«I GIOVANI non sono più quelli di una volta». Non so se questa affermazione sia completamente vera, ma fatto sta che quando sento parlare di violenza giovanile, salvando la gran parte dei nostri ragazzi, prime vittime di questa violenza, mi sento profondamente a disagio. Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente.
Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente di pena e di rabbia, da un senso di imbarazzo che mi rende incapace sia di accettare, sia di comprendere appieno questo aspetto aberrante del mondo giovanile.
È quello che ho provato questa settimana, di sicuro non io soltanto, di fronte a nuovi episodi di bullismo con cui la città ha dovuto fare i conti, con quella spietata microcriminalità, parola che abbiamo coniato per descrivere quel mondo di volgarità, di coltelli, di sevizie che vede attori ragazzini in aperta sfida contro le regole.
Non c’è ormai zona o quartiere della città che ne venga risparmiato, centro o periferia sono ormai uguali nell’essere offesi dalla furia incontrollata e squadrista di ragazzacci pronta a usare coltelli o a minacciare con pistole chiunque capiti a loro tiro per solo e puro divertimento, per dare forse significato a una serata da vivere in maniera alternativa.
Tanti si aspettano più repressione. Ma la repressione da sola non può bastare, altro richiede come risposta il tormento violento di giovani vuoti che proprio con il vestirsi da “bulli del sabato sera” raccontano la loro malata normalità, in bilico perenne tra l’essere “ragazzi perbene” e portatori insani di quella endemica noia unita a quella ricerca ossessiva di trasgressione generata “normalmente” in famiglie sempre meno “normali”.
Per questi giovani la violenza è uno dei tanti passatempi, purtroppo solo un vezzo per poter riempire di rumore il loro tempo che altrimenti sarebbe insopportabile per l’assordante silenzio di significati.
Indignarci va bene, protestare anche, ma basta? L’indignazione da sola potrebbe essere addirittura l’alibi degli adulti per nascondere le proprie responsabilità.
Chi sono intanto questi ragazzi, tanti ancora giovanissimi che dovrebbero portare i calzoncini corti e invece ci terrorizzano come i più consumati delinquenti? Perché preferiscono l’assurdo del degrado della violenza piuttosto che la civiltà del dialogo?
La nostra città non fa eccezione rispetto a quello che sta purtroppo capitando nelle grandi e piccole metropoli del mondo occidentale e per certi aspetti la violenza più cruda di altrove qui da noi per fortuna non è ancora arrivata. Ma i segni premonitori di avventure di soprusi e scorribande di una gioventù sempre più spietata sono nell’aria. Agiscono in branco perché da soli hanno paura, sono normalmente vigliacchi, da soli non ce la fanno, sembrano ragazzi tranquilli. Escono a una certa ora pronti alla bravata.
Tutto pianificato. Maneggiano armi, seviziano donne che possono anche uccidere, si drogano insieme e insieme bevono fino ad ubriacarsi e si ubriacano e si drogano sotto gli occhi di tutti. Ma ubriacarsi non è reato! Nemmeno drogarsi! Che c’entra con la violenza? Non c’entra, infatti. Ma possono essere segnali premonitori di un disagio non risolto, soprattutto se lasciati passare come espressione di libertà individuale, tanto tutti si drogano, tutti si ubriacano e un po’ di trasgressione non fa male a nessuno.
Comportamenti considerati normali in un tempo della crescita in cui invece ogni ragazzo dovrebbe poter fare i conti con ciò che davvero lo rende libero e ciò che invece lo schiavizza, un tempo in cui il rispetto dell’altro non può essere accessorio alla propria cognizione di libertà. E soprattutto un tempo decisivo in cui è difficile riuscire ad accettare altra autorità da quella del solo gruppo a cui appartengono.
Altra autorità che per essere accettata non può solo fare paura, usare la stessa arma o pagare con la stessa moneta chi è violento, ma che deve essere riconoscibile per altro mestiere, altra attitudine, altra proposta, trasparente di altro messaggio alternativo alla violenza e perciò autorevole. Perché è di tale autorità che oggi la nostra città è anemica, ed è per questo che il futuro è a rischio. Autorevole dovrebbe essere lo Stato, il governo delle città che dovrebbe garantire il rispetto delle regole comuni e promuovere l’etica del bene condiviso. È autorevole chi sa essere forte dei propri convincimenti anche in famiglia, leale e perfino martire del bene comune, chi non si svende al miglior offerente sia esso il mercato, le lobby, i partiti, i poteri occulti o clericali.
Non è autorevole invece chi si indigna per la violenza dei giovani e poi insegna ai propri figli l’etica della vendetta: “occhio per occhio, dente per dente”. Mandare in galera i ragazzini violenti forse è più facile che riconoscere che sono soggetti smarriti, soggetti persi da noi adulti che avevamo ricevuto invece il sacro compito di custodirli.
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