Napoli. L’ulivo si secca, la speranza no

Gennaro Matino (April 13, 2014)
Un urlo per Napoli. Riappropriamoci dell’orgoglio di essere popolo, una famiglia allargata, prendiamo il ramoscello della pace, consegniamolo come annuncio di riscatto a chi proprio non se l’aspetta e auguriamo a lui e a noi: ce la possiamo fare, insieme ce la faremo. Questo la Domenica delle Palme, quando la memoria si intenerisce andando al tempo in cui i giovani mettevamo qualche fogliolina all’asola pronti a vivere il giorno di festa, il grido dell’Osanna che apriva la settimana santa. Un tempo le foglioline dall’asola o dalle borse passavano alle mani, agli affetti e consegnavano nel gesto antico un bisogno presente di serenità. Si portava in ogni casa la palma, che palma non è ma ramoscello di ulivo giovane, speranza di nuova avventura in attesa della Pasqua, voglia appassionata di serenità, di armonia, di famiglia riunita. Si portava a casa l’ulivo e si conservava per la domenica seguente quando, tuffato nell’acqua benedetta, ogni padre una volta l’anno si faceva coraggio e vincendo ogni pudore aspergeva la sua famiglia, benediceva il capo dei suoi cari e aggiungeva commosso: “Abbiamo visto insieme un altro anno!”.


Domenica delle Palme, la memoria si intenerisce andando al tempo in cui i giovani mettevamo qualche fogliolina all’asola pronti a vivere il giorno di festa, il grido dell’Osanna che apriva la settimana santa. Tra le diverse ricorrenze, questa domenica è forse quella che da sempre conserva il rumore della strada. Lo è ancora per tanti, che senza alcuna remora si dichiarano credenti in quel poco d’ulivo indossato senza vergogna, quasi vessillo di appartenenza. Fruscio di ulivo che si sposta di strada in strada, verde giovane attaccato a ramo potato fresco per consentire al saporito frutto di crescere rigoglioso.

Oggi è inizio di passione e attesa di resurrezione, giorno di incontri, festa di perdono per chi vuole tentare la via della riconciliazione. Un tempo le foglioline dall’asola o dalle borse passavano alle mani, agli affetti e consegnavano nel gesto antico un bisogno presente di serenità. Si portava in ogni casa la palma, che palma non è ma ramoscello di ulivo giovane, speranza di nuova avventura in attesa della Pasqua, voglia appassionata di serenità, di armonia, di famiglia riunita. Si portava a casa l’ulivo e si conservava per la domenica seguente quando, tuffato nell’acqua benedetta, ogni padre una volta l’anno si faceva coraggio e vincendo ogni pudore aspergeva la sua famiglia, benediceva il capo dei suoi cari e aggiungeva commosso: “Abbiamo visto insieme un altro anno!”.

 

E anche quando, passata la Pasqua, la palma era ormai pronta a seccare si conservava con gelosa cura, reliquia di amore spartito, memoria di un gesto semplice e potente quanto il desiderio che quella benedizione paterna potesse durare tutto l’anno, tutta la vita. Seccava il ramo non la speranza, seccavano le foglioline che, ormai brunite, cadendo scricchiolavano sotto le scarpe. Non seccava la gioia di sentirsi casa, di sapersi protetti in casa propria. Era quella la festa, la gioia di spartire la vita. Napoli era tutta una famiglia, perché ogni famiglia era Napoli. Problemi ce n’erano tanti, di sicuro più di oggi, ma la festa era per tutti, anche per i meno fortunati, forse perché tutti erano un po’ più poveri.

 

Ora le cose vanno in una direzione diversa e la speranza a Napoli rischia di seccare. Una città, la nostra, mai capace di capire se stessa fino in fondo, di vedere dentro di sé, una città difficile da raccontare a chi la guarda da lontano, ancora più difficile passarla in giorni complicati come questo, in cui le fronde odorose di ramoscelli d’ulivo devono fare i conti con una pace difficile da annunciare nel suo ventre, da raccontare a tanti suoi figli disgraziati, troppi per essere una città normale, uomini e donne che non sanno più cosa significhi vivere una festa.

 

Ogni giorno per loro, stesso giorno, stessa prova da affrontare, poco pane da spartire. Difficile da spiegare che oggi è la festa del perdono a chi prova sulla propria pelle l’abbandono, e avverte tanta rabbia dentro, difficile portare pace a chi vive in perenne conflitto, a chi dalla festa è escluso perché stordito dal rumore delle proprie ferite, dal peso delle proprie lacrime. I soli rami da agitare per tanti restano quelli della disperazione, forse della ribellione, peggio della rassegnazione. Case abbandonate al loro destino, famiglie seviziate, futuro rubato.

 

Tuttavia il coraggio della speranza si esalta proprio nel giorno della prova e se Napoli vuole ritrovare se stessa deve poter ridiventare città della compassione. Non si possono lasciare da soli quelli che ormai hanno perso tutto, che sentono di aver perso Napoli. Sperare è categoria da atleta speciale che non corre per gareggiare sugli altri ma con se stesso, con il suo domani che spera essere diverso da un presente sofferto, deluso, deriso, schiacciato dal sopruso.

 

Speranza è lottare per un giorno migliore, che non sia più prigioniero come quelli vissuti in tempo di lutto. Napoli non è la sua decadenza, non è la scelleratezza di quanti, passando sul suo cadavere, fanno bottino delle sue carcasse. Napoli è fatta anche di gente generosa, aperta, orgogliosa della propria appartenenza, per questo può farcela, deve farcela, e la responsabilità è soprattutto di chi già ce l’ha fatta. Napoli può riscoprirsi famiglia se chi ha più degli altri fa pace con chi non ha più niente, se chi si sente benedetto abbraccia i maledetti dalla storia.

 

Domenica delle Palme è icona di un percorso che racconta il passaggio dalla morte alla vittoria definitiva, un passaggio che non può non provocare chi ha a cuore il destino della propria città.


Riappropriamoci dell’orgoglio di essere popolo, una famiglia allargata, prendiamo il ramoscello della pace, consegniamolo come annuncio di riscatto a chi proprio non se l’aspetta e auguriamo a lui e a noi: ce la possiamo fare, insieme ce la faremo.



* Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

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