SERE fa ho fatto quattro passi a San Gregorio Armeno.
Tanta gente per strada pronta a mettere mano al nuovo progetto architettonico per allestire il proprio presepe, a scegliere i pastori più aggraziati e fare i conti con una tradizione che dice cultura, dice storia di un popolo oltre la festa. Un tempo il presepe entrava in tutte le case.
Nonni e nipotini preparavano l’evento. La nascita di un Dio bambino nel cuore della storia.
Poche cose bastavano per rispettare la tradizione: un po’ di sughero, del filo di ferro, colla preparata in casa con acqua e farina, muschio fresco.
A casa mia, quando ero ragazzo, come in tante altre case di Napoli, Natale si apriva a novembre e si chiudeva a gennaio. Il Bambinello nasceva come sempre il 25 dicembre, ma Natale non durava un solo giorno, non era una festa da consumare in poche ore al ritmo della pubblicità più suadente.
Si “trezziava”, il Natale, si giocava tra la sua attesa, il godimento e la speranza di riviverlo l’anno successivo.
“Trezziare” è verbo partenopeo che chiude in poche sillabe un mondo impossibile a dirsi in un solo fiato. È un vocabolo usato dai giocatori di tressette, quando scoprono lentamente la carta ancora nascosta sperando che sia il tre, la carta vincente. Così che a Napoli “trezziare” il Natale significa imparare ad assaporare l’emozione e la gioia dell’attesa.
Le cose belle non vanno mai ingurgitate, bisogna “trezziarle”. Si poggiava il voluminoso pacco su di un tavolo al centro della casa e in una nuvola di polvere si riapriva il Natale.
Un’emozione fatta di semplici gesti e la famiglia si ritrovava insieme e, mentre gli adulti spiegavano ai più piccini il significato dei pastori scartocciati, di padre in figlio si tramandava il senso profondo del presepe, di quel Vangelo senza libro.
Il presepe ancora oggi comunica la gioia della salvezza all’uomo qualunque che, in maniera distratta, continua a festeggiare il Natale senza nemmeno sapere perché. È l’espressione di un mondo di rappresentazioni mentali e culturali, che ignara la gente mette in atto quando con devozione costruisce il suo presepe, mettendo insieme il bisogno di Dio e l’attaccamento alla propria casa, alla propria terra.
Relitto culturale, il presepe parte da quelle statuine che nell’antichità, in ogni casa, raccordavano i morti con i vivi. Una forma di magica protezione. Mito, simbolo e tradizione, infatti, fanno del presepe un intreccio di storie che consentono di custodire la tradizione di un popolo, esprimendo la mai risolta assimilazione di un culto nuovo alla civiltà preesistente.
Il presepe napoletano è dunque lo sposarsi del Verbo che si fa carne con i miti, le favole, i racconti e le suggestioni di un popolo che continua a conservare il suo passato. D’altronde, la storia dell’inculturazione del messaggio cristiano passa anche attraverso quella silenziosa forma di acquiescenza, che permette ad ancestrali credenze di riaffiorare nel nuovo culto. Nel presepe napoletano una cosa è certa: Gesù Bambino nasce sempre nella vita di tutti i giorni.
Ed è proprio in questo calarsi di Dio nella quotidianità che si coglie il significato profondamente evangelico del presepe, dove a torto si crede che sacro e profano, passato e presente, storia e leggenda siano fusi insieme senza ragione.
Per capire il presepe bisogna entrarci dentro e fare lo stesso percorso del pastore della meraviglia che, arrivato alla grotta, rimase a bocca aperta come quanti, nel Protovangelo di Giacomo, rimasero paralizzati di fronte al miracolo di un Dio che si fa bambino per nascere nella vita di ciascuno di noi, nella Napoli di un tempo e in quella di oggi.
* Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).
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