Trasformiamo il 2018 in un anno per la speranza

Gennaro Matino (November 23, 2018)
Voglio pensare al 2018 come all’anno della svolta in cui tutti ci siamo resi conto di quanto fosse vero il detto banale, ricco di saggezza, secondo cui i soldi non fanno la felicità, per lo meno non bastano da soli.

 

Il 2018 sarà ricordato come l’anno dello spread, parola nuova entrata di recente nel nostro vocabolario, parola che non tutti comprendono, nonostante il martellamento quotidiano che ci impone di pensare soltanto al differenziale tra l’Italia e la Germania. 2018, anno della crisi o della svolta come dice il governo, vocabolo ormai di uso comune che tutti comprendono, anche le persone più semplici che di economia ne sanno poco, ma che la crisi la vivono sulla propria pelle. Niente di nuovo sotto il sole, si tratta di quella stessa crisi che nel 2009 travolse i mercati e che oggi si fa ancora sentire nelle tasche dei cittadini. La crisi di cui tanto si parla è una crisi che viene da lontano. È la crisi dell’uomo, iniziata negli anni Ottanta, quando al valore dell’essere umano si è preferito quello economico aprendo la strada al pensiero unico, alla globalizzazione dei mercati, alla mercificazione dei diritti umani.

È la crisi del 2012, la crisi dei valori determinata passo dopo passo ogni volta che alla centralità dell’uomo si è preferita la sovranità degli speculatori ai bisogni primari della gente. Eppure, non mi va di pensare al 2018 come all’anno della sola crisi, mortifica la mia esistenza la sola idea di aver vissuto 365 giorni all’ombra dello spread. Possibile che non abbiamo altro a cui pensare? Di questi dodici mesi voglio ricordare altro, qualcosa di più prezioso del conto in banca, voglio socchiudere gli occhi e rivedere le domeniche trascorse in famiglia, il sorriso di un bambino, lo sguardo sincero di un amico, una stretta di mano, una carezza. Di quest’anno fatto di parole di sconfitta, di disfatta, di odio per l’avversario, di fake news, di nuova arroganza di potere che passa per popolare e invece ingabbia la libertà di dire, di pensare, di essere diversi, che sembra cancellare ogni speranza, voglio ricordare quelle piccole cose che fanno grande la vita.

Voglio pensare al 2018 come all’anno della svolta in cui tutti ci siamo resi conto di quanto fosse vero il detto banale, ricco di saggezza, secondo cui i soldi non fanno la felicità, per lo meno non bastano da soli. Forse con il tempo impareremo a guardare al 2018 come all’anno della provocazione che ci ha costretto a vedere dentro di noi, a riappropriarci di noi stessi e a lasciarci alle spalle un’idea errata di politica, di economia il cui fine non è accumulare denaro, privilegiare alcuni a danno di altri, ma liberare l’umanità da ogni schiavitù, da quella lotta per la sopravvivenza che mette un popolo contro l’altro e causa lacrime e sangue.

Il 2018 potrà essere ricordato come l’anno della svolta se la politica, la cultura, la scienza, se tutti gli uomini di buona volontà, se tutti insieme, pronti a invertire la rotta, impareremo a parlare nuovi linguaggi, il linguaggio dei popoli, della democrazia, il linguaggio della condivisione e non quello dell’individualismo, il linguaggio dell’uomo e non quello della disumana sua caricatura. Il tempo della crisi non è una novità per la storia umana costretta più volte nei suoi corsi e ricorsi a fare esperienza dei cambiamenti. L’unica novità è forse la velocità globale della moderna comunicazione che lascia spazio a una diversa e più catastrofica interpretazione dell’inevitabile processo di mutamento della storia, facendo apparire la situazione attuale come un drammatico approdo.

Apocalissi iniziano e si concludono e in ogni tempo profeti dell’estinzione si affacciano sul palcoscenico del mondo ogni qualvolta il cambiamento non è stato previsto, quando i segni premonitori non sono stati colti come una provocazione tale da indurre a riflettere su un diverso e possibile stile di vita, continuando a credere che tutto possa rimanere immobile, immutabile. Di fatto, ogni crisi è intimamente espressione di un processo di mutamento, che non è necessariamente un evento negativo. Tutto sta a saper interpretare i suoi intimi significati e a avere il coraggio della profezia, la voce di chi sa guardare avanti, convinto che il tempo non sia solo prigioniero di rimpianti. Sarebbe drammatico se gli intellettuali e gli uomini di pensiero si lasciassero semplicemente travolgere dalla ruota del destino, annullando il peso della responsabilità che invece esige l’interpretazione del dato reale.

La via di ogni liberazione passa attraverso il gioco faticoso della verità e il tempo della profezia nasce quando le parole malate, dettate dalla convinzione di essere arrivati all’approdo finale, si perdono nel silenzio assordante del nuovo che avanza, di un nuovo che non piace, che è volgare ma da cui non si deve scappare, non si può, con cui si devono fare i conti. Io non voglio morire di spread. Questo tempo non mi piace, ma è il mio tempo e per questo lotterò, ancora di più, perché la speranza ritorni a parlare.
 

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