Articles by: Luigi Casale

  • L'altra Italia

    Alla scoperta delle parole. Fatti (affetti, confetti, difetti, infetti, perfetti, ...)



     
    Affetti, confetti e difetti sono chiaramente dei sostantivi, cioè sono parole che, per l’ordinario, possono sostenere un articolo davanti – gli affetti, i confetti, i difetti – e, per loro costituzione, hanno una forma per il singolare e una per il plurale (quella che si chiama “opposizione” e viene rappresentata graficamente: affetto/affetti). Le altre due (insieme anche ad affetto) sembrerebbero degli aggettivi, cioè: parole che oltre ad avere la opposizione singolare/plurale, hanno anche quella maschile/femminile: parole quindi che si accompagnano (e perciò accordandosi) ai nomi [es.: Le cose perfette. Le cose infette. ].


    Ma se poi le andiamo ad esaminare, noteremo anche che qualcuna di queste ultime è in grado di reggere un complemento [Esempio: “affetto da una malattia”; “infetto da contagio”], perciò dobbiamo riconoscere che esse sono piuttosto dei Participi perfetti (lupus in fabula!). Come tali, quindi, anche se nella lingua parlata non esiste il verbo da cui provengano, o non lo conosciamo, esse sono pur sempre elementi di un verbo (o almeno, come tali le utilizziamo).

     
    Ricapitoliamo. In maniera sintetica ed essenziale le parole in esame dovrebbero significare, rispettivamente :

     
    Affetto (1) (sost.) =         sentimento dell’animo come “amore”, “attaccamento”.
    Affetto (2) (part.) =          “preso da ...”, “attaccato da ...”, “contagiato da ...”.
    Confetto (sost.)   =         prodotto dolciario.
    Difetto (sost.)      =          sinonimo di imperfezione, mancanza.
    Infetto (part.)      =         “contaminato”.
    Perfetto (agg,)    =          “senza alcun difetto”.
     

     
    Fin adesso, limitandomi alla lingua italiana, ho parlato di significato delle parole e di categorie grammaticali e loro modalità di uso. Comunque,  resta una lezione di semantica. Ora, se consideriamo che queste parole sono la forma italiana di  altrettanti “participi perfetti” di verbi latini, potremo risalire al loro significato originario (quello più antico), e così la lezione si trasforma in lezione di semantica storica. 
     

     
    Le corrispondenti parole della lingua di Roma, cioè i participi perfetti dei verbi latini (di cui quelle italiane sono l’evoluzione moderna), sono:

     
    “ad-fectus, adfecta, adfectum” (come a scuola, vengono indicate le tre forme         dell’aggettivo: una per il maschile, una per il femminile, una per il neutro),          participio perfetto, dal  verbo adficio/adficere;
    “con-fectus, -a, -um”   dal verbo conficio/conficere; 
    “de-fectus,   -a, -um”   dal verbo  deficio/deficere;
    “in-fectus,    -a, -um”   dal verbo inficio/inficere;
    “per-fectus, -a, -um” dal verbo perficio/perficere;
     
    A bene osservare questi participi perfetti, a nessuno dovrebbe sfuggire che essi, dopo il prefisso che è variabile, hanno tutti, in comune, come elemento strutturale, la radice “fect”. O che il prefisso, nella maggior parte dei casi, è una preposizione. Quindi ....

     
    Allora ve lo dico io: i verbi afficere (ad+facere), conficere (cum+facere), deficere (de+facere), inficere (in+facere), perficere (per+facere) sono verbi composti del verbo facio/facere [paradigma: facio; feci; factum; fàcere; è così che a scuola si riconoscono – e si chiamano – i verbi latini], che in italiano si traduce con “fare”.

     
    Così come vi dico anche che: fàcere, unavolta divenuto – grazie al suffisso – un  verbo composto, trasforma il suono della vocale da “a” in “i” (fàcere/conficere). E la stessa cosa capita a factum, che però la trasforma in “e” (factum/infectum). Perciò abbiamo adficere/adfectum; conficere/confectum (da cum+factus); deficere/defectum; inficere/infectum; perficere/perfectum. Questo fenomeno si chiama mutazione vocalica, o apofonia, o umlaut: cioè la vocale cambia colore a seconda di dove si trova.

     
    Praticamente – possiamo dirlo adesso! – alla base del significato di tutte le parole che stiamo esaminando in questo articolo c’è sempre l’idea del fare, leggermente modificata dalla presenza della preposizione come prefisso: ad+facere = fare presso ..., o fare verso ... (opprimere, attaccare);  cum+facere = fare con ... (mettere insieme); de+facere = fare da ... (allontanamento: perciò mancare); in+facere = fare in ... (portar dentro qualcosa che rende vano il fare); per+facere = fare per ... (fare completamente: portare a termine).

     
    A questo punto non ci resta che fare le nostre deduzioni e tirare la conclusione. E vedremo così che la nostra lingua, almeno per quanto riguarda queste parole, diviene sempre più trasparente.
    Prima però dovremmo sottoscrivere un patto di alleanza, tra voi, lettori destinatari del messaggio, e me, emittente, con l’obbligo delle due parti, di consultare un dizionario italiano e un dizionario latino per controllare di persona se tutto quanto da me raccontato sia vero e corrisponda al dato di fatto, base di partenza della discussione. 

     
    Allora vi renderete conto che consultare il vocabolario non serve solo a conoscere ciò che non si sa, ma anche a rendere più comprensibile quello che già si sa. E’ questa la  differenza tra lingua opaca e lingua trasparente.


     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Appiccià-stutà



    Abbiamo già trattato le parole “accendere” e “spegnere” (oltre alla parola “estinguere”). Perciò ho pensato di andare a visitare le corrispondenti parole napoletane “appiccià” e “stutà”. Per chi ritiene sia poco limitarsi in questo tipo di ricerca all’origine latina delle parole oppure allo spostamento di significato per via di metafora, vorrei precisare che questo nostro impegno è orientato  soprattutto a fornire un metodo di lavoro. E mi pare che si possa tranquillamente dire che al punto in cui siamo questo obiettivo sia stato raggiunto. 
     
    Così il primo passo è fatto.  Eventuali ulteriori sviluppi alla ricerca delle origini delle parole possiamo sempre tentarli, sia che continuiamo a risalire il tempo della storia sia che ci spostiamo in ambiti disciplinari affini o confinanti. Però dobbiamo allontanare da noi l’illusione di raggiungere il capolinea di questo percorso, a meno che non si voglia mantenere la presunzione di penetrare l’atto creativo dell’origine del linguaggio.   
     
    Dunque, accendere, spegnere e estinguere, etimologicamente parlando – come a suo tempo abbiamo  evidenziato, fanno parte della sfera lessicale (insieme di parole che ruotano intorno ad un tema)  del “colore” e della “luce”. E faccio notare di passaggio che anche nella lingua francese, sebbene esistano sinonimi appartenenti ad altre sfere lessicali, alcune parole corrispondenti alle italiane “accendere e spegnere” (“allumer” = ad-luminare   e  “éteindre” = estinguere) si ascrivono alla medesima sfera lessicale, in quanto presentano gli stessi tratti semantici.
     
    Ora mi resta di far vedere i tratti semantici che caratterizzano “appiccià” e “stutà”. 
    Appiccià = ad-piceare (pix = pece; piceus = imbevuto di pece; picea = abete [resinoso]); quindi “appicciare” = “avvicinare alla pece, alla resina” ( sostanza che infiamma).  
    Stutà =  ex-tutare (ex = allontanamento; tutus = sicuro); quindi mettere al sicuro, allontanando (dal fuoco, evidentemente!).
     
    Allora scopriamo che, rispetto ad accendere e spegnere (o estinguere) dove si insisteva sugli effetti luminosi delle due operazioni dell’accendere o dello spegnere il fuoco, i vocaboli napoletani di appiccià e di stutà  evidenziano invece l’atto di avvicinare la sostanza infiammabile (nel caso di appiccià), e quello di mettere al sicuro il focolaio (stutà) con l’allontanamento della fiamma. Ciò dimostra che nella formazione  del  significato si è passati da una percezione  sensoriale dei fenomeni alla rappresentazione di una operazione meccanica. 
     
    Fin qui ci siamo mossi operando solo sulla scorta delle parole. Ma lavorando in collaborazione con gli storici (delle istituzioni, dei costumi, dell’economia, della cultura materiale) o con altri esperti delle diverse discipline del sapere, i risultati ai quali si giunge possono essere verifica e conferma alle ipotesi del linguista. Con questo credo che ora, piano piano, si vada definendo anche la portata dell’espressione “lingua trasparente”, tante volte utilizzata nei nostri articoli.


  • Arte e Cultura

    Viaggio nelle parole. I nomi del mese


    BRESSANONE (Bolzano) - Gennaio; febbraio; marzo; aprile; maggio; giugno; luglio; agosto; settembre; ottobre; novembre; dicembre. Sono i nomi dei mesi dell’anno. Sono trascritti con l’iniziale minuscola – pur essendo oggi dei veri e propri “nomi propri” – in quanto all’origine essi erano semplicemente degli aggettivi. Queste origini cercheremo di vedere qui di seguito.


    Non chiedetemi però perché i mesi siano dodici. Né perché essi abbiano una durata differente in termini di numero di giorni. Una cosa intanto possiamo notare, che nel tempo si è definita e ci è stata consegnata.


    Ed è che da Gennaio a Luglio si alternano un mese più lungo e un mese più corto: Gennaio (31 

    gg.), Febbraio (28/29 gg.), Marzo (31 gg.), Aprile (30), Maggio (31), Giugno (30), Luglio (31). Poi da Agosto a Dicembre si interrompe l’ordine della successione per ripartire di nuovo da un mese lungo: Agosto (31), Settembre (30), Ottobre (31), Novembre (30), Dicembre (31).


    E di nuovo il ciclo ricomincia. Eternamente. Sicché nel ritmo dei mesi, due volte nell’anno si susseguono due mesi da 31 giorni: Dicembre / Gennaio; e Luglio / Agosto.


    Se tutto questo abbia una ragione scientifica o culturale, non so. Bisognerebbe chiederlo agli astronomi. Noi ne seguiamo la storia civile, quella delle riforme, delle leggi, dei provvedimenti, delle consuetudini radicate nel tempo, e... delle parole. Diciamo perciò -  per ora - che si tratti di un dato culturale.

     
    L’attuale sistemazione dell’anno civile è il risultato politico di tutta una serie di credenze, di intuizioni, di scoperte, di risposte ai problemi, spesso anche pratici, che l’uomo ha cercato di dare alla misurazione del tempo cercando di rimanere in armonia con le leggi della natura. E’ frutto quindi  di razionalità ed esperienza. In prospettiva economica, naturalmente: come in tutte le cose umane.    
     
    Passiamo ora al numero dei giorni dell’anno, di cui posso dirmi più sicuro. Almeno mi sembra. Essi sono 365;  366 ogni 4 anni. I cosiddetti anni bisestili. E so anche che il numero dei giorni dipende dalla lunghezza dell’orbita che la terra percorre ruotando intorno al sole, misurata con il numero di volte che essa ruota su se stessa per percorrerla. I due movimenti determinano i giorni e l’anno. Tutto è relativo! La terra per percorre la sua orbita intorno al sole, poiché gira anche su se stessa con un asse inclinato rispetto alla direzione dei raggi solari, impiega 365 giorni (cioè 365 giri su se stessa) . Quindi, se consideriamo il sole immobile, sono 365 alternanze di buio e di luce . 
     
    Ma dopo 365 giri che la terra fa a guisa di trottola inclinata, alla fine non è completato interamente  il percorso (l’orbita) intorno al sole. Infatti rimane ancora un pezzettino per raggiungere il punto di partenza, un pezzettino equivalente a un po’ meno di sei ore: cioè circa un quarto di un giro della terra su se stessa.


    Fino al tempo di Cesare nessuno ci faceva caso; però nel tempo col passare degli anni le stagioni si spostavano. Gli antichi allora, con decreti dei sacerdoti preposti a questo compito, ogni tanto inserivano nell’anno dei mesi intercalari, aggiunti in maniera estemporanea, all’occorrenza. Evidentemente ogni popolo prendeva i suoi provvedimenti autonomamente, così com’erano autonomi e indipendenti i criteri della misurazione del tempo. Ché, certamente, non potevano coincidere.
     
    La riforma di Giulio Cesare – che, data l’estensione dell’imperium Romanorum, coinvolse una vasta area del mondo conosciuto – stabilì che ogni quattro anni nel mese di febbraio, dopo il 24° giorno (che si chiamava “sextus ante Kalendas martias”, cioè: “sesto giorno prima del 1° marzo”, o sestultimo di febbraio) si inserisse un giorno in più (il bis-sextus: il sestultimo per la seconda volta). Infatti dopo quattro orbite intere che la terra compie intorno al sole, la somma dei (quattro) pezzettini – un po’ meno di sei ore – corrisponde quasi alla durata di una giornata (in più).


    E poiché il 24 febbraio, secondo il modo dei Romani di chiamare i giorni, era detto “sesto giorno [diem sextum] prima delle Calende di marzo”, il secondo “diem sextum” fu detto “bis-sextum”. Da ciò l’aggettivo bisestile che andò a denominare l’anno che conteneva questo giorno aggiunto. Oggi che chiamiamo i giorni diversamente, negli anni bisestili invece  di ripetere il 24 febbraio, aggiungiamo il 29. 
     
    Con il provvedimento di Cesare, però, si andava oltre il compimento dell’orbita solare, anche se solo di un poco. Restava comunque un inconveniente. Alla distanza sarebbe stato sempre necessario qualche giorno, per mettere l’anno alla pari e far coincidere così le stagioni. A correggere questa sfasatura intervenne la riforma del Papa Gregorio XIII. Si decise così che in occasione di determinati anni bisestili non si aggiungesse la giornata in più.


    E per recuperare tutta la eccedenza accumulatasi negli anni già trascorsi dal tempo di Cesare a quello di Gregorio, fu necessario allora eliminare dal calendario 11 giorni. Così quell’anno, il 1582, anno della riforma del calendario di Gregorio XIII, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. In seguito solo gradualmente la riforma fu accettata in tutta Europa. 
     
    Prima di quella di Cesare, stando agli storici, c’era stata la riforma di Numa Pompilio, il secondo re di Roma. Sembrerebbe confinata nel mondo della leggenda, seguendo la interpretazione che fa anche di Numa un re eponimo. (Il nome Numa indicherebbe un periodo di stabilizzazione delle leggi). Ma a riscattarla dall’alone di leggenda e ad avvalorarla di un fondamento di storicità intervengono da una parte il nome stesso di Numa se lo si considera indice di un periodo di riforme e di normalizzazione, dall’altra  il nome dei mesi dell’anno, che ancora oggi chiudono il ciclo dell’anno con settembre, ottobre, novembre e dicembre (chiaramente di derivazione numerale). Questi sono gli elementi a sostegno della credibilità storica della riforma di Numa. 
     
    Numa, infatti, rappresenta “il legislatore”, colui che ha dato le istituzioni civili alla città. Questo periodo storico – che certamente c’è stato ma di cui ignoriamo la durata e forse il numero stesso dei legislatori succedutesi in quell’epoca, certamente più di uno solo – è riassunto nel nome stesso del re che la tradizione ci consegna come organizzatore dello Stato e creatore delle leggi. Il vocabolo νόμος [nòmos] è proprio “legge”. Inoltre, come ho detto, il fatto che alcuni mesi si chiamino ancora “settembre”, “ottobre”, “novembre” e “dicembre” è segno evidente che  all’origine i mesi, indicati con un aggettivo numerale, non superassero i dieci.


    Perciò se in epoca storica se ne contano dodici, è evidente che qualcuno ci ha messo mano, aggiungendo, all’inizio del computo, due nuovi mesi. Di questa riforma la storia ufficiale fa il nome di Numa. Se poi la determinazione del numero dei mesi  in dodici sia già opera di Numa, oppure egli sia limitato a fissare a dieci il numero dei mesi (mente qualche altro in seguito  l’abbia portato a dodici) diventa secondario per la nostra indagine. 
     
    Ciò che conta è il fatto che già a quei tempi si cercava di provvedere ad “eliminare il precedente disordine” (o ciò che si riteneva tale), come narra Tito Livio. Anche gli storici antichi non sempre si mostrano di unanime parere. Resta comunque che i legislatori hanno sempre cercato di far coincidere l’anno sociale ed economico, che dava ordine alla vita degli uomini, con l’anno astronomico che naturalmente dà ordine ai ritmi della terra..   
     
    C’è da dire che presso gli antichi le motivazioni di carattere politico e sociale si trasformavano in provvedimenti di carattere religioso; e così dovette succedere anche per ovviare agli inconvenienti derivanti da queste sfasature temporali, quando esse divenivano palesi.


    Attraverso periodici rituali venivano inserite le giornate mancanti (mesi intercalari). Tuttavia, poiché tutto avveniva in maniera empirica (ed estemporanea) restava pur sempre il margine di incertezza che alla distanza, in un arco di tempo più lungo, riproponeva lo squilibrio. Gli astronomi e i matematici lo sapevano; ma forse anche i contadini se ne accorgevano.


    Da questa consapevolezza nacque la riforma di Giulio Cesare. In suo onore, quello che già era stato il quinto mese, e che conservava ancora il nome “quintilis”, si chiamò Iulius. [Aggiungiamo qui che anche il mese “sestilis” in seguito cambiò nome, e divenne Augustus in omaggio ad Ottaviano Augusto].
     
    Seguendo il ciclo del sole, ci siamo dimenticati della luna. Anche la luna in rapporto alla terra (cioè, rispetto alle modificazioni periodiche che apporta alla terra, o che si possono notare dalla terra) era un mezzo per misurare lo scorrere del tempo. Anzi, a parte l’alternarsi di notte e giorno, era quello che più degli altri accompagnava la vita degli uomini nel computo delle giornate. Sul ciclo della luna (circa 28 gg.) si calcolò il mese. La radice indeuropea *men  indica la “luna”, e il derivato “mensis” (mese) è l’aggettivo per dire “lunare” [ciclo o percorso]. E molto probabilmente proprio sulla base del ciclo lunare si stabilì la settimana, che richiama le fasi della luna. Da mensis viene anche il nome del ciclo della fecondità femminile della specie umana. 
     
    Non va trascurato tuttavia il fatto che ogni popolo avesse il suo sistema di calcolo e il suo particolare calendario. Noi intanto ritorniamo alle parole, dicendo che calendario deriva dal nome Kalendae, con cui i Romani chiamavano il primo giorno del mese, e l’insieme delle cerimonie religiose che vi si praticavano. In effetti venivano proclamate (kalère = chiamare) le due feste del mese che erano la base per il conteggio dei giorni: le Idi, a metà mese, e le None, nove giorni prima. Ma forse c’erano altri “richiami”, come scadenze, rinnovo di contratti, o far memoria dei tempi dell’attività agricola. Comunque il tutto serviva a dare ufficialità all’avvio del nuovo mese, onde evitare che si creasse qualche confusione nel popolo. 
     
    Kalendae – lo dico per chi ha dimestichezza col latino – è un gerundivo e significa: [le feste] “che devono essere proclamate”. Quanto al nome dei mesi abbiamo già detto che esso è un aggettivo: all’origine un numerale. E, quasi sempre, era accompagnato dal sostantivo “mensis”. Quelli che oggi non sono indicati col numerale hanno preso, nel tempo, il loro nome, originato da feste, divinità, o personaggi storici.. 

     
    Ianuarius da Ianus (il dio Giano) o da ianua (porta), in quanto è l’inizio dell’anno.
    Februarius  da februa (purificazione), una festa religiosa.
    Martius da Mars (il dio Marte). 
    Aprilis da  aperio (aprire: aperto, soleggiato). 
    Maius da Maia (la dea Maia). 
    Iunius da Iuno  (la dea Giunone).
    Iulius da Giulio (Cesare).
    Augustus da Augusto (Cesare Ottaviano).
    September; October; November; December, restano il ricordo di quando l’anno contava dieci mesi ... e forse attendono dei personaggi benemeriti a cui essere dedicati.

  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole: “Hebdo” "Hebdomadaire"


    Avevo appena pubblicato l’ultimo mio articolo di etimologia (storia dei significati e  storia delle culture) il quale ha per titolo “il nome dei giorni della settimana”, quando, per i tristi fatti di questi giorni, è saltato alla ribalta della cronaca il nome del “settimanale”  satirico Charlie Hebdo (insieme alle tragiche giornate che hanno stravolto la vita della Francia, dell’Europa e del Mondo).

     
    Sapendo che “hebdo” è l’abbreviazione della parola francese hebdomadaire – italiano: ebdomadario; proprio: “settimanale” – mi sono quasi sorpreso con me stesso di non aver mai scritto un pezzo divulgativo su questo tipo di aggettivo.   

     
    Perciò, la mia prima reazione, da pubblicista dilettante, da linguista appassionato, da attento osservatore dei comportamenti umani, da curioso ricercatore delle influenza culturali, da illuso ottimista circa la possibilità di un umanesimo rispettoso e tollerante, è stata quella di parlarne subito. Ma, prima, ho pensato di esprimere  tutta la solidarietà al giornale dilaniato, il cordoglio alle persone e alle famiglie colpite dal lutto, nonché la testimonianza alla Nazione offesa nei suoi principi di libertà e di democrazia, mostrando nello stesso tempo lo sdegno per una assurda violenza. Cosa che faccio subito: con alta nella mano – simbolicamente – la matita e la tessera di giornalista.

     
    Tuttavia, a confronto con la prova suprema di libertà e di coerenza, scontata con la vita, che è toccata all’intera redazione di Charlie Hebdo, il mio lavoro di intellettuale e di giornalista oggi mi appare una tiepida testimonianza. La mia scrittura, una slavata pagina di disimpegno – ma solo apparentemente, a ben riflettere. Infatti nel mio articolo sui nomi della settimana, sulla falsariga delle argomentazioni di carattere linguistico, concludevo con una riflessione abbastanza interessante sulla commistione (influenze?, stratificazione?, selezione?) delle culture, che ha caratterizzato la storia del bacino del Mediterraneo; e in particolare, per quanto riguarda l’Europa, la cultura classica antica di derivazione greca e romana, quella ebraica; quelle universalistiche: ellenistica, poi cristiana; e per finire quella germanica, fino a quella araba, che porteranno il loro apporto nella cosiddetta Età di mezzo.

     
    Perciò, continuerò a svolgere il mio lavoro intellettuale, di ricercatore e di divulgatore, con la speranza che la ambita “trasparenza della lingua” che di solito mi propongo possa esprimere un impegno morale e civile orientato alla conoscenza delle verità scientifiche, alla dignità della persona umana, al miglioramento del benessere dei popoli nella giustizia sociale, al rispetto reciproco nelle relazioni umane.

     
    E con questa speranza concludo con la mia nota di etimologia. “Ebdomadario” , aggettivo e sostantivo, è parola anche italiana, per quanto in disuso. Ed è strettamente legata all’aggettivo numerale “sette”. Latino: septem; greco: heptà, hebdomàs (il numero sette), hebdomàda (settimana), hébdomos (settimo).
    Nella lingua italiana oltre ad essere usata, come parola dotta, per dire appunto “settimanale” in una certa epoca si era specializzata per indicare o il libriccino dove sono raccolte le preghiere settimanali (in genere le antifone ai salmi) o, per traslato, la persona (il monaco corista) che durante la recita comunitaria dell’Ufficio divino era incaricato di intonarle. 


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. Il nome dei giorni nella settimana



     
    Il nome dei giorni della settimana è una delle prime cose che si insegnano ai bambini. Come i diti della mano, o i mesi dell’anno: un apprendimento seriale. Per tenere allenata la memoria: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato; e poi domenica. Certamente la suddivisione del tempo in settimane non è della tradizione classica occidentale. Essa fa parte della cultura ebraica. Vedi il racconto biblico della Creazione. E l’origine dei nomi dei giorni?
     
    Intanto diciamo che a rigore la settimana, così com’ è oggi, non comincia dal lunedì; anche se la settimana lavorativa – diciamo quella civile, o quella abitudinaria – sì. Infatti, se stando alla tradizione ebraica il sabato è il “giorno del riposo”, allora questo giorno non può essere che il settimo. Ne abbiamo conferma nel passo evangelico in cui si racconta che “il giorno dopo il sabato” Maria Maddalena (e, successivamente, Pietro e Giovanni) trovò la tomba vuota. Quindi quel giorno era – ed è – il primo giorno della settimana; quello che in seguito i cristiani chiamarono “giorno del Signore” (dies dominica), e che noi chiamiamo ancora “domenica”.
     
    Abbiamo detto “dies dominica”. Dove “dominica” è l’aggettivo derivato da dominus = il Signore, e “dies” è un nome che significa “giorno”. Questo nome della 5^ declinazione latina, come sanno gli studenti liceali, era trattato a seconda delle situazioni contestuali a volte come femminile a volte come maschile. Così, nella penisola italica, una volta caduta “la” dies, l’aggettivo dominica, sostantivandosi, è divenuto un nome femminile: “la domenica”. Mentre nell’area delle province occidentali, e quindi nella lingua francese e in quella spagnola, caduto “il” dies, l’aggettivo dominicus è diventato da una parte “le dimanche” (francese), dall’altra “el domingo” (spagnolo): entrambi nomi maschili.
     
    “Dies”, che probabilmente accompagnava sempre anche tutti gli altri nomi dei giorni della settimana, e che nel caso della “domenica” si è eclissato, nei rimanenti cinque giorni si è mantenuto trasformandosi nel suffisso “–dì” (lune-dì, ecc.). Faccio notare poi che la stessa parola “dies” è presente come voce autonoma nella lingua italiana, ed è il nome tronco: “di’” [da diem]). Vedi l’espressione augurale: “Buon dì!”. Oltre che l’aggettivo derivato “diurno”.
     
    Parlavamo degli altri cinque giorni. Essi, escluso il nome del “sabato” sono dedicati ai personaggi dell’Olimpo Romano. Scomparso Apollo dal primo giorno, divenuto  domenica per i cristiani (“il sole” però, quanto al nome, si è mantenuto nelle lingue anglosassoni), sono rimasti Diana (la luna: anch’essa presente nelle lingue anglosassoni), Marte, Mercurio, Giove e Venere. Il nome del “sabato”, invece, ha conservato la forma della lingua ebraica.
     
    Quindi i nomi della settimana, così come ce li ritroviamo oggi, rappresentano i segni nella nostra lingua di presenze di cultura classica (romana), ebraica e cristiana conviventi nella stessa civiltà. Di questi tre filoni, o meglio della loro sintesi (sincretismo), noi conserviamo la matrice, oltre che nelle parole, anche nella formazione ideale, quella che comunemente si dice la mentalità. Sulla quale poi si sono sovrapposte con maggiore o minore incidenza anche la cultura germanica (le cosiddette “invasioni barbariche”) e quella araba, considerando che quella greca e bizantina erano già componenti di quella classica.  
     
    Nel linguaggio ufficiale della chiesa, che non poteva certo avere simpatia per i nomi di divinità pagane, il nome dei giorni della settimana, a parte il primo, denominato come abbiamo detto “dies dominica”, gli altri, sono designati col numerale: feria secunda, feria tertia, feria quarta, feria quinta, e feria sexta. dove feria è la parola latina che significa “festa”. Ancora così sono chiamati i giorni della settimana nella lingua portoghese. Anche da noi, come in tutta la cristianità, - chi va in chiesa il Giovedì Santo lo sa - quella festa si chiama “Feria quinta in cena Domini” (La quinta festa della settimana dedicata alla commemorazione della cena del Signore).
     
     
     


  • L'altra Italia

    Avvento 2014. Pensando al Natale


    I libri che aprono il Nuovo Testamento della Bibbia cristiana sono quelli dei quattro evangelisti: Matteo, Marco, Luca e Giovanni. I quattro autori sono certamente personaggi storici; ma quello che non si sa è se sono stati veramente essi gli autori degli scritti loro attribuiti. I testi di cui disponiamo furono scritti in lingua greca: quindi di letteratura greca si tratta. Anche se si può tranquillamente supporre che alla base di ognuno dei quattro testi letterari ci sia stata una fonte orale in una delle lingue ebraiche: tradizione locale di singole comunità, consolidatasi nel libro istitutivo di quella stessa chiesa locale.  


    In seguito la necessità di tradurre in greco il testo dei racconti evangelici, come pure il libro degli Atti degli apostoli, fu dovuta al clima di universalità del contesto culturale, cioè l'ellenismo, in cui la nuova religione andava diffondendosi, caratterizzato da un essenziale bilinguismo: latino in occidente, greco in oriente. Con le classi dotte, a Roma e ad Atene, come a Gerusalemme o ad Antiochia, in grado di dominare le due lingue principali.


    Successivamente - ma già siamo oltre l'editto di tolleranza emanato da Costantino nel 313, e ancora più avanti, dopo quello di Teodosio che del cristianesimo aveva fatto l'unica religione riconosciuta - la Bibbia fu tradotta anche in latino (da San Girolamo), a mano a mano che la nuova religione si espandeva da oriente ad occidente, quando ormai era divenuta un'importante realtà sociologica e morale. Perciò ci piace leggere i testi sacri ancora in latino, o richiamare idee e concetti in lingua greca, per avvicinarci dove possibile al testo originale.


    Nel racconto di Luca così si legge l'episodio della nascita di Gesù:  "Gloria in altissimis Deo et super terram pax in hominibus bonae voluntatis”.  (Lc. 2, 14)

    Dopo che gli angeli se ne tornarono in cielo, i pastori dicevano tra di loro:

    “Transeamus usque Bethlehem et videamus hoc verbum, quod factum est, quod Dominus ostendit nobis”.  (Lc. 2, 15)

    “Et venerunt festinantes  et  invenerunt Mariam et Ioseph et infantem positum in praesepio”.  (Lc. 2, 16)

                                                                                 

     * * *


    “Gloria a Dio nelle sfere più alte; e, sopra la terra, pace in mezzo agli uomini di buona volontà”.

    È l’annunzio che i pastori ascoltarono dagli angeli. Come risposta, essi furono solleciti ad andare a vedere:

    “Passiamo da Betlemme, a vedere questo annuncio, che è successo, che il Signore ci mostra”.

    E andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe, e il bambino adagiato sulla mangiatoia.

     

    Basterebbe un’attenta lettura del brano evangelico per capire il senso pieno del Natale, il nucleo stesso degli auguri che, davanti al Presepe – rappresentazione plastica della scena raccontata da Luca – in questi giorni ci scambieremo. L’onore (doxa) a Dio, la pace (eirene) in mezzo agli uomini di buona volontà (eudokia) e la corsa a Betlemme, a vedere che cosa ci mostra il Signore. E incontrare infine la santa famiglia e il Bambino della mangiatoia.


    In questa scena così descritta – in maniera essenziale e soprattutto completa nei suoi particolari – dove si colloca ognuno di noi? Due certezze: Dio è in alto, e noi non siamo gli angeli. Noi siamo o i pastori destinatari dell’annuncio i quali subito si affrettano, o forse piuttosto ci troviamo in mezzo agli uomini, presumendo di essere tra quelli di buona volontà, per i quali i messaggeri di Dio fomentano la pace.


    E se fossimo gli altri, gli esclusi, i sofferenti, quelli di cattiva volontà? Ma anche se ci trovassimo nella terza ipotesi c’è speranza di salvezza. Saremmo comunque quelli per i quali il Bambinello la notte di Natale sorride dalla mangiatoia, perché per tutti noi è venuto a compiere la sua missione: il sacrificio della Croce. Ognuno troverà risposta nell’intimo della sua coscienza.  


    * * *


    Il racconto di Luca è unico e originale. Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto; Marco inizia direttamente con la predicazione di Giovanni il battista; Giovanni, l'evangelista, invece fa una profonda disquisizione filosofica. Noi, intanto, atteniamoci alla funzione pedagogica dei simboli (credo che questa sia la finalità dei testi sacri).


    Antropologicamente parlando, la fede è un cammino ... incontro a Dio: è la nascita in noi dell'uomo nuovo che ha bisogno, per crescere, di speranza. La certezza ci dovrebbe venire da altro. Se è vero quello che si racconta, Galileo diceva che la sua bibbia era il cielo stellato. E noi, non potremmo, anche noi, vedere la presenza di Dio nelle nascite, nelle morti, nell'amore, nella bellezza, nel creato, in tutto ciò che ci meraviglia? E, se vogliamo, anche nel travaglio quotidiano.


    Perciò, nell'anelito di salvezza, collochiamoci davanti al presepe con l'atteggiamento dei pastori, uomini tra gli uomini, e andiamo a vedere a Betlemme. Poi, se pensiamo di essere di buona volontà, aspettiamoci il dono della pace. Non credo che saremmo così ingrati da pensare di essere di una volontà mal disposta. Che non siano vani i nostri auguri!


    Il Natale è una festa nel senso pieno della parola, non una formalità. E che lo sia, veramente, per tutti. Auguri ! E allora, contestiamo pure il consumismo; ma teniamo vivi nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, i valori della festa e del dono centrali in questa ricorrenza.


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle Parole. CAROSELLO


     
    Qualche giorno fa, a proposito della mia attività di studio i cui risultati vado producendo in questa rubrica, mi è capitato di dover rispondere ad un amico il quale mi chiedeva perché nella ricerca etimologica su di una parola napoletana da me pubblicata non avessi considerata un’altra ipotesi, diversa dalla mia, che a lui sembrava più felice. La mia soluzione appariva vaga e cervellotica, mentre la sua poteva sembrare più naturale al fenomeno che si voleva spiegare, tale che la parola meglio – secondo lui – si sarebbe adattata al senso pratico dell’oggetto denotato.
     
    Non potendo riassumere i principi, le regole, le leggi, le metodologie, le scuole, e tutto il resto, che sono alla base dello studio della linguistica o che vi ruotano attorno, tutte cose che in qualche modo utilizziamo nella ricerca etimologica, ho dovuto giustificarmi, dicendo che nel fare la ricostruzione della storia di una parola per tentarne il recupero dell’originario significato, passando attraverso le successive modificazioni e tutti i cambiamenti fono-morfologici e semantici, mi servo, in aggiunta al modesto patrimonio che mi resta delle conoscenze professionali, oggi sempre di più, della consultazione di testi teorici e di vocabolari. Ora però devo aggiungere, a scanso di equivoci, che non parlavo di Vocabolari Etimologici, i quali, altamente specialistici, danno già la risposta – anche se, come in tutte le discipline, non sempre è quella definitiva – a tutte le parole di una lingua, a parte pochissimi lemmi (pochi in  relazione alla stragrande vastità del patrimonio lessicale preso in esame) che vengono dichiarati di origine incerta.
     
    Io parlo dei normali Dizionari per studenti o per famiglie, i quali hanno l’abitudine di indicare la parola originaria, latina o greca (ma anche di molte lingue moderne). Così nulla toglie che chiunque possa verificare personalmente, con un po’ di impegno e tanta buona volontà, prima di avventurarsi in un percorso di difficile frequentazione. Questo è l’avvio da cui mi muovo. Il resto mi è dato da lunga esperienza di pratica professionale.
     
    Poi, però, a conforto di ogni ipotesi di lavoro o delle soluzioni ritrovate, devo ricercare delle attestazioni documentarie delle varie fasi di trasformazione, siano esse morfologiche o semantiche; perciò, tante letture orientate a definirne i contesti linguistici, sociologici, storici, e culturali che hanno influito sul mutamento. La stessa metodologia ho applicato nella ricerca etimologia della parola Carosello (napoletano: Carusiello). Le riporto entrambe, perché, pur essendo l’una calco dell’altra, sul piano dei significati esse appaiono due parole distinte.
     
    Mentre carusiello è viva nella parlata napoletana, la forma italiana carosello è un termine opaco. introdotto nella lingua a prescindere dai suoi più antichi significati. Quasi una parola dotta se penso a come essa sia stata adottata per indicare la rinomata, e oggi quasi proverbiale, trasmissione televisiva che ad una certa ora della sera dava l’avvio ai programmi per gli adulti, agli albori delle emissioni televisive in Italia. Il Carosello creava lo stacco tra la fascia oraria dell’informazione e il resto della serata destinato agli spettacoli di fiction artistico-letteraria o a quelli definiti “leggeri” e “di evasione”. Nel breve spezzone teletrasmesso si faceva pubblicità in forma piacevole ad alcuni prodotti commerciali. Metafora di un “carosello” d’altri tempi (evidenziato anche nella grafica) per cui nell’arena si cimentavano le Case produttrici.
     
    In effetti questo, a parte il traslato metaforico, è l’unico significato della parola carosello (in italiano): quello di una corsa sfrenata e disordinata di soggetti, cavalieri o mezzi meccanici. Oggi “carosello” o “carosello storico” è l’annuale giostra dei carabinieri a cavallo nell’ippodromo di piazza di Siena di Villa Borghese a Roma. Ed è anche, per analogia, il turbinio di vetture della polizia, o dei carabinieri, quando si danno all’inseguimento di vetture sospette. 
    Invece il carusiello (quello napoletano da cui poi è venuto il significato alla voce italiana “carosello”, come gara di giovani valletti) mantiene ancora le sue originarie accezioni in base ai diversi referenti che ancora denota la parola ( “piccolo caruso”: la piccola testa rasata, o – per traslato – il salvadanaio di creta, tanto noto nel meridione d’Italia).      
     
    Negli anni 50, uno dei primi film a colori (in cui si rappresentava attraverso una serie di canzoni la vita animata del popolo napoletano) si chiamava appunto Carosello Napoletano (1954). Dove, si sovrapponeva alla metafora della colorata vivacità del popolo la sequela delle canzoni che la descrivevano e la sublimavano. Oggi si direbbe una commedia musicale. Per cui non si capisce se il “carosello” doveva essere la vita movimentata e avventurosa oppure la rassegna delle canzoni nelle quali essa veniva sintetizzata.
    * * *
    Per lungo tempo si era creduto che la parola fosse di origine straniera. Forse francese: “carrousel”, che indica la giostra sfrenata di cavalli o di altri veicoli in un’area circoscritta; perciò come tale la si considerò derivata dal latino carrum [carretto] o, meglio ancora, currus [carro]. Semplicemente perché le parole si assomigliavano; e anche i significati in qualche modo, ché nell’uno e nell’altro caso rimandavano ai carri. Ma non si era preso in considerazione né l’area di diffusione della parola, né la sua storia legata a manifestazioni praticate (e perciò presenti) in certe realtà sociali.
     
    Fu Benedetto Croce che mise in discussione la ricostruzione fatta da W. Meyer-Lübke nel Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW) giungendo ad altra conclusione, riconosciuta ormai anche dagli stessi dizionari francesi. (Vedi: Dictionnaire de la langue française – Le Robert pour tous – [1994], secondo il quale “carosello “ è una voce di origine napoletana: “Nome di un gioco – da “caruso”, testa rasata – nel quale i giocatori si lanciavano delle palle dalla forma di teste”). Ho tradotto alla meglio.
     
    A questo proposito mi piace riportare anche il lemma “carosello” del Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli (Firenze 1971).
                “Carosello s. m. 1. Specie di torneo o parata di cavalieri, con vari giochi ed             esercizi,             introdotto a Napoli dagli Spagnoli nel sec. XVI. 2. Giostra (per             divertire i ragazzi nelle             fiere). …. 3. Movimento vorticoso di vetture in uno             spazio limitato. …. 4. Carosello             tranviario, l’anello formato dai binari a un             capolinea.
                [Dal napoletano carusiello “palla di creta” (equivalente a “testolina di             caruso” o ragazzo)             perché i cavalieri giostranti si lanciavano reciprocamente             palle di creta. ]
    Fine della citazione. 
    * * *
    Nel Seicento quindi si praticava a Napoli, importato dalla Spagna – come detto – ma di origine araba, il gioco delle canne o dei cavalli, in cui dei cavalieri lanciavano punte di canne o palle di creta (“i carusielli”). Ancora oggi noi chiamiamo “carusiello” un identico oggetto di creta offerto ai bambini per custodirvi le poche monete risparmiate durante la giornata (altrove chiamato “il porcellino” o “il kirieleison”). Quindi il carusiello è una piccola testa rapata. Ma “testa”, prima di significare capo, significa terracotta: infatti oggi chiamiamo “testa” proprio il vaso di terracotta dove coltiviamo le piante ornamentali. Quindi se il coccio di terracotta è passato a significare anche capo è solo perché già nell’antichità si producevano terrecotte a forma di capo umano (o per le statuette votive o per le urne cinerarie, oppure per conservare nei loro lineamenti le immagini di persone trapassate).
     
    Concludiamo: carusiello = vaso di terracotta dalla forma di testa rapata, da carosare o carusare (tosare), a sua volta dal latino cariosu(m) (corroso). E rimando alla voce siciliana: “caruso” (ragazzo). Una volta quando c’era il barbiere di quartiere all’angolo della strada tutti i ragazzi fino ad una certa età portavano il “caruso”, forse per necessità pratica (o più esattamente igienica). Ma ancora mio padre usava il termine “scaruso” per dire che ero uscito senza aver preso il cappello.
     
    Prima di siglare questo articolo vorrei segnalare la pagina di lettura da cui ho tratto la maggior parte di queste informazioni, diciamo: da dove ho tratto lo spunto per parlarne. L’opera è L’ETIMOLOGIA di Alberto Zamboni, Ed. Zanichelli (Bologna 1979). Basta andare a pagina 160. Con questo voglio dire ai lettori e ricordare a me stesso che non sempre quello che produco è farina del mio sacco; mentre invece è tutta mia la sensibilità, insieme ad alcune argomentazioni. Oltre alla “leggibilità: una certa godibilità della scrittura”, come una volta ha detto il mio professore Antonio Carosella.
     



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    Viaggio nelle parole. “Cicero pro domo sua”



    Nell’anno 58 a.C., caduto in disgrazia, Marco Tullio Cicerone (106 – 43 a.C.), uomo politico, ma più ancora oratore, filosofo e letterato, fu mandato in esilio per aver condannato a morte, nel 63, mentre era Console a Roma, i seguaci del senatore Lucio Sergio Catilina, arrestati dopo aver sventato, egli stesso, la congiura ordita da Catilina. In quella inchiesta Cicerone fu accusato di non aver rispettato la procedura costituzionale. Si trattò infatti di un processo sommario la cui condanna a morte non fu sottoposta a conferma da parte dei tribuni della plebe. Perciò Cicerone, esiliato, subì anche la confisca dei beni. E così sull’area della sontuosa domus che si era costruita  sul Palatino fu edificato un tempio alla Libertà. Ma graziato subito l’anno successivo, al suo rientro a Roma intentò una causa allo Stato mirante ad ottenere un ulteriore risarcimento per la casa distrutta e la sua riedificazione a spese pubbliche.
     
    L’orazione (arringa, discorso giudiziario) che tenne, la tradizione letteraria l’ha registrato col titolo “de domo sua” ( = per la propria casa). Anche se non si è certi che l’orazione giunta fino a noi sia stata effettivamente quella pronunciata da Cicerone davanti al Pontefice massimo per reclamare i suoi diritti. Da quella volta, “De domo sua” ( o “pro domo sua”) è divenuto il motto, l’emblema, la bandiera di chi nei processi, nelle controversie, nelle discussioni – forse anche nella politica – parla esclusivamente per i suoi personali interessi.  
     
    Questo il dato storico che spiega il senso della espressione divenuta ormai proverbiale; e se in quest’opera di divulgazione ho deciso di passare dall’esame di singole parole alle intere frasi, l’ho fatto per spiegare (provare) che non solo le parole hanno un loro significato, ma anche gli enunciati (le frasi intere), e così tutte le unità linguistico-letterarie, a tutti i livelli di comunicazione, a partire proprio dai fonèmi. Ogni suono, ogni parola, ogni stringa di parole, piccola o grande, utilizzati nella comunicazione, se sono portatori di informazione, diventano significativi in quanto hanno – tutti – un significato: dalla “a” di cane, che ci fa distinguere la parola cane da altre parole come: cene o cine, fino ad un testo lungo quanto un’opera di letteratura (sia essa pagina di cronaca, romanzo, o poesia).
     
    Se come esordio ho scelto la frase latina che riproduce il titolo di una famosa orazione ciceroniana la quale (frase) bene si è adattata in generale a tante altre situazioni, è perché anch’io mi ci vedo, nella casistica. Cioè, anch’io parlo nel mio interesse, “pro domo mea”. Infatti – ecco il mio interesse! E ... la mia debolezza confessata: la munificenza e la prosopopea – avevo intenzione di offrirvi in un blocco solo una settantina di lemmi (vocaboli) di cui in un paio d’anni ho raccolto la etimologia, costruendo su ognuno di essi un’ipotesi: si tratta di una settantina di articoli pseudoscientifici (qualcun altro avrebbe detto semiseri) a carattere divulgativo da destinare ai miei amici studenti delle scuole secondarie. Ebbene ora quegli articoli sono consultabili su un sito di paese, di una cittadina della Campania, sul Golfo di Napoli, interessante per la sua storia, famosa per le sue acque, piacevole per il suo ambiente climatico, paesaggistico, naturale; in altri tempi attiva per i suoi opifici, oggi dal futuro incerto per la sua gioventù, ma ancora con un ricco patrimonio di valori e di cultura su cui fare affidamento: Castellammare di Stabia.


    Ed ecco il link: http://www.liberoricercatore.it/?page_id=3567 (www.liberoricercatore.it), dove trovare l’elenco disponibile delle parole da consultare.
     
    I motivi effettivi, però, che mi hanno indotto ad aprirvi questo deposito di materiale letterario sono due. Uno: per non dover ripetere, io, un lavoro già fatto. Due: perché ritengo che in quelle pagine siano custodite, a saperle ricercare, tante di quelle informazioni che potrebbero essere utili a meglio comprendere le ulteriori cose che continuo a scrivere anche per altri lettori.
     


  • L'altra Italia

    Viaggio nelle parole. REX


    Attraverso la comparazione delle lingue più antiche, vicine e contigue e, in un certo senso affini perché derivate da una sola lingua preistorica, è stato possibile, a partire dalla fine del Settecento, perfezionare un metodo di ricerca che ha portato gli studiosi alla definizione della lingua comune originaria – ipotizzata – e alla ricostruzione della cultura (istituzioni, vita sociale,  costume, cultura materiale) del gruppo umano che l’ha espressa. Ad entrambe, lingua e cultura,  è stato dato lo stesso nome:  “indoeuropeo”, designando così anche il popolo che quella lingua doveva  aver parlato.


        Partito dal Caucaso l’Indoeuropeo (cultura e lingua), attraverso le migrazioni preistoriche di intere popolazioni o per osmosi tra popolazioni vicine, si è esteso ad un’ampia area geografica che va dall’India all’Atlantico, e dal Medio-Oriente fino al circolo polare artico, generando così nel corso dei millenni le lingue storiche prese in esame dai glottologi comparatisti. Quelle estinte e quelle moderne ancora vigenti, da esse derivate. Le antiche lingue del ceppo indeuropeo, sono: ittita, indo-iranico, greco, illirico, italico, celtico, germanico, baltico, slavo. Ognuna delle quali ha generato numerose lingue moderne. [Vedi: Tavola delle lingue indoeuropee (pag. 501) in “Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee” Vol. II, Potere, Diritto. Religione, di Emile Benveniste (Torino 1976). Titolo originale: Le vocabulaire des institutions indo-européennes; II - Pouvoir, droit, religion -  (Paris 1969)].


        Lo studio e la comparazione di singole parole presenti in alcune, o in tutte, le lingue contemplate, ha permesso di ricostruire un sistema di radici indeuropee, indispensabile per l’approfondimento degli studi di etimologia e di semantica, a sostegno della conoscenza, seppure indiretta, della civiltà indeuropea. Lavoro arduo, ma affascinante. Nel Capitolo primo dell’opera citata (pagg. 291 – 296, Vol. II,  della traduzione italiana a cura di Mariantonia Liborio) Benveniste esamina la radice <reg> di rex (parola latina che traduciamo comunemente con “re”, e conclude (riferendosi alle aree – e alle lingue – in cui è attestata la presenza di questa radice indeuropea):


        “ ... il rex così definito assomiglia più a un sacerdote che a un sovrano. È questo tipo di regalità che i Celti e gli Italici da una parte, gli Indiani dall’altra, ci hanno conservato.     Questa nozione era legata all’esistenza dei grandi collegi di sacerdoti che avevano come funzione quella di perpetuare l’osservanza dei riti. C’è voluta dunque una lunga evoluzione e una trasformazione radicale per giungere alla regalità di tipo classico, fondata esclusivamente sul potere e perché l’autorità politica diventasse a poco a poco indipendente dal potere religioso che restava riservato ai sacerdoti.”


        Senza la pretesa di entrare in tutti i passaggi del lavoro scientifico portato avanti dal Benveniste, vorrei condurre per mano il lettore affezionato in un percorso analogo – nonostante la sua insignificanza, al confronto – a  quello seguito dal nostro autorevolissimo studioso, passando in rassegna alcune parole latine che hanno conservato la radice <rex>. Cosa che ci dovrebbe portare alla fine alla piena comprensione della portata delle corrispondenti parole della lingua italiana, almeno di quelle maggiormente in uso, e che prenderemo in considerazione.


        Sappiamo dalla storia che, superata la fase mitica delle origini (leggendarie) della Città, quella dei sette re, a Roma non c’è mai stata una magistratura civile chiamata con questo nome. Anzi, proprio in riferimento ai sovrani orientali, in qualsiasi epoca era viva nella coscienza del cittadino romano l’avversione verso chi cercasse di instaurare un regime personale assoluto. L’astuzia politica di Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero, fu proprio di non accentuare questo aspetto del suo potere, definendosi “privato cittadino” dopo le guerre civili e la restaurazione della Repubblica (a sue spese); nello stesso tempo si faceva attribuire dal Senato, a vita,  l’imperium dei Consoli (quello di condurre in guerra le legioni)  e la potestas dei Tribuni (quella di porre il veto alle leggi del Senato, insieme alla sacrosanctitas – la prerogativa dell’intangibilità, che non permetteva a nessuno di toccarlo. Egli resta il Princeps, il primo dei cittadini, il più importante (che non è una magistratura costituzionale), anche se si fa attribuire il titolo di Augustus  (autorevole persona di riguardo; neppure questa, una magistratura).    


        L’Impero Romano, per quanto sia soggetto all’arbitrio del sovrano, non è esattamente quella che si chiama “monarchia”. Quanto ai sette Re delle origini di Roma, la critica storica concorda con le conclusioni di Benveniste. Infatti essi, senza mettere in discussione il fondamento storico del racconto leggendario, effettivamente sembrano più sacerdoti che sovrani monarchici. La stessa analisi dei loro nomi ce li mostra come personaggi simbolici che proprio nei nomi sintetizzano alcune caratteristiche del periodo storico attribuito ad ognuno. Romolo (da Roma), Numa (la legge), Ostilio (lo scontro o l’ospitalità), Marzio (il guerriero), Tarquinio (periodo estrusco), Servio (origine plebea), Tarquinio (nuova egemonia etrusca) .

        

      Intanto, però, la figura del Rex è presente a Roma durante tutta la sua storia, ed è un personaggio che nulla ha a che fare con la vita politica, ma esercita esclusivamente una funzione religiosa.  


    Ed ecco le parole latine formate dalla radice <reg>. Oltre a rex, c’è il verbo rego (it.: reggere) che significa : tener diritto, guidare, condurre, dirigere, il cui participio è rectus (= retto, diretto, diritto, in linea retta). Da rex deriva il femminile regina (= regina, principessa, guida), l’astratto regnum (= regno, governo, ecc.), il diminutivo regula (= riga, squadra, strumento che fa andare diritto; e anche regola), regio (= direzione, linea; e anche regione).

        Da “rego”  si formano i composti dìrigo (de+rego) e còrrigo (cum+rego) che significano rispettivamente: dirigere e disporre in linea retta, il primo; raddrizzare e correggere, l’altro. I loro participi  sono: directus (diretto) e correctus (corretto). Oltre a corrigia (correggia, cinghia).


        Prima di passare al lessico italiano voglio segnalare i fenomeni fonetici per cui alcune consonanti si sono trasformate. In particolare:

    -    La gutturale sonora (g), davanti alla dentale sorda (t), diventa sorda come la dentale, cioè “c” (suono: k). La stessa cosa succede quando si trova davanti alla “s”.

    -    Per apofonia la vocale “e” (della radice reg-) si trasforma in “i”.

    -    Il composto corrigo (cum+rego) diviene còrrigo: oltre all’apofonia c’è l’assimilazione della <m> davanti alle <r>di “rego”.  


        Ed ora, finalmente, passiamo alla sfera lessicale delle parole italiane:

    re, regina, regno, reggere, retto, retta, rettore, regione, regola, riga, righello,

    dirigere, diretto, diritto, dritto, direttore, direzione, dirigibile, correggere, corretto,  correzione, correttore, correggia; ... e il napoletano curreja (cinghia), che i nostri padri usavano come “strumento di correzione”.

                                     















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    Viaggio nelle parole. Accendere e spegnere


    Apparentemente nella lingua italiana, accendere e spegnere trovano la loro pertinenza (cioè si adattano con determinate parole affini per significato) solamente con il fuoco. Tutte le altre cose che si possono accendere o spegnere sono frutto di metafora. Quindi si accendono e si spengono tutte le cose che danno esca al fuoco. Ma se cerchiamo la radice etimologica delle due parole, avremo una grande sorpresa. Che la loro area semantica è quella della luce e del colore. Praticamente il loro primo tratto semantico è quello di evidenziare non tanto il fenomeno chimico della combustione che per l’uomo antico è misterioso, quanto piuttosto il suo effetto visivo che innegabilmente è una percezione istintiva anche per l’uomo antico.

     
    Immaginate il rapporto col fuoco da parte degli esseri irrazionali. Al confronto l’uomo, pur ignorandone la causa, del fenomeno intuisce (poeticamente) la differenza tra acceso e spento in termini di luminosità e di colore. Notiamo infatti che nelle parole che stiamo esaminando manca il tratto semantico delle temperature (freddo, tiepido, caldo, scottante), o quello della trasformazione chimica della sostanza.
     
    Accendere
    Accendere è parente di incendio: un verbo e un sostantivo. Se ipotizziamo che all’origine entrambe le parole abbiano avuta la corrispondente mancante, quale che essa sia (per esempio: accensione e incendiare), ci troveremo di fronte a due coppie in cui i verbi sono: “ac-cendere” e “in-cendere”. Non è difficile constatare che sono due verbi formati con preverbio (prefisso): il primo prende la preposizione “ad” (movimento verso; prossimità); il secondo, la preposizione “in” (dentro; movimento dall’esterno all’interno).
     
    Chiarito l’apporto di significato fornito dalle preposizioni che stabiliscono la differenza tra i due verbi, ci resta di scoprire il significato del nostro ipotetico verbo radicale “-cendere”.
    Mi sarà capitato già di parlare di apofonia. Tuttavia in uno dei lemmi, pronti in redazione, ho avuto modo di parlarne in maniera particolareggiata. Perciò, nell’attesa che il lemma “apofonia” venga pubblicato, do qui una definizione essenziale di questo fenomeno fonetico. In breve: l’apofonia è quel fenomeno per cui una vocale di una parola cambia il colore a seconda che si trovi in una radice verbale o in una radice nominale, oppure quando il verbo senza preverbio assume il preverbio. Es. (latino) : “facio” (italiano: faccio) / per-ficio (italiano: faccio fino in fondo, porto a termine) . Sullo schema della lingua latina, esaminiamo i participi perfetti, vivi anche in italiano: fatto / perfetto. In questo caso si dice che la “a” è una vocale apofonica, cioè cambia colore (diviene “e”). La stessa cosa capita al verbo “cendere” quando prende la preposizione (in oppure ad) come prefisso. Diventa in-cendere e ad-cendere, con la a che diventa e . [La preposizione ad- diventa ac- per assimilazione regressiva].
     
    Nella lingua latina esiste il verbo candeo: possiamo già dire allora che tutte le parole italiane come: accendere, incendio, incenso, candido, incandescenza, candela, candidato, candeggina, ecc. appartengono alla stessa famiglia, cioè fanno parte della sfera lessicale (insieme di vocaboli) della luce, del chiarore, della luminosità, del candore, e – per le due voci che anticamente se ne sono allontanate: accendere e incendio – del fuoco e della fiamma.
     
    Spegnere.
    Scusate se mi riferisco ancora al latino, ma è l’unica strada. Ex-pingere: ex (preposizione) + pingere (verbo = dipingere, dare colore, illuminare dando maggiore o minore tonalità). La preposizione ex- davanti a “pingere” è usata con valore privativo e fa sì che il verbo significhi privare del colore.
    La teoria che i termini accendere e spegnere originariamente si muovessero nell’area semantica della luce e del colore è confermata dall’altro verbo: estinguere. Spero che adesso sia più facile seguire il ragionamento seguendo la sintesi grafica. Extinguo da ex + tinguo (sinonimo di tingo, che significa bagno [vedi le parole italiane “intingo” e “attingo”] e anche inumidisco (il colore).
     
    O che si ricolleghi, anche questo verbo, alla stessa area semantica, o che voglia aggiungere l’idea del “gettare acqua sul fuoco”, con questo metodo di ricerca qualche risultato siamo riusciti ad ottenere per rendere la lingua più trasparente.
                                                                                                                                          
     


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