All’inizio della scorsa settimana sono state rese ufficialmente note le liste dei vari partiti per le prossime elezioni politiche del 13 e 14 aprile. L’attuale legge elettorale italiana, un proporzionale senza voto di preferenza, fa sì che il partito e le sue élite giochino il ruolo imprescindibile di arbitro dei destini dei candidati. La “tua” posizione in lista ti dirà chi sarai. Partendo da questo punto, l’immaginazione può correre veloce verso le stanze in cui questi destini sono stati forgiati. I resoconti giornalistici lasciano trasparire solamente una parte della tensione che il momento “catartico” della scelta dei candidati porta inevitabilmente con sé. Guido Crosetto, tenente berlusconiano in Piemonte e politico di lungo corso per ciò che concerne trattative di palazzo e di partito, lasciava ben trasparire in un’intervista dalle colonne de “Il Mattino” (11 Marzo 2008) lo stress addirittura fisico che lo ha preso durante le trattative.
Nelle prime posizioni in lista (i “sicuri vincenti”) hanno trovato rifugio i vertici di partito e personalità della società civile particolarmente importanti e vicine alle istanze dei partiti che li hanno candidati. Ma scorrendo le liste verso le posizioni più basse ci si imbatte in nomi di persone spesso poco note al grande pubblico e che sicuramente, o quasi, non verranno elette. Mettendo insieme notizie ricevute chiacchierando con amici del settore, letture attente dei resoconti politici dei quotidiani e situazioni viste in prima persona di trattative telefoniche per i posti nella lista, ho potuto osservare come il livello di asprezza per ottenere tali posti in lista sia tutt’altro che commisurato alla certezza della “non-elezione” fornita dal far parte delle retrovie delle liste.
Cosa è, allora, che muove queste persone a battagliare in maniera estremamente dura affinché siano presenti in lista sebbene senza alcuna speranza? Un animo idealista votato al martirio elettorale, in nome del partito e dei suoi ideali? La vanità di vedere il proprio nome apparire sui giornali o nelle sedi elettorali? Una presunta mancanza di razionalità o una incapacità totale di lettura del reale? Nessuna di queste risposte è quella giusta. Probabilmente, le motivazioni albergano altrove. Per trovarne, bisogna leggere le elezioni in un’ottica temporale ben più ampia del singolo momento elettorale.
Ciò può fornire importanti chiavi di lettura del perché molti abbiano battagliato per essere in lista, anche da sicuri perdenti. Per molti, già esserci significa vincere, per tanti motivi. Il “martirio elettorale” di oggi può essere una carta importante da giocarsi domani. Aver mostrato una tale “dedizione al partito e ai suoi ideali”, candidandosi addirittura da sicuro perdente pur di “rendere un servizio”, utilizzando parole che spesso ricorrono nelle cronache politiche, possono essere delle formule retoriche utili da utilizzare nelle trattative future, quando il sicuro perdente di oggi probabilmente avrà un peso politico maggiore, tale da poter aspirare a posti di potere, siano essi elettivi o di nomina politica, di ben maggiore redditività.
Oppure, pensiamo al peso del dato territoriale. La storica debolezza di alcuni partiti in determinati territori consente ai candidati, qualora i risultati superino anche di poco le annunciate aspettative di debaclé, di assumersi tutto il merito di questi risultati: il loro radicamento personale su un territorio storicamente ostile li rende indispensabili ai propri partiti.
La candidatura, così, è solo un passaggio per traguardi successivi e per logiche d’azione diversificate nel tempo. Ora non importa essere eletti. Importa esserci, ad ogni costo. È questa la logica dei comprimari di lista. Perdere oggi per vincere (?) un domani.
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