NULLA cambia per quei milioni di ragazzi che, di questi tempi, giorno in meno, giorno in più, in Italia e a Napoli vedono riaprire i battenti della loro scuola. Ne ho visti di entusiasti e di più ricalcitranti nel loro primo giorno scolastico, trovandomi a passare dinanzi alla mia vecchia scuola elementare, la Luigi Vanvitelli, che da più di un secolo è la più antica scuola del Vomero.
Generazioni di bambini, dai pantaloni alla zuava ai pantaloncini corti, dalle cartelle di cartone nero ai moderni zainetti l'hanno attraversata e non è raro che sullo stesso banco prima i nonni, poi i padri e i nipoti hanno fatto il loro bravo dovere di studenti. Ancora oggi mi emoziona vedere ragazzi vocianti, a valanga uscire da scuola, e alle loro miste voci confondere quelle della memoria, volti di bambini compagni che hanno colorato la mia infanzia: le bambine dal grembiule bianco, i maschietti quello blu.
Diversa oggi la divisa dell'alunno, uguali i problemi, forse più accentuati di allora, di certo più avvertiti. Puntuali, come ogni nuovo anno, le promesse dei politici che saranno superati presto per una scuola all'altezza delle attese, puntuali i dibattiti sulla responsabilità della scuola in un tempo complesso che richiede giovani preparati alla sfida di una era globalizzata. Intanto viene messa a dura prova, tra parole vere e di circostanza, la speranza. Speranza che cerca soluzioni, che vorrebbe parole capaci di "via d'uscita" , di superare l'imbarazzo di questo tempo nel quale ci si sente imprigionati, paralizzati, impediti dal poter combattere la diffusa e penetrante tentazione al pessimismo, frustrati nel sognare di offrire ai propri figli un mondo migliore.
Eppure non esiste altro modo di amarli davvero che lasciare loro un futuro da sognare, unica possibilità che un educatore ha per esercitare la sacra passione del passaggio del testimone.
Non è semplice, ne sono convinto, rischiare di questi tempi parole controcorrente, parole come "ce la possiamo fare", come "coraggio oltre ogni rassegnazione", tuttavia questa resta la vera sfida per chi vuole mettere sottosopra la morte dei sogni. La scuola ha la grande responsabilità di organizzare la speranza per i ragazzi, responsabilità di far vibrare in loro parole significative capaci di durare nel tempo e permettere di dare forza alle loro aspirazioni.
Tuttavia nulla potrà da sola se nelle nostre case, nelle nostre famiglie, stanche e costrette alla fuga dagli ideali, è stata sotterrata la parola "futuro". Cantava Giorgio Gaber: "Non insegnate ai vostri bambini la vostra morale, è così stanca e malata potrebbe far male, forse una grave imprudenza è lasciarli in balia di una falsa coscienza". Parole che pesano e possono essere considerate una sorta di testamento spirituale di Gaber che facendosi pedagogo dolcissimo ma determinato, indica come primario, nel ruolo educativo, il bisogno di "dare fiducia all'amore", perché "il resto è niente". "Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente".
Nessuna scuola da sola sarà capace di passare futuro, inventare speranza per i nostri figli se verranno privati della fiducia nell'amore che può essere sperimentata pienamente nelle mura chiusa della propria casa. "Stategli sempre vicino". Ma quando? Spesso, dobbiamo riconoscerlo, i figli quando nascono sono ricchezza e problema, e i genitori, per necessità o per vizio comportamentale, provano da subito a mettere in campo una strategia della semplificazione della convivenza con loro. Il ruolo genitoriale si passa, di supplenza in supplenza, ad altri soggetti che, all'altezza o meno del loro compito, devono costruire ponti con chi si aspetterebbe altre sponde. Comunicazione quanto basta, priva di spiegazioni.
Il dialogo con i genitori resta essenziale, stanco, poche centinaia di vocaboli per non dirsi nulla. Televisori, play station, game boy e cellulari aiutano nella rarefazione dei rapporti diretti fra le generazioni. Quattro ore al giorno davanti alla tv, almeno un'ora con i videogiochi, il resto, quando non è scuola, è telefonino. E quando la semplificazione dell'adulto non risponde alle attese, non garantisce quella libertà che andrebbe riconsiderata il giorno in cui si mette al mondo un figlio, è il bambino che è irrequieto, iperattivo, scostumato, violento, depresso, forse malato. E la responsabilità è di altri, soprattutto della scuola. Difficile dirsi la verità, ma solo la verità renderà il futuro possibile, solo la verità inaugurerà la rivoluzione della speranza.
* Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).