioso rispetto di tutte le forme di legalità anche negli aspetti più trascurabili della spesso faticosissima vita sociale e politica siciliana.
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Il Professor Marcello Saija. è ordinario presso la Facoltà di Scienze. Politiche. Università degli Studi di Messina.
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