Ieri mattina ho visto Lo spazio bianco di Francesca Comencini e The Men who Stare at Goats di Grant Heslow, con il supercast all stars composto da George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges e Kevin Spacey.
Sfogliando il press book del film della Comencini si legge che la vicenda drammatica di una donna che vive il dramma della figlia nata prematura che lotta per la vita nell’incubatrice è ambientato sullo sfondo di una Napoli che «con le sue imperscrutabili contraddizioni, si rivela lo scenario ideale per chi comincia a capire che la vita e la morte, la speranza e la paura sono aspetti della stessa realtà». Altrove, nelle interviste e nelle piccole sinossi rilasciate a beneficio della stampa, leggo di una città «mai così sporca, mai così degradata».
Bene. Questa donna, che si chiama Maria e ha il volto di Margherita Buy, fa l’insegnante in una scuola media serale di un rione periferico di Napoli. Per cui, volendo, ci sarebbe stato anche un pretesto narrativo “goloso” per dipingere veramente lo squallore e il degrado, quelli veri, della città partenopea, per mostrarne i problemi reali, per far sì che l’ennesima stolida vicenda familiare che il cinema italiano ci racconta avesse un contrappunto di denuncia (magari anche metaforico) di una certa forza. Invece, nonostante il press book ci lasci intuire una Napoli simile alle città di Blade Runner o Seven, il “degrado” si esaurisce in un’immagine: le formiche. Sì, le formiche infestano la casa di Maria e quella di un magistrato sua vicina di casa (ma perché? perchè inserire personaggi senza uno scopo? Premetto di non conoscere il romanzo di Valeria Parrella e di non essere in grado di stabilire la paternità di questi elementi che ho trovato incongruenti). Per il resto, non c’è traccia di tutto ciò che Napoli ha vissuto in questi ultimi mesi. Delle contraddizioni irrisolte che la attraversano. Non c’è traccia di quello che sta capitando nella società italiana.
Terminata la proiezione di Lo spazio bianco, rientro in sala. The man who stare at Goats. Film divertentissimo, grande cast. L’avventura militare americana in Iraq riletta in chiave tragicomica, allegorica, metaforica. Spietato e surreale. Mi dico, a questo punto: è dall’inizio della mostra che vedo film americani che rileggono la storia recente degli States, che ne fotografano la società, che cannoneggiano quanto è accaduto nella società e nella politica americane in questi ultimi anni. Anche quando è di genere (e in Italia non lo è MAI), il cinema non si scorda mai di quello che accade intorno. The Road, Life During Wartime, Capitalism: A Love Story, The Informant, The Men Who Stare at Goats, South of the Border. Sicuramente anche Survival of the Dead di George Romero, in programma domani. Tutti, ma proprio tutti questi film si prestano a letture e riflessioni simboliche, metaforiche o aperte che riguardano il presente storico, il qui ed ora di una nazione. In Italia, in concorso, un film che si ha la presunzione di pubblicizzare come connotato da un’ambientazione degradata, oltre ad essere un pessimo, pessimo film, ha il solito sfondo di cartapesta. Credo che questo restituisca tutta la misura della differenza che ci sia tra l’Italia e gli States a livello di autocoscienza collettiva: dopo otto anni catastrofici, là si volta pagina e si rilegge il passato prossimo. Qui, l’orizzonte sembra plumbeo come quello sopra il mare di The Road.
Marco Muller è, a mio giudizio, un ottimo direttore di festival. Sotto la sua direzione, tutte le edizioni sono state di livello e di spessore. Quando è stato sotto la media, come l’anno scorso, è accaduto perché intorno (vedi Toronto) non c’era di meglio. Merito suo e dei selezionatori.
C’è una pecca, però. I film italiani in concorso. Da anni, ormai, con poche eccezioni, sono brutti. A volte sono film che per qualche motivo riescono male, che forse non dovrebbero stare in concorso ma che hanno comunque un margine di discussione critica. Baarìa è un brutto film, ma è cinema. Può piacere (poco), può non piacere (ai più). Sicuramente è anomalo come film d’apertura di un’edizione tutto sommato di grande spessore. Lo spazio bianco, invece, come Un giorno perfetto dello scorso anno, è un film che in nessun altro festival potrebbe trovare spazio. Guardiamo le produzioni. Medusa, il primo. 01-Rai, il secondo. Non aggiungo altro, se non che Il grande sogno di Michele Placido, in programma oggi, con il suo '68 pop, tamarro e vuoto, è targato Medusa.
Il dazio da pagare c’è sempre, evidentemente. E allora paghiamolo, e speriamo che Muller continui a fare così bene il suo lavoro.
A risollevare il morale di noi poveri italiani resta solo il film di Capotondi, La doppia ora. Speriamo in bene.
Source URL: http://iitaly.org/magazine/article/cinema-venezia-autocoscienze-e-dazi-doganali
Links
[1] http://iitaly.org/files/10928themenwhostareatgoats1252536187jpg
[2] http://www.youtube.com/watch?v=mRZf2AhIFFE
[3] http://www.youtube.com/watch?v=qszzV1tkzoE