La scelta di spogliarsi della interezza del proprio nome comune prima, Bernadette, e della D apostrofata poi, che introduce il suo dolce cognome, Amore, arriva già in matura età, a simbolo di inizio di una nuova vita. E così gradualmente la B. è andata ad associarsi, nella mente di chi la conosce e la segue, ad un’assonanza col verbo inglese ‘Be’ che coniugato al suo cognome racchiude, quasi inconsapevolmente, l’essenza di ciò che vuole realmente trasferire con la sua arte. Forse questo nome, così imponente, vaporoso, le ha dato a un certo punto della sua vita la sensazione che il suo messaggio non potesse essere così immediato. Cosa che contrariamente la lettera B subito evoca. Il viaggio che ha portato B. a realizzare questo ‘multi-libro’ (così ci è piaciuto identificarlo durante l’intervista) è lungo dieci anni. Dieci anni di ricerca, studi, esposizioni, lavoro, interviste ai discendenti degli immigrati e ai suoi familiari, insieme alla conservazione di oggetti di famiglia. L’esposizione che visivamente raccoglie tutto il suo lavoro, da lei creata e curata nel 2000, ha avuto luogo a Ellis Island, seguita poi da altri lavori quali Dreams of Freedom Museum a Boston, o il Godwin Ternbach Museum di New York, insieme a esposizioni fotografiche sia presso la Galleria 54 e il Centro Studi Americani di Roma che a San Severino, Salerno.
Sei stanze al terzo piano dell’ex-centro di immigrazione sull’isolotto di fronte a Manhattan, allestito unicamente dall’artista all’insegna del ‘life line’ - il filo della vita, quel filo che ha unito le generazioni della sua famiglia insieme a tutte quelle italiane americane.
Una serie di racconti in immagini, sculture, composizioni, collages e iscrizioni a riunire il passato e il presente, lungo l’arco esistenziale di sette generazioni, con uno sguardo al domani. Questi racconti hanno poi trovato una nuova forma narrativa nell’ideazione di un libro che, a sua volta, le contiene tutte. Si possono così dare diverse definizioni di esso: visual novel, novel fotografico, reportage, libro d’arte, ecc. Il libro è ognuno di queste definizioni e insieme un ampio mosaico che le interseca tutte. Non ultimo poi, si tratta di un libro vero e proprio fatto di scrittura, racconto narrativo che alterna la ricostruzione storica dell’immigrazione italiana americana a quella delle sue famiglie: la famiglia Di Iorio e la famiglia D’Amore. Concludono l’affascinante storia, una serie di saggi, “Commentary on Life line”, di autori e studiosi italiani americani, quali Fred Gardaphé, Joseph Sciorra, Robert Viscusi, ed Edvige Giunta tra gli altri. La traduzione, garantita dal Ministero degli Esteri Italiano, eseguita da Franco Bagnoli, ha poi attraversato un ampio e curato lavoro di revisione delle dott.sse Caterina Romeo (che ha anche tradotto due dei saggi finali, “Concetta De Iorio’s Granddaughter Remembers” di Joseph Sciorra e “Memory and the Art of Feminist History …” di Jennifer Mary Guglielmo) e Clara Antonucci che hanno saputo cogliere in modo eccellente soprattutto le sfumature delle voci intervistate.
Tutto ha inizio quel giorno in cui vede all’opera suo nonno, intento a lavorare sulla pietra: un’attrazione fatale sin da subito, cui anche il nonno tiene gelosamente, tanto da scansarla perché disturbato dal suo avvicinamento. Colpita, lei ritrae la mano facendo un passo indietro con rispetto e le mani trattenute, ma in trepida attesa di riusarle un giorno. Immersa nel libro che mi ha donato per l’incontro, trovo quello strumento che l’aveva tanto affascinata, il piccone, incastonato nel resto di un barile, reliquia del Nonno Antonio. Negli anni il piccone diventa un simbolo culturale ereditario a scavare testimonianze personali e collettive che trovano appunto spazio e respiro in questa grande Odissea dell’immigrazione. “Lavorare con la pietra”, afferma “è come lavorare con la storia”. Una constatazione che mi lascia “impietrita” appunto perché “in effetti”, spiega, “la pietra di qualsiasi edificio, monumento o statua, è l’unico elemento ricco di stratificazioni accumulatesi con gli anni ad informarci sul passare del tempo, e il solo toccarla è come toccare con mano gli eventi, la storia”.
Storia, Memoria, Presente e Futuro guidati da uno strumento come l’arte che riesce ad interpretare, ricostruire e porre le basi affinché il patrimonio accumulato non sia solo nostalgia, ricordo, bensì insegnamento e invito a guardare tutti dentro le proprie storie. Tra le opere inserite nel libro ed esposte ad Ellis Island molto interessanti e rappresentative del concetto appena espresso, “pietra=storia”, sono a mio avviso quegli “Ancestors Scrolls”, i “Rotoli degli Antenati”, composti da strati di seta velati e sul lato posteriore da materiale trasparente. All’interno, a seguire un ipotetico corpo umano, la scrittura che racconta la storia di quell’antenato. In realtà i veri protagonisti del libro sono proprio loro: gli antenati. Mi racconta come in una confessione le modalità che ha seguito per comporre questi rotoli: guidata dalle voci che aveva intervistato (anche contrastanti tra loro come spesso accade nei ricordi), dai documenti conservati, i diari, le lettere. Ed è veramente come riavvicinarsi alla storia e allo stesso tempo come farne parte in qualche modo.
A questo punto dell’intervista il meccanismo prefissato di domanda e risposta lasciano il posto a un dialogo, una chiacchierata tra la portavoce della storia e una relatrice del presente quasi a supplemento del libro: un’ulteriore forma d’arte come strumento della ricostruzione storica.
Sono curiosa di sapere da B. Amore in che modo i ricordi, le esperienze personali dei suoi antenati si sono intersecate in quelle collettive relative a tutta l’esperienza italiana americana. Sfogliamo il nostro “multi-libro” e ci fermiamo davanti a due pagine che raffigurano una sua installazione del 1998 circa: nove tavolette munite di ruote, con sopra marmi e pietre provenienti dal Trentino, e ancora sopra gli oggetti appartenenti alle sue due famiglie, la borghese e la contadina, a loro volta rette e contornate da un tessuto nero. Il tutto a misura e forma umana. “Il tessuto”, spiega B. Amore nella prefazione, “sempre presente durante la mia infanzia, e insieme elemento così fondamentale nelle vite delle donne della famiglia”. E il tessuto, così come il piccone, riappare nelle sue opere d’arte come elemento non puramente decorativo ma come ‘collante’, strumento che tiene insieme gli oggetti della memoria.
Ed ecco i personaggi dell’Odissea pararsi davanti. “La scelta delle ruote”, mi fa notare, “è dovuta al senso di movimento che ho voluto dare al tutto; per far intendere al pubblico che quei personaggi erano ancora lì e soprattutto non figure immobili di un quadro ma persone vere che hanno vissuto”. In terra, alcune pile disseminate di ‘linen’ - biancheria - a loro appartenute. D’un tratto queste immagini rispondono alla mia domanda senza la necessità di porla. Gli oggetti posti a formare delle persone, che raccontano l’essenza di ognuna di esse non sono oggetti inanimati, reliquie tout court. Il loro movimento trasferito dalle rotelline svela sia quanto ancora vivi nei ricordi e dunque “personaggi” nel presente essi siano, sia il loro ruolo simbolico, archetipo di tutti gli immigrati. Pare di vederli: tanti, in massa di tutte le classi, i generi, le identità e le provenienze mescolati; spaesati prima e sempre più coscienti della nuova doppia identità e cittadinanza poi. Soprattutto mescolati: contadini e commercianti, braccianti agricoli e proprietari terrieri, lavoratori instancabili tra pietre e picconi e avvocati, artisti e insegnanti. Una tale mescolanza prima impensabile, poi, nel Nuovo Mondo, reale. Fattore, questo dell’unione tra diverse classi sociali, testimoniato proprio dalle origini delle due famiglie di B. Amore. I personaggi che si riconoscono nelle composizioni tenute insieme dai tessuti sono principalmente donne. E le donne sono protagoniste di questa vicenda, dell’Odissea. A cominciare da Concettina De Iorio, la capostipite.
Nella prefazione al libro, l’artista parla di come il dialetto del suo paese, Lapio vicino ad Avellino, l’avesse segretamente accompagnata durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. Segretamente perché le era proibito, doveva parlare la lingua appropriata, ufficiale (italiana o inglese) e di come tale dialetto sia divenuto parte integrante della sua doppia identità come codice segreto: un ulteriore codice linguistico per comunicare al di là delle espressioni convenzionali e ufficiali. Quindi una scelta vera e propria, non la sola possibilità. E’ questo carattere distintivo che fino ai 25 anni circa d’età le instilla l’idea che essere italiani è proprio questo: parlare inglese e in alcune occasioni italiano (ossia dialetto), gli altri sono tutti americani! Anche chi ha discendenze irlandesi, inglesi, francesi o ebraiche senza dare un senso spregiativo alla cosa. E’ soltanto dopo che elabora il concetto di ‘italiano americano’, della duplice discendenza. Che ne prende coscienza.
L’approccio che B. Amore dà attraverso la sua arte, come spiega via via che scorro il libro e altri photographic books che mi mostra, è quello dell’artista che rende le vite ordinarie della gente comune in eventi straordinari. Ed è ciò che succede sia con il libro che attraverso la mostra: le voci della gente comune con i loro ricordi “unmarked by history” divengono importanti testimonianze, gli anelli mancanti del discorso storico. Il tema comune di entrambi i lavori è indubbiamente il viaggio: il viaggio come ricerca, scoperta e avventura. Il tutto confluisce poi in un racconto unico corale.
Ciò che insieme abbiamo definito il “multi-libro”, in una definizione apparentemente molto semplice, si presenta come un prodotto culturale innovativo rispetto a quelli esistenti e soprattutto fuori appunto dalle definizioni che dall’esterno, un critico, uno scrittore o un giornalista possono dargli. E’ B. Amore stessa ad ammettere la sua non ingerenza dello sguardo critico quando le domando come si pone il libro di fronte a quell’architettura ufficiale e/o letteraria che annovera al suo interno diversi generi tranne quelli autobiografici, memoirs, lettere. Le diverse sfaccettature che compongono il libro hanno avuto, e si spera avranno ancora, la funzione di trasmettere, insieme a ciò che è stato della mostra, alle persone tutte il senso della storia personale insieme a quello più ampio storico-collettivo; lo scoprire, cioè, attraverso le piccole storie personali delle similitudini con le proprie e allo stesso tempo l’importanza che ognuna di esse ricopre nella ricostruzione storica umana.
A questo proposito mi è sembrato molto rilevante, tra gli aspetti che hanno accomunato le storie personali famigliari di B. Amore e quelle di tutte le famiglie italiane americane, quello legato al servizio militare che gli uomini italiani americani hanno svolto per gli Stati Uniti nella loro patria d’origine durante la seconda guerra mondiale. Nel libro, due pagine vengono dedicate al racconto storico del ruolo che essi ricoprirono in Italia o in altri avamposti e alla loro considerazione in quel momento storico in suolo americano. (“Some were forcibly evacuated to internment camps without due process, others had to observe strict curfews and carry ID cards..”). Nelle stesse pagine una lettera di Tony D’Amore, il padre, rivolta a Nina, la madre, mentre svolgeva servizio nella Nuova Guinea. Il senso d’ imminente non ritorno, l’orrore della morte gli fanno riversare su carta tutto ciò che era possibile in quel momento: il futuro dei figli, l’educazione che intendeva dargli, l’amore e la stima per la moglie.
A questo punto le definizioni, gli spazi ristretti in cui si vuole racchiudere un’opera o più opere come in questo caso non hanno più senso logico. Il piccone è passato a B. Amore così come la scrittura, l’arte di armonizzare i tessuti e tutti sono convogliati in un’unica espressione artistica. L’augurio è quello che la lettura di questo libro possa immergervi nel viaggio della conoscenza così come a trovato me immersa nel mare della storia.
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